Ogni tanto il manifesto (il mio giornale di riferimento e non solo), oltre al tanto che sappiamo, ospita alcuni confronti, sempre utili, anche se non portano agli invocati “risultati concreti”.
Tra gli ultimi dibattiti c’è quello “partito” con un contributo di Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga, del 17 Dicembre 2020 (qui), a cui sono seguiti, finora, quattro interventi interessanti.
«Tutti i cittadini dispongono a vario titolo di capacità e potenza di cittadinanza attiva variamente esercitata in termini di controllo, progettazione, tempo libero disponibile, autogestione, volontariato, capacità d’inchiesta, e via dicendo»: a me sembra che questa espressione usata dagli autori (ma si potrebbe dire anche «ognuno secondo le sue capacità, ognuno secondo i suoi bisogni») sia una buona sintesi per delimitare «valori e discriminati» per uno «spazio aperto e plurale», per costruire «il progetto nuovo per il paese». Queste ultime sono realtà invocate da Pierluigi Bersani (qui) e riprese da Antonio Florida (qui).
Ardeni e Bonaga concludono il loro contributo domandandosi «che fare e, soprattutto, come farlo»; i contributi successivi si focalizzano su proposte organizzative e politiche, richiamano convegni famosi più remoti e meno famosi più recenti, seminari da fare, ponendo domande sul «dove si comincia?» su chi è chiamato a «fare il primo passo». Ancora una volta mi resta utile citare Ardeni e Bonaga: «le letture fenomenologiche di questa crisi (…) sono però inefficaci a rimediarvi». Il punto, però, è che, secondo me, oltre a queste, non c’è una lettura da sinistra che sia mobilitante ed efficace, o perlomeno finora non è stata registrata.
Potremmo fermarci qui e attendere – sempre pronti, ma sempre di meno – di poter dare credito a chiunque a sinistra batta un colpo, ferma restando la teoria della “ciabatta vecchia e rotta”, per cui non ha senso abbandonare delle organizzazioni (la vecchia ciabatta), se non hai a disposizione una nuova e credibile soluzione organizzativa (un bel paio di scarpe nuove).
Tuttavia un’operazione propedeutica, assolutamente necessaria a qualsiasi cosa, può essere una riflessione seria e spregiudicata sulla nostra storia, di tutta la sinistra (interessante questo centenario del PCdI, su cui penso di dover ritornare con un articolo specifico). Non è vero che sappiamo tutto, o perlomeno non è vero che le riflessioni fatte poggiano sempre, saldamente, sulla conoscenza critica di ciò che siamo stati, di quando e perché siamo “cresciuti” – rappresentando bene i lavoratori e le lavoratrici, insieme a tutto il popolo – e di quando e perché abbiamo cominciato (questo è l’aspetto più difficile) a non capire la realtà, ad arretrare, a perdere rappresentanza.
Qui torno al “mio” giornale, il manifesto. La definizione nella testata (quotidiano comunista), di cui quest’anno si celebra il 50°, non è solo un richiamo che ci inorgoglisce, ma si collega a questa espressione il periodo precedente della rivista, di cui il quotidiano rappresenta una continuazione e il suo sviluppo. Quella definizione rimandava al tratto caratteristico del gruppo politico il manifesto, il quale era conosciuto come quello «della maturità del comunismo»: questo è l’imprinting! Luciana Castellina, il 22 Dicembre 2020, nel commemorare Leo Panitch (qui) a un certo punto ci dice: «ricordatevi che le “Tesi per il Comunismo” pubblicate dalla rivista Il Manifesto nel 1970 furono pubblicate persino in Giappone».
Quel documento, molto politico, si proponeva la costruzione di un nuovo soggetto politico che riunisse la sinistra rivoluzionaria e le sue 200 tesi certamente hanno peccato di volontarismo e politicismo; ma il blocco centrale, dalla tesi 57 alla 77, che vanno sotto il titolo di “Maturità del comunismo” (che poi ci è rimasto appiccicato addosso indelebile), questo blocco, dicevo, nonostante qualche piccola e insignificante forzatura, è un documento di grande valore. Se lo si legge, mettendo tra parentesi il fatto che sia stato scritto 50 anni fa, si ha la sensazione di avere di fronte un documento che spiega cosa è successo nell’ultimo cinquantennio, tale è la capacità di lettura dei fenomeni allora in corso e la capacità di interpretazione delle tendenze in formazione.
Pietro Ingrao, mi pare, una decina di anni fa, intervistato proprio da il manifesto, in una delle tante celebrazioni che ci hanno accompagnato in questo – purtroppo lungo – periodo, alla domanda sulla radiazione del nostro gruppo dal PCI rispose: “il manifesto aveva doppiamente ragione, sul metodo e nel merito” (cito a memoria). Io credo che il senso profondo a cui rimanda la definizione quotidiano comunista, nella testata, sia appunto quello della “maturità del comunismo”.
Può quel giornale – e/o qualunque altro soggetto – riprendere una riflessione ad ampio raggio partendo da quella elaborazione?
Per me è indispensabile, al fine di avviare e estendere il dibattito affinché si “promuova uno spazio aperto e plurale e lo si delimiti affermando valori e discriminanti”.
La storia si è incaricata di certificare quanto fosse corretta quella lettura, che chiamavamo “maturità del comunismo”, per definire la marcescenza dei rapporti di produzione (sui quali «si eleva una sovrastruttura giuridica e politica»), di cui noi oggi vediamo la crisi, senza saperla spiegare. Poi, anche noi abbiamo contribuito a mandare tutto a ramengo, oltre a esserci incamminati, tutti e tutte insieme appassionatamente, in quel percorso che ci sta portando a una prevista catastrofe.
Questo manca a sinistra, la consapevolezza di ciò che è stato: occorre ritrovare il punto in cui ci siamo persi, per ripartire. Queste se vogliamo fare passi avanti. Bisogna ripartire da qui.
Qui è Rodi, qui bisogna saltare!
Foto da ilmanifesto.it
Pensionato, una vita nella CGIL, di cui è stato anche nella segreteria regionale, eletto con il Partito della Rifondazione Comunista come consigliere provinciale per due mandati legislativi fino al 2004, successivamente nel Consiglio Comunale di Colle di Val d’Elsa, dove già era stato eletto nel 1980, ha svolto l’incarico di Assessore.