Contratto tra Movimento 5 Stelle e Lega: una prima valutazione
Il contratto tra Lega e Movimento 5 stelle è un documento utile e essenziale per prefigurare quale società hanno in mente i due partiti di governo.
Può non piacere la forma contrattuale per esprimere un programma, ma la nostra intenzione è analizzare la sostanza politica di cui sarà fatto il futuro programma di governo Salvini-Di Maio.
Per una volta sembra aver ragione Salvini, quando afferma che il cosiddetto contratto per “il governo del cambiamento” è sostanzialmente una traduzione del programma della Lega e del Centrodestra. Misure terrificanti sulla giustizia, improntate ad una visione afflittiva della pena preilluministica, si accompagnano alla promessa fascista di trasformare l’Italia in un inferno per migranti e richiedenti asilo, in spregio alle più basilari norme umanitarie internazionali, e all’intento di rendere l’Italia il Far West d’Europa importando la legislazione “stand your ground” tipica degli stati più conservatori tra gli Stati Uniti d’America, dove ha generato negli anni un aumento impressionante degli omicidi e della violenza con arma da fuoco.
Un programma di estrema destra che riallinea la politica alla barbarie del discorso diffuso, e che non si salva nemmeno nel tanto incensato paragrafetto in cui si prospetta una riapertura dei rapporti con la Federazione Russa. La normalizzazione dei rapporti con la Russia non risponde infatti a una visione geopolitica d’insieme, che avrebbe pure un suo senso, ma piuttosto alle sollecitazioni della piccola borghesia imprenditoriale del Nordest italiano e dei piccoli agrari della filiera del lusso settentrionale, due categorie che hanno visto i propri interessi economici danneggiati dalle sanzioni imposte contro la Russia e che costituiscono da sempre la base politica della Lega.
In base allo stesso ragionamento egoista e distorto sarebbero egualmente condannabili sanzioni contro la Turchia (che ha assorbito 10.094 milioni di euro di export italiano nel 2017, contro i 7.985 milioni “postsanzioni” della Russia – erano circa 10 miliardi prima delle sanzioni e delle controsanzioni russe), auspicabili data la campagna sanguinaria intrapresa contro il Rojava, o misure contro gli Emirati e l’Arabia Saudita (9.292 milioni di euro di export italiano acquistati in totale) per le atrocità della guerra in Yemen.
Tra l’altro Salvini e Di Maio non si fanno mancare una riforma costituzionale che ricalca nella sostanza e nello spirito quella renziboschiana, con l’aggiunta di un’introduzione in prospettiva del vincolo di mandato, un artificio giuridico che ha storicamente paralizzato l’attività legislativa ovunque fosse applicato, con corrispettivo aumento dell’importanza dell’Esecutivo anche in questo ambito. Per non parlare delle follie in campo fiscale, che i futuri partner di coalizione sperano di finanziare con la crescita – dimostrando una fede nelle fumisterie pseudoscientifiche à la curva di Laffer che farebbe arrossire un repubblicano statunitense convinto – e che molto più probabilmente, se applicate, sono destinate a trasformare l’Italia in un nuovo Kansas, con le finanze a pezzi e i servizi pubblici più basilari in stato di totale abbandono [si veda qui].
Con qualche parola vaga sulla corruzione e gli sprechi, e con i soliti refrain euroscettici a buon mercato – qualcuno ricorda il Renzi che tuonava in video contro gli “eurocrati” con solamente bandiere italiane come sfondo? – i “gialloverdi” si apprestano a vendere agli italiani una ricetta degna del peggior antistato berlusconiano.
Non si può evitare un sorriso amaro, pensando alla fine che hanno fatto le pretese rivoluzionarie di un movimento nato su ideali di “onestà” e buona amministrazione.
Piergiorgio Desantis
La lettura del contratto tra i 5 stelle e Lega è stata utile per capire le alchimie che hanno dato origine a questa inusuale forma di programma. Infatti, va abbandonato quel facile senso di scherno o derisione che hanno accompagnato chi, anche a sinistra, ha avanzato delle critiche. Vanno prese davvero sul serio le intenzioni di chi prenderà in mano le redini del nostro Paese.
Preliminarmente, mi pare che il programma abbia alcuni limiti gravi e importanti che riguardano la genericità delle proposte: le misure si spiegano poco e male con contraddizioni e con pochi cenni al ritrovamento di fondi per realizzarle; inoltre, questo documento è stato ideato, come un vestito di arlecchino, da parti assai diverse tra loro, che fanno immaginare, persino, gli autori stessi. Entrambi sono segnali, per chi scrive, della mancanza di cultura politica alla base di entrambe le forze politiche e della possibilità che ben poco venga realizzato del contratto stesso e del fatto, in definitiva, lo stesso governo potrebbe non durare a lungo.
La società che emerge si fonda sulle piccole medie imprese, sul turismo e sull’agricoltura. C’è un riferimento molto vago al recupero dell’Ilva di Taranto, in cui si fa riferimento alla salvaguardia dei posti di lavoro e della salute (e chi vorrebbe il contrario), mentre non vi è alcuno spazio alle grandi imprese italiane (tranne per la difesa di quelle che producono armamenti), manifatturiere e non, che hanno permesso l’avanzamento complessivo dell’economia italiana (pur con profondi squilibri) nel periodo del boom economico. Si vede che non è stata introiettata una realtà, già ampiamente diffusa e confermata in Europa, ovvero che uno Stato che non possa contare su imprese (private e pubbliche) che coprano importanti settori industriali (dalla chimica al tessile, dalla siderurgia all’automotive etc.) semplicemente non ha alcun peso specifico in ambito europeo ed è relegato a una posizione assolutamente marginale. Infatti, ci siamo ritagliati, ben prima di questo governo, ma si rivendica e si rilancia in continuità con i precedenti, un piccolo spazio nell’extra lusso delle PMI, un posto del turismo spesso mordi e fuggi (non analizzando assolutamente le modalità e le ripercussioni di questo modello di sviluppo) e uno nell’agricoltura e lavorazione alimentare. Insomma, un qualcosa in più della Grecia, mentre è confermata la differenza abissale con Francia e Germania.
La parte sul lavoro è assolutamente insufficiente e inefficiente, perché, oltre a ribadire l’articolo 36 della Costituzione ovvero il lavoro dignitoso e ben pagato (e chi non lo vorrebbe) e all’inammissibilità di tirocini gratuiti (cosa sacrosanta ma, difficilmente, si risolve un problema gigantesco con una frase) si vuole reintrodurre il voucher (problema che è centrale nel documento) perché, per gli autori del documento, il problema dei problemi è quello del lavoro accessorio. Innanzitutto, non si fa riferimento all’utilizzo surrettizio e ipertrofico dello strumento, che rende il lavoratore assolutamente subalterno e precario e senza alcun futuro. Su ciò va rilanciata la grande battaglia della Cgil con la raccolta di firme sull’abolizione dello stesso, poi bloccata con un provvedimento ad hoc dal governo Gentiloni. Inoltre, non c’è alcun accenno a quale modello di lavoro si faccia riferimento. Non c’è alcun riferimento neanche al recupero e al rilancio della centralità del contratto a tempo indeterminato full time come modello di sviluppo futuro che permetta una vita dignitosa; non c’è alcun passaggio sulla selva di modelli di contratti precari venuti fuori a partire dal pacchetto Treu in poi né come sostenere o aiutare tutto il mondo del lavoro autonomo o pseudo autonomo (sempre più ampio) che necessita di un intervento serio e statale che riguardi aspetti essenziali quali assicurazione professionale, ferie, maternità etc. Invece si avanzano critiche generiche al Jobs Act, che produce anche precarietà, cosa peraltro vera, mentre si chiede un rilancio e potenziamento del sistema italiano dei centri per l’impiego che permetterebbero la ricerca del lavoro. Anche quest’ultimo è un aspetto su cui lavorarci, ma non si focalizza sufficientemente l’attenzione sul problema della mancanza di lavoro in Italia (che sia equo e dignitoso) e sulle modalità del legislatore per crearlo.
È significativo l’impegno assunto dal futuro governo per il Mezzogiorno e per le aree svantaggiate italiane: in un parola assente. Questo problema, che si sta ulteriormente aggravando, si liquida anzi con una frase, forse ironica forse naive, ovvero che lo sviluppo italiano deve essere omogeneo. Non c’è spazio per una riflessione né sulle risorse da investire e nemmeno sul ruolo dello stato italiano che, almeno, dovrebbe provare a impedire che la gioventù, la meglio gioventù, emigri e lasci questi territori alla desertificazione culturale, politica e economica.
La battaglia sullo sviluppo e sul rilancio del tessuto produttivo e economico del Sud, unitamente all’incostituzionalità e alla profonda ingiustizia della Flat Tax, potranno e dovranno essere due dei temi essenziali per la ricostruzione un’opzione e una visione di Sinistra non minoritaria anche in Italia.
Quello che abbiamo di fronte è un accordo politico, sancito nella forma contrattuale tra due forze politiche non appartenenti ad alcuna coalizione pre-elettorale. Mi pare innegabile che non si tratti di un banale contratto, siccome vi sono in ballo politiche pubbliche di sviluppo che prevedono la possibilità di determinate variabili e che dovranno adattarsi a contesti e a risorse mutevoli.
Gli estremi del contratto che chiunque può consultare (vedi qui) prevedono finalmente la creazione di una banca pubblica che si occupi di finanziare risparmio e indirizzare il credito per rilanciare l’industria in questo disastrato paese. Come disprezzare poi, di questi tempi, un programma di governo che prevede la messa in discussione dei Trattati Europei? Vorrebbero farcelo disprezzare forse proprio i sostenitori di Tsipras? No, grazie.
La ricollocazione della Russia nello scacchiere della politica estera italiana quale alleato è certamente un elemento indispensabile per la ricerca della pace.
Infine, il punto cardine resta il lavoro. Nel “contratto per il cambiamento” non vi è nulla di straordinariamente rivoluzionario, ma l’attivazione di risorse per mandare i lavoratori in pensione prima è un elemento che di per sé consente già di liberare posizioni per chi è in cerca di una collocazione. Senza stare troppo a fantasticare sulla quarta rivoluzione industriale, per affrontare la quale occorrerà davvero ridisegnare il welfare (se lo si vuole mantenere e non cancellare come vogliono fare i liberisti) con metodi innovativi quali il reddito di cittadinanza. Insomma, nel contratto mi pare di scorgere una bozza di idee valide per affrontare non del tutto supinamente i giorni a venire. Staremo a vedere in che misura questa intenzione verrà rispettata.
Se Di Maio e/o Salvini dovessero presentargli il fascicolo di carta che hanno cofirmato, il Presidente della Repubblica non potrebbe far altro che respingerlo per evidenti vizi di forma. Nell’ordinamento giuridico italiano il contratto regola infatti un rapporto di natura patrimoniale, che si spera non sussistere (o almeno non è dichiarato) nel caso in essere. In più, le firme dei due capi sono autenticate ai sensi della normativa che disciplina gli atti di notorietà, ovvero le deposizioni concernenti fatti giuridici: l’unica cosa notoria, qui, pare essere una suprema faciloneria.
Per di più il contratto è scritto in un cattivo italiano, con numerose imperfezioni grammaticali, e tradisce la sua natura di patchwork, una creatura di Frankenstein di carta con pezzi partoriti separatamente e poi cuciti senza alcuna rifinitura.
Quanto alle enunciazioni di merito, su alcuni capitoli vi è il nulla assoluto: dichiarazioni di principio e astratte prive di indicazioni concrete sui passi di realizzazione (punti: 4, Ambiente, green economy e rifiuti zero; 7, Cultura; 21, Sanità; 22, Scuola).
Laddove invece nel merito si entra, emerge un programma di chiara impronta fascista, con una politica socio-economica che punisce i lavoratori a vantaggio dei proprietari e degli improduttivi e con un ritorno di sapore crispino in politica estera: un piccolo Paese con manie di grande potenza.
Il marchio fascista appare anzitutto nella proposta di costituire un Comitato di Conciliazione (punto 1, Il funzionamento del governo e dei gruppi parlamentari) con l’incarico di decidere e indirizzare l’azione di governo: un organo privato che si arroga poteri costituzionali, in una eversione identica a quella del Gran Consiglio del Fascismo. In attesa che il Comitato venga costituzionalizzato, come lo fu il Gran Consiglio nel 1928, le riforme costituzionali proposte puntano alla «democrazia organica» teorizzata da Mussolini: introduzione del vincolo di mandato, dimezzamento della rappresentanza parlamentare, cancellazione del quorum per i referenda, introduzione del referendum propositivo, prevalenza della Costituzione sul diritto comunitario (punto 20, Riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta). Verrebbero inoltre eliminate la componente del Consiglio Superiore della Magistratura di elezione parlamentare (punto 12, Giustizia rapida ed efficiente) e la supervisione del Parlamento sulla radiotelevisione pubblica (punto 27, Trasporti, infrastrutture e telecomunicazioni). La stessa verifica dei poteri del Parlamento verrebbe affidata a un’autorità esterna, visto che la Giunta per le elezioni è definita «organo anacronistico in quanto composto essenzialmente da politici» (punto 6, Conflitto di interessi). Il Consiglio dei Ministri sarebbe precluso agli esponenti della massoneria (punto 1, cit.), esautorando evidentemente il Presidente della Repubblica del potere di nomina dei ministri; l’ingerenza del potere centrale si estenderebbe anche alle amministrazioni locali e alle società a partecipazione statale mediante un’elastica normativa sul conflitto di interessi (punto 6, cit.).
Oltre alla questione istituzionale, si propone un giro di vite e di violenza nel sistema penale: definendo la difesa (leggi: lo sparare a un ladro) sempre legittima, inasprendo la procedura penale nei confronti dei minorenni e indurendo la sorveglianza all’interno del carcere (punto 12, cit.).
Non mancano gli aspetti più tragicomici, come il ritorno all’autarchia – qui opportunamente definita con la più tranquilla perifrasi «sovranità alimentare dell’Italia» (punto 3, Agricoltura e pesca – Made in Italy). Ciò che invece vi è di nuovo è una decentralizzazione (punto 20, cit.) che si abbina benissimo al tentativo di saccheggiare lo Stato che emerge dalle proposte socio-economiche. Queste si dividono sostanzialmente in due campi: le oscene elargizioni di danaro pubblico e una politica, questa molto seria, di indebolimento del Paese e della sua produzione.
Del primo campo fanno parte il trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi noto come “flat tax” (punto 11, Fisco: flat tax e semplificazioni), le generose assunzioni nei Carabinieri, nella Polizia penitenziaria e in generale nelle forze dell’ordine (punti 9, Difesa; 12, cit.; 23, Sicurezza, legalità e forze dell’ordine) e l’innalzamento del trattamento assistenziale per gli invalidi civili con l’edificazione di un dicastero ad hoc e senza alcuna parola sui falsi invalidi che evidentemente prospereranno (punto 16, Ministero per le disabilità).
Il secondo campo si fonda invece su una visione dell’Italia i cui perni strategici sarebbero la riduzione a Paese turistico, con il terrorizzante inciso che «il turismo culturale è solo uno dei “turismi”» (punto 28, Turismo) – ma se riaprono i bordelli come vuole la Lega forse arriverà anche quello sessuale –, e nella piccola impresa che invece, con la sua refrattarietà all’innovazione e il fabbisogno di manodopera poco qualificata, è oggi semmai tra i principali problemi (punti 5, Banca per gli investimenti e risparmio; 14, Lavoro; 15, Lotta alla corruzione).
Su lavoro e pensioni, la promessa del salario minimo orario, gentilmente scopiazzata dall’esecrato programma PD, si accompagna alla riduzione del cuneo fiscale per le imprese (punto 14, cit.), mentre il reddito di cittadinanza diventa miracolosamente un mero reddito di base (punto 19, Reddito di cittadinanza e pensione di cittadinanza).
Nello scenario internazionale vengono infine perseguiti due obiettivi apparentemente contraddittori: un nuovo isolazionismo del Paese e la riaffermazione del vincolo atlantico. Quest’ultimo punto è enunciato esplicitamente (punto 10, Esteri) mentre il primo emerge dalla volontà di sottoporre i Trattati comunitari di libero scambio al vaglio dei Parlamenti nazionali (punto 3, cit.) e da formule innocue quali «creare condizioni favorevoli alle esportazioni» e «ridiscussione dei Trattati dell’UE e del quadro normativo principale a livello europeo», ma raccapriccianti perché dietro di esse si cela la volontà di uscire dall’euro (punto 8, Debito pubblico e deficit).
Inutile dire, in un’Italia più sola e più debole e che resti dentro la Nato, quale polo prevarrebbe: se la sovranità nazionale o l’ingerenza straniera.
Già sullo scorso 12 mani avevo parlato di quella bozza che si profilava diventare il contratto di governo fra Lega e 5 Stelle. In una settimana, quell’impostazione è stata sostanzialmente confermata nei suoi punti salienti. Eviterò dunque di ripetere il motivo per cui a mio avviso il documento firmato da Di Maio e Salvini sia un programma fondamentalmente incoerente. Più interessante invece parlare dell’unico elemento di coerenza del patto: l’essere di destra. In tutta la sua mancanza di sistematicità, organicità e visione del futuro, va ammesso che l’orientamento è piuttosto chiaro: un programma chiaramente di destra con qualche concessioncina alla base movimentista, soprattutto del 5 Stelle, e tante chiacchiere, come al solito vaghe e circostanziali, che infatti storicamente tutti hanno sbandierato ma nessuno ha mai messo in pratica (lotta all’evasione, lotta alla mafia, taglio delle pensioni d’oro, rimettere al centro la scuola, l’importanza della cultura e bla bla bla).
La sintesi fra le due forze politiche ha infatti fortemente ridimensionato gli aspetti di rottura con i precedenti esecutivi: messa in discussione dei trattati europei, revisione della legge Fornero, chiusura dei cantieri della TAV Torino –Lione, abolizione del Jobs Act non sembrano essere elementi più rilevanti. Addirittura il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del 5 Stelle è, nei progetti, ridotto in sostanza a un mero assegno di disoccupazione. Cosa resta dunque come proposta forte in questo documento? A parte l’ovvia enfasi messa sulla sicurezza (ovvia per dei partiti di destra), a ben vedere solo un punto caratterizza l’identità politica di questo strano mostro giallo-verde: la flat tax.
Questa follia, questa operazione di macelleria sociale e di redistribuzione del reddito a favore dei più ricchi, in sintonia con le politiche che si adottano dagli anni novanta in poi in tutti i paesi a guida liberista (quindi in tutti i paesi occidentali), non è neppure un’idea concepita dai “think tank” grillini o leghisti. L’idea della flat tax è stata di Berlusconi ma sembra aver trovato immediato consenso ai piani alti delle sedi delle due forze politiche che si candidano al governo di questo disgraziato paese.
Come diceva il compianto Luciano Gallino, la lotta di classe non è sparita, è che la stanno vincendo i ricchi. Lega e 5 Stelle non ci hanno messo molto a mostrare che dietro la patina della “protesta” contro “i poteri forti” non si nasconde altro che l’ennesimo esercito di riserva nell’offensiva delle classi dominanti contro il popolo.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.iltempo.it
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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