Il 2019 si chiude tra mille difficoltà per i lavoratori e per le lavoratrici italiane con contratti in scadenza o già ampiamente scaduti, evidenziando grandi e profonde problematicità. L’ultimo dieci mani dell’anno si occupa della condizione del lavoro in Italia, tra crisi e speranze.
Leonardo Croatto
Il pessimo stato di salute della contrattazione collettiva nazionale è un aspetto del più articolato stato di crisi dell’economia italiana, che dipende da una lunghissima lista di fattori che interessano tutti i fondamentali del sistema paese, chiamando in causa la scarsezza della classe dirigente politica e imprenditoriale.
Di fatto, da moltissimi anni la strategia di rilancio dell’economia italiana, che vede alleati datori di lavoro e governi (di qualsiasi colore politico), è quella di comprimere i salari per abbassare il costo dei prodotti, rendendoli così competitivi verso i mercati esteri rinunciando a qualsiasi tentativo di aumentarne il valore attraverso investimenti in ricerca e sviluppo. L’opuscolo del Ministero dello Sviluppo Economico in cui si invitava le aziende straniere ad investire nel nostro paese facendo leva sul basso costo degli ingegneri italiani è il documento più efficace per descrivere la posizione condivisa di governi (in quel caso a trazione PD) e padronato.
Questa scelta strategica di natura generale ha prodotto e produce una serie di dispositivi attuativi conseguenti, tra i quali il forte disinvestimento in scuola, università e ricerca – di cui si è parlato in questi giorni a seguito delle dimissioni del ministro Fioramonti -, la flessibilizzazione dei contratti di lavoro, l’indebolimento della contrattazione nazionale attraverso il ricorso a contratti di sottotutela firmati da associazioni sindacali e datoriali spurie, l’indebolimento degli ispettorati del lavoro, una certa esplicita disponibilità ad accettare l’evasione fiscale come aiuto di stato occulto alle imprese, l’alta disoccupazione (specialmente giovanile) che modera le tensioni emancipative dei lavoratori e via, anche qui, elencando per pagine intere. La strategia di impoverimento complessivo del paese è così generale e pervasiva che ad oggi nemmeno le regioni del nord sono tornate al livello di benessere di dieci anni fa.
E’ del tutto evidente che qualsiasi proposta emancipativa si manifesti dalla società e prima di tutto da parte delle organizzazioni sindacali, ad esempio la richiesta moderatissimamente keynesiana di alzare i salari per favorire il consumo interno, si scontra non solo e non tanto con l’opposizione delle organizzazioni datoriali in una logica – comprensibile – di conflitto tra capitale e lavoro, ma contro un più ampio e strutturato progetto, che vede alleati accanto al capitale tutte le forze politiche dell’arco parlamentare (fatta salva qualche sparutissima pattuglia), che vuole il nostro paese collocato fuori dalla competizione internazionale sull’avanzamento tecnologico dei processi e dei prodotti e orienatato verso due settori a bassissima intensità di investimenti: il turismo e la bassa manifattura di prodotti sviluppati altrove.
In questo senso, è difficile immaginare che il riscatto del lavoro passi da singole vertenze sui singoli contratti nazionali, la battaglia è molto più ampia e complessa, ha una dimensione molto più politica che sindacale e non avrà esito positivo col solo impegno delle categorie sindacali dei diversi comparti produttivi; richiederà invece ampie alleanze nel paese, con l’obiettivo di uscire dal declino – più culturale che economico, oramai – attraverso una completa ricostruzione del senso sociale e del valore emancipativo del lavoro.
Piergiorgio Desantis
Il livello delle condizioni dei lavoratori in Italia si può misurare alla luce del Rapporto sul lavoro del Cnel: nel 2020 saranno ben 200 i contratti collettivi in scadenza con ben 6,5 milioni di addetti interessati. Oltre ai contratti già ampiamente scaduti, nell’anno che verrà un lavoratore su due sarà senza contratto. Quindi, oltre alla trentennale moderazione salariale tutta made in Italy, si afferma una modalità di “tenuta paese” che si fonda, ancora una volta, su retribuzioni insufficienti, diritti al ribasso e progetti familiari e di vita che non si possono realizzare. Tutti gli economisti, unanimamente, parlano di stagnazione (per lo meno) cinquantennale, interrogandosi sulla uscita da una crisi che sembra davvero (per il momento) senza sbocco. Quello che ci si augura e si spera (e le avvisaglie ci sono in giro per il Paese), è il risveglio di tutto il mondo del lavoro che rompa questa cortina di “vecchio che non vuole morire” che opprime l’Italia e che non ci fa vedere oltre il giorno dopo.
Dmitrij Palagi
Il tema del mondo del lavoro e di come sia destinato a cambiare in relazione all’evoluzione del sistema produttivo dovrebbe essere al centro della discussione della sinistra internazionale, specialmente in questa evidente fase di forte egemonia delle destre in quasi tutto il “blocco occidentale”. L’Italia si percepisce ai margini del contesto globale, in quello che da molte parti viene definitivo “provincialismo”. Siamo convinti di essere geniali ma arretrati, come il classico studente “intelligente che non si applica” (rigorosamente al maschile, come luogo comune). Cosa sia un contratto sfugge a chi entra nel mondo del lavoro nel XXI secolo. I diritti si vivono come privilegi, le strutture sindacali rappresentano erogatori di servizi, le forze politiche un costo inevitabile (ma superfluo, se non dannoso, sicuramente inefficace). Le responsabilità sono diffuse e non riducibili a un’unica lettura.
E mentre infuria (oggi un po’ attenuato) il dibattito sul reddito di cittadinanza, ecco un Paese in cui a parità di lavoro la retribuzione cambia, per genere e per tipo di contratto. Sul Becco sono stati recensiti alcuni libri che riflettono su questi temi, ma troppo stesso restano sugli scaffali di biblioteche e appartamenti. Raramente vengono presi in considerazione dalla discussione pubblica. Ridare un senso alla politica, per la sinistra, vorrebbe dire elaborare una propria visione del lavoro e della società. Altrimenti i contratti rischiano di trasformarsi progressivamente in simulacri.
Jacopo Vannucchi
Il circolo virtuoso di aumenti produttivi e salariali si è interrotto da tempo, e non solo in Italia. Anche nei Paesi in cui la produttività è in aumento, il potere d’acquisto è rimasto, nel migliore dei casi, fermo (si veda l’esempio più celebre, quello degli Stati Uniti). In Italia questa stagnazione è stata, semmai, aggravata da due fattori: la tendenza storica dello Stato a una spesa pubblica clientelare, non mirata agli investimenti; l’ampia rilevanza delle piccole e medie imprese, terreno ostico per aumenti di produttività e dalle quali non si possono trarre innovazioni su larga scala.
Il Belpaese si trova ad essere, a ben vedere, un vaso di coccio soltanto più incrinato rispetto agli altri, per via di queste e altre debolezze strutturali (tra le quali la scarsa istruzione della sua forza lavoro). La mancata crescita salariale, e anzi il peggioramento delle condizioni di lavoro evidente massime nelle classi in ingresso del mercato del lavoro, deriva anche dal globale rallentamento dell’inflazione e dalla presenza ormai di numerosi titoli statali a interesse negativo che si traducono in un costo per gli istituti di credito. La bassa inflazione, a sua volta, deriva dai fenomeni opposti a quelli che generarono la spirale inflattiva degli anni Settanta: a quel tempo un’improvvisa restrizione dell’offerta (gli shock petroliferi) si sommò a una domanda in costante aumento da tre decenni e che proprio in quegli anni conosceva l’ulteriore spinta data dai baby-boomer che mettevano su famiglia. Oggi, al contrario, viviamo un forte aumento dell’offerta (esplosione industriale della Cina, rimozione di barriere commerciali, diffusione del commercio online) e un’altrettanto forte riduzione della domanda per il rallentamento demografico dei Paesi sviluppati. La riduzione del tenore di vita, a sua volta, entra in un circolo vizioso con la minore natalità, riducendo sempre di più la propensione al consumo.
È evidente che il sistema creditizio (privato) non può, da solo, sobbarcarsi il finanziamento della ripresa del ciclo di produzione e consumo globale – per ragioni di mole, ma anche perché tale finanziamento sarebbe contrario al principio del profitto immediato che governa il sistema capitalista.
Il riavvio di questo ciclo può essere operato da un potente sistema pubblico che reperisca i fondi necessari applicando uno scrupoloso regime fiscale alle grandi multinazionali, che producono oggi una quantità di ricchezza inusitata nella storia del pianeta, ma molto sperequatamente distribuita.
Naturalmente questa cosa non è facile da attuare. Non tanto per la resistenza del grande capitale, quanto per il fatto che il movimento popolare che dovrebbe sostenere tali politiche non si sta manifestando, perché le classi popolari preferiscono guardare ai 35 euro dell’immigrato che ai 10.100.000.000 dollari di profitto netto di Amazon (chiedere a Jeremy Corbyn). Tuttavia la Storia ha sempre una sua capacità di vendicarsi e di realizzarsi razionalmente per le vie più traverse: una piramide non può reggersi a lungo in equilibrio sulla punta e una nuova recessione globale è in arrivo. Le sue conseguenze potrebbero essere interessanti, per il bene o per il male.
Alessandro Zabban
In Italia gli stipendi sono al palo. Un fatto ampiamente risaputo e continuamente corroborato da nuovi dati, come quelli snocciolati di recente dal Cnel o dall’indagine della Fondazione Sabattini (leggi qui) che riporta come fra le industrie metalmeccaniche venete dal 2015 i profitti siano cresciuti del 40%, mentre i salari solo del 5%. Impietose le conclusioni: “il conto della crisi si è scaricato su salari e stipendi, non sulla capacità delle imprese di generare ricchezza”.
Insomma più che le povere imprese vessate dalla tassazione, il grande problema sembra essere quello di salari bassissimi e di situazioni di ipersfruttamento vergognose ma assolutamente legali che hanno eroso sempre più il potere d’acquisto. Ma si tratta di scelte di politica economica non solo italiane. Tutta l’Europa, ha adottato la ricetta tedesca di un sistema ordoliberista orientato all’esportazione. Il modello si fonda sull’esigenza della contrazione salariale per rendere più competitive le imprese. Peccato che queste misure stiano mostrano già da anni il loro fallimento, con la zona euro in stagnazione e anche la Germania che da qualche mese fa vedere dei chiari segnali di indebolimento. Con il mantra dell’austerità che riduce gli investimenti e l’innovazione e in una situazione di dazi e guerre commerciali, l’Europa con il suo modello economico fallimentare procede in un tunnel senza via di uscita, il tutto mentre si infittiscono i rumors su una possibile nuova crisi globale.
Immagine da www.wikipedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.