Mancano poco e il giorno fatidico arriverà. Il 1 luglio, giorno indicato dal Primo Ministro israeliano Netanyahu per l’inizio della discussione alla Knesset delle modalità di attuazione del piano di annessione dei territori palestinesi che tanto sta preoccupando la comunità internazionale.
O meglio, una parte della comunità internazionale: quella che da decenni assiste allibita allo sterminio, alla continua violazione dei diritti di un popolo da parte di uno stato dotato di una forza militare spaventosa se considerata in proporzione alla sua estensione territoriale e alla sua popolazione. Quella che sabato 27 marzo, in Italia, è scesa nelle piazze di 16 città italiane rispondendo alla chiamata delle comunità palestinesi presenti in Italia per solidarizzare con chi da anni subisce soprusi in Palestina e con un altro popolo martirizzato, quello curdo, che ha dato il proprio sangue nella lotta contro il fascismo fondamentalista dell’ISIS e che ancora oggi è costretto a convivere con le bombe turche nell’indifferenza generale.
Di ciò che succederà, o che potrebbe succedere, da mercoledì prossimo non si sa molto. Ma le premesse lasciano presagire poco di nuovo. Il “piano per l’annessione” annunciato da Netanyahu, con bene placito dell’alleato Benny Gantz, prevede l’estensione della legge israeliana sul 30% delle Aree C della Cisgiordania (che comprendono anche la Valle del Giordano, considerato da Israele, unilateralmente, il suo confine naturale orientale). Si tratta di aree in cui il controllo della sicurezza è già a gestione israeliana e in cui si trovano gran parte degli insediamenti illegali costruiti nel corso degli anni dai coloni. Insediamenti che pochi mesi fa la stessa Corte Costituzione israeliana ha dichiarato illegali nel momento in cui vanno a ledere la proprietà privata palestinese.
Altri dettagli non sono noti: né di modalità né di tempistiche. Sappiamo solo che il “piano” si poggia politicamente su quel capolavoro di diplomazia autoritaria che è il piano “Pace per prosperità”, presentato a gennaio dal governo statunitense come la mossa che avrebbe sbloccato la situazione del Medio Oriente e messo finalmente d’accordo Israele e Palestina, assecondando le mire espansionistiche e colonialistiche del primo e risarcendo i secondi con 50 miliardi di dollari per la perdita di territorio (a onor del vero, Trump avrebbe promesso anche ponti e tunnel per collegare quegli sparuti pezzetti di terra che andrebbero a formare lo stato palestinese e il riconoscimento di uno stato palestinese, a patto che questo “ripudi in modo inequivocabile il terrorismo” ). Altro piano, inesatto, raffazzonato e inconsistente che però ha raggiunto quello che era il suo obiettivo primario: dimostrare tutto l’appoggio della nuova amministrazione USA a Benyamin Netanyahu in vista delle elezioni che si sono tenute a marzo (e che questo ha affrontato con una condanna per corruzione che gli pensava sulla testa). Certo, non che ce ne fosse bisogno dopo lo spostamento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme avvenuto due anni fa.
Quindi, il tempo corre ma la nube di incertezza che aleggia sul destino di un intero popolo non si dipana. E questo di certo non aiuta l’accettazione del piano: la comunità internazionale cerca di rompere il silenzio assordante della diplomazia denunciandone la scelleratezza ma anche gruppi politici israeliani hanno manifestato, nel corso delle settimane, il loro dissenso. Lo hanno fatto sia coloro che si oppongono alla politica del governo di Netanyahu che quei conservatori che ritengono che un’operazione del genere potrebbe minare la sicurezza dello stato israeliano (il leit motiv degli ultimi decenni), sia esponendolo alla reazione degli altri stati arabi dell’area (e quindi minando la posizione dello stato in Medio Oriente) e dando inizio ad una nuova intifada ma anche da un punto di vista “interno”. L’annessione porterebbe infatti i territori in questione a diventare parte integrante del territorio israeliano, aprendo ai palestinesi che vi risiedono la possibilità di fare richiesta di cittadinanza (cosa che per il momento è possibile solo a Gerusalemme Est, dal momento che il resto delle colonie sono considerati territori occupati e non parte integrante del territorio nazionale).
Ciò di cui si sente un’esasperante assenza, come sempre più spesso accade, è la reazione della diplomazia internazionale che pare assista in attesa di vedere cosa accadrà. A Gerico l’inviato speciale dell’Onu Nikolay Mladenov e diplomatici dell’Unione Europea, Cina, Russia e Giappone si sono uniti alla manifestazione per denunciare i rischi di una mossa unilaterale ma l’impressione che si ha è che, come sempre, le democrazie occidentali non abbiano intenzione di andare fino in fondo. La solita, vecchia, esasperante, storia.
Immagine da www.flickr.com
“E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa”
Cit.