Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo è un breve ma efficace esempio in questo senso, scritto da Lévinas poco dopo l’ascesa del partito nazionalsocialista al potere in Germania.
Nell’agile edizione Quodlibet al testo levinasiano sono aggiunte una prefazione (originariamente Prefatory Note dell’edizione americana delle Alcune riflessioni, nel ’90) di Lévinas stesso, una lunga prefazione di Giorgio Agamben e un saggio di Miguel Abensour come postfazione. Nomi importanti nel quadro della filosofia contemporanea di ambito Continentale, e riflessioni che editorialmente vengono messe in un certo senso “al servizio” delle pagine propriamente di Lévinas, che aggiungono livelli e (apprezzabilmente) delucidano un testo densissimo. E proprio da ciò su cui Abensour si interroga nel suo saggio, e che Lévinas esprime lapidariamente nella Prefatory Note, conviene iniziare un qualunque discorso su queste riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo.
Si prova un istintivo disgusto a vedere la parola “filosofia” accostata al termine “hitlerismo”: quest’ultimo si è infatti storicamente basato su ciò che giustamente – dalle primissime righe di Alcune riflessioni – Lévinas definisce una «fraseologia miserabile», sull’accostamento in un’accozzaglia ideologica di concetti demenziali, sulla propaganda continua degli stereotipi più volgari e violenti. Cosa può mai avere a che fare la filosofia con questo non-pensiero? Si ha, come sottolinea Abensour nella sua postfazione, la forte tentazione di confinare “filosofia” tra virgolette.
Ma il malessere è causato volutamente, dall’autore di Alcune riflessioni. Non solo la follia nazista aveva preso piede nell’antica patria dell’idealismo trascendentale e della fenomenologia, ma addirittura quell’Heidegger che rappresentava un fondamentale punto di svolta nel pensiero occidentale – e che Lévinas stesso aveva ammirato – ne aveva abbracciato i principi.
L’accostamento di due termini apparentemente inconciliabili, quindi, sta qui per il problema centrale attorno a cui ruotano tutte le Riflessioni del ’34 di Lévinas, come efficacemente sintetizzato dalla Prefatory Note del ’90:
«in quest’articolo c’è la convinzione che tale origine [del nazismo] attenga ad una possibilità essenziale del Male elementale cui ogni buona logica può condurre e nei cui confronti la filosofia occidentale non si era abbastanza assicurata. Possibilità che s’inscrive nell’ontologia dell’essere che ha cura di essere1 – dell’essere “dem es in seinem Sein um dieses Sein selbst geht” secondo l’espressione heideggeriana. Possibilità che minaccia ancora il soggetto correlativo all’esser-da-radunare e da-dominare, questo famoso soggetto dell’idealismo trascendentale che innanzitutto si vuole e si crede libero».
Mentre nel testo del ’34 Lévinas parla più confusamente di «sentimenti elementari» e di «nostalgia segreta», secondo il Lévinas della Prefatory Note l’hitlerismo troverebbe il suo fondamento, punto su cui si concentra Abensour nella postfazione, nella possibilità del Male elementale e nel rapporto di questa con l’ontologia dell’essere desideroso di essere, nella cura che definisce il Dasein heideggeriano, «un ente per cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso»2. È questa la «passerella», come efficacemente sottolinea Abensour, che ha potuto per Levinas collegare Heidegger all’hitlerismo; il principio le cui premesse e conseguenze ultime, per Levinas, costituiscono la minaccia principale «all’umanità stessa dell’uomo» insita nella filosofia dell’hitlerismo.
Ritornare al testo del ’34 può forse aiutare a chiarire. Le Riflessioni di Levinas si concentrano su tre elementi fondamentali del fenomeno hitleriano, tra loro concatenati: una concezione della storia, una concezione dell’uomo e una pratica del potere.
Lo «spirito di libertà», in Europa, non si esaurisce per Levinas nelle libertà politiche, ma comporta anche il sentimento delle infinite possibilità a portata delle sue azioni, che rinnovano il suo universo di fronte alla storia. O meglio, l’uomo del mondo liberalista non ha storia. L’Ebraismo, il Cristianesimo con il suo messaggio di salvezza e di liberazione dell’uomo peccatore, e infine il Liberalismo politico, con la sua enfasi sulla Ragione che sostituisce «al mondo ottuso del senso comune, il mondo ricostruito dalla filosofia idealista, permeato di ragione e sottomesso alla ragione»3, aprono all’uomo un mondo in cui non esistono vincoli che lo predeterminano, ma al massimo possibilità tra cui scegliere serenamente, al di sopra dei fatti bruti.
Il marxismo, nella sua ribellione contro il mondo liberalista ha giustamente recuperato «il rapporto ineludibile con una situazione determinata», riportando la Ragione alla misura di una coscienza determinata dall’essere, e dall’essere della lotta mortale tra borghesia e proletariato. Non ha però reciso le sue radici liberali e giacobine: l’individuo razionale non è impotente e incatenato allo stato di cose, ma ha in sé la possibilità di affrancarsi tramite una presa di coscienza, la coscienza di classe. Una concezione dell’uomo totalmente fuori da questa storia intellettuale dovrebbe – secondo Lévinas – piuttosto essere una concezione dell’uomo in cui «la situazione in cui è inchiodato non si aggiungesse a lui, ma costituisse il fondamento stesso del suo essere. Esigenza paradossale che l’esperienza del nostro corpo sembra realizzare».Ad avere centralità in essa dovrebbe essere il fatto dell’incatenamento che lega Io e corpo, ed il sapore «tragico e definitivo» di questo incatenamento: un sentimento che sarebbe già prefigurato per esempio nella perdita di autonomia che comporta l’esperienza del dolore. Per Levinas la concezione hitleriana dell’uomo sarebbe propriamente di questo genere, ed essa riconfigurerebbe tanto ciò che si intende per “storia” quanto l’essere inchiodati stesso.
L’essere incatenati al corpo della concezione nazista dell’uomo è infatti un orizzonte assoluto, in cui ad ogni possibile dualismo e ad ogni eccedenza dal mero dato corporeo, ad ogni bisogno di fuga e di trascendenza, risponde l’ineluttabilità dell’incatenamento al corpo, e in cui da questo essere-inchiodati scaturisce un’identificazione primigenia in cui data la materialità della biologia il singolo corpo – il corpo di un singolo essere umano – passa quasi in secondo piano e in cui l’Io stesso è un ente ridondante.
L’essere-inchiodati è un vivere radicalmente impoverito, privato di ogni orizzonte di trascendenza, di ogni possibile presa di distanze da sé (e quindi privo di nausea, che, come ricorda Agamben nell’Introduzione, è la presenza rivoltante di noi stessi a noi stessi; e di vergogna), impoverito di quell’Altrimenti4 e di quell’Evasione5 su cui Levinas tornerà nel corso della sua vita.
L’unica comunanza possibile – attraverso lo specchio deformante hitleriano – è la comunità «a base consanguinea», per fondare la quale si costruiscono invenzioni e pseudoconcetti come quello di razza; la storia è rimpiazzata dalla filogenesi; le forme della vita sociale sono brutalizzate, «ogni struttura sociale che annunci un affrancamento dal corpo che non lo coinvolga diventa sospetta come un’abiura, un tradimento»6. Nelle parole di Abensour7, «si tratta di una civiltà, o piuttosto di un’anticiviltà, insediata nella brutalità del fatto di essere, nella brutalità del fatto compiuto». Non si dà rivolta contro lo stato di cose, né una sua possibile abolizione, nemmeno a partire da esso. La riduzione al fatto è compiuta, e la politica esce come di scena.
L’hitlerismo si fonda su questo radicale mutamento ontologico, dall’ontologia implicata dal soggetto razionale liberalista al biologismo estremo del soggetto inchiodato al corpo, e all’interno di questa nuova ontologia si formula e riformula, espandendo i propri tentacoli dall’essere ad ogni angolo dell’esistere concreto. In questo, potremmo forse dire, consiste il carattere peculiare del totalitarismo per antonomasia. Nella riduzione radicale e nella costruzione da questa di un’ontologia abnorme sta tutta la radicalità della minaccia dell’hitlerismo tanto all’essenza del Cristianesimo, tanto al Liberalismo e al socialismo, quanto all’«umanità stessa dell’uomo».
Levinas non si risparmia una critica tanto breve quanto incisiva, collocata nella parte più densa della trattazione, alle tendenze eredi della storia intellettuale “liberalista”. Si tratta, in fondo, di dimostrare ancora una volta la necessità di provocare quel disagio che evoca in noi la mancanza di virgolette cui abbiamo accennato sopra.
Lungo la storia del pensiero Occidentale – afferma Levinas – l’aderenza dell’Io al corpo è stata sminuita, e la distanza tra il soggetto ed il mondo delle idee – che ricomprende in sé le distanze tra ragione e fatti bruti – in cui compiere o non compiere una scelta sempre libera e reversibile tra verità, enfatizzata. Nello scetticismo, «possibilità fondamentale dello spirito occidentale»8, sta l’ideale nobile di questa forma del pensiero, ma anche il suo rischio inerente: quando il pensare si trasforma in un gioco che non impegna nessuno, e la libertà dello spirito muta in mancanza di convinzione, quell’ideale e lo sforzo che piuttosto richiederebbe viene oscurato dalla comodità che può comportare9.
È sullo sfondo di questa eclissi ideale di una filosofia che non riesce a non essere “tarda” e “bassa” che l’autenticità aberrante che l’«ideale germanico»10 sembra promettere può farsi strada. L’autenticità presunta e deformata di una verità che viene dal sangue non lascia nessuno spazio di trascendenza e libertà ad un soggetto inchiodato al suo corpo e alla sua realtà biologica – un “soggetto” che è piuttosto oggetto della cupa “storia” dell’eredità genetica – e obbliga da sempre, soprattutto ad una lotta mortale per la sussistenza e l’espansione; ma pur sempre un’autenticità che appare come una verità in un mondo di menzogne.
Si è detto, seguendo il testo di Levinas, dell’ontologia totalizzante che si produce e riproduce con l’hitlerismo. Essa comporta infine un mutamento radicale nello statuto dell’universalità delle idee, e quindi in un certo senso del potere e della verità del potere. Il pensiero moderno vedeva nella propagazione delle idee il segno della loro universalità. Ma l’idea che si propaga è anonima, e la propagazione stessa costruisce una sorta di comunità di uguali. Alla propagazione il nazifascismo sostituisce, secondo Levinas, l’espansione della forza: chi esercita la forza non si separa da essa, coloro che la subiscono sono per questo stesso fatto subordinati. Nelle parole del filosofo, «la volontà di potenza nietzschiana che la Germania moderna ritrova e glorifica non è soltanto un nuovo ideale, è un ideale che apporta nello stesso tempo la sua forma propria di universalizzazione: la guerra, la conquista».
Il nazifascismo nelle sue forme storiche è stato fortunatamente sconfitto, anche se rimane necessario tenere a mente il monito brechtiano. Vivendo in un mondo come quello contemporaneo, in cui continuano a infiltrarsi insistenti voci che sembrano provenire da quell’orrore, dagli appelli al suolo e alle frontiere alla demagogia che fa leva sulla sofferenza e sul rancore, da un discorso che nega il corpo come fattore di liberazione e di autodeterminazione e afferma il corpo come fondamento di disuguaglianza a un ottuso neopositivismo, si ha però la sensazione che da quel clima filosofico che ha compenetrato la “filosofia” (possiamo infine permetterci di virgolettarla) dell’hitlerismo sia tuttora necessario uscire. La strada ce l’ha in parte già indicata Levinas, a partire da un Altro che scalzi il primato dell’Essere, dell’Io, dell’egoismo: «il timore di occupare nel Da del mio Dasein il posto di qualcuno; incapacità di avere luogo, una profonda utopia. Timore che mi viene dal volto di altri»11.
Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, con Introduzione di Giorgio Agamben e con un saggio di Miguel Abensour, Quodlibet, Macerata 2012. 10€
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Corsivo originale, virgolette modificate per uniformità. ↑
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M. Abensour, Il «Male elementale», in Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, con Introduzione di Giorgio Agamben e con un saggio di Miguel Abensour, Quodlibet, Macerata 2012, p. 85 ↑
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Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., pp. 28-29 ↑
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E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983 ↑
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E. Levinas, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008 ↑
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Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., p. 34 ↑
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Ibid. p. 76 ↑
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Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., p. 34 ↑
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Ibid. p. 35 ↑
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Ibid. ↑
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E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, cit., p. 188 ↑
Immagine: Rachel Whiteread, Holocaust-Mahnmal a Vienna, foto di Hans Peter Schaefer (dettaglio) da commons.wikimedia.org
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.