Negli ultimi anni abbiamo assistito a un progressivo imbarbarimento della comunicazione politica. Lo sdoganamento dell’hate speech come reazione al politically correct sembra non avere freni, mentre la menzogna sfacciata, la sparata più raccapricciante e l’insulto diventano strumenti fondamentali di costruzione del consenso nell’epoca del consumo sfrenato e rapidissimo di post e tweet sui social network. Nella moribonda democrazia italiana la comunicazione politica in uno stato comatoso già da molti anni ma le esternazioni di Salvini degli ultimi giorni sembrano toccare apici precedentemente inesplorati di violenza e volgarità. Gli insulti ai giornalisti che lo intervistano, come recentemente è successo a Giorgio Mottola di Report e Valerio Lo Muzio di Repubblica, uniti a un linguaggio sempre più discriminatorio (il termine “zingaraccia” rivolto a una donna rom), obbligano a riflettere se sia in atto un ulteriore salto di qualità nel modo di fare comunicazione politica. Ne parliamo a dieci mani.
Piergiorgio Desantis
Le recenti dichiarazioni a mezzo social del Ministro dell’Interno non meritano alcuna qualificazione poiché si commentano per quello che sono. Una profonda degenerazione del sistema politico italiano (e europeo) in cui siamo sprofondati affonda su basi lontane. Tornano alla mente le foto di Moro e Berlinguer dignitosissimi al mare con figli e figlie. Ma per l’appunto, è un’epoca chiusa e finita. Dovremmo prenderne atto e avanzare per ricostruire altro, più che contrapporre il presente a un glorioso passato. Quella di affrontare gli avversari politici dal punto di vista moralista è davvero una strategia che non produce risultati, se non di rafforzarli ulteriormente. Ce le ricordiamo davvero tutte le conseguenze dell’antiberlusconismo? Il frutto maturo di quell’epoca fu Di Pietro e il M5S. Non conviene davvero, anche perché quest’ansia di continua campagna e propaganda del segretario leghista nasconde, probabilmente, alcune difficoltà.
A breve verrà l’autunno e saranno tempi di una manovra lagrime e sangue richiesta da UE con dati economici che parlano di una contrazione dei consumi, di una crescita zero e di un ulteriore aumento del debito. Se si ha voglia di ricostruire un’opposizione seppur minima in questo Paese ci sarebbe bisogno di iniziare a rimettere mano alle misure prese dal Governo in carica e verificare tutte le insufficienze e le storture, avanzando una proposta alternativa alle politiche fin qui messe in campo e, soprattutto, rispetto anche a quelle precedenti a questo Governo (che ci hanno condotto fin qui). Le raccolte di firme, per chi vuole costruire e fare politica, si fanno non per sfiduciare qualche ministro (per quello ci pensano deputati e senatori) ma per iniziative di leggi popolari e provare a creare un tessuto connettivo e critico, individuando una serie di misure da mettere in campo che aiutino la vita, oltreché la sopravvivenza, dei propri potenziali elettori. Qui non è in ballo l’irrilevanza ma la completa scomparsa della Sinistra in questo Paese.
Dmitrij Palagi
Prima del Movimento 5 Stelle c’è stata l’Italia dei Valori. Prima di Salvini l’Italia ha conosciuto Bossi. Non ci sono rapporti diretti nel succedersi degli eventi storici, ma non ci siamo svegliati all’improvviso in un Paese dallo scarso livello culturale e di informazione. La morte di Mario Cerciello Rega ha interessato il tempo di qualche post, aprendo una caccia al migrante irregolare, poi trasformatasi in un indecente demolizione dello stato di diritto (cosa volete che sia un ragazzo bendato rispetto a una serie di coltellate letali, ci veniva chiesto). Il problema è la fatica richiesta da chi sceglie di contrastare questa degenerazione. Chi non ha niente da perdere spesso non ha le energie per opporsi. Chi ha qualcosa da perdere si ritrova spaventato dalla facilità con cui si scorre sempre più verso il basso. Servirebbe qualche struttura organizzata in grado di difendere una pratica alternativa. Mentre il Partito Democratico sembra voler regalare ulteriore consenso all’astensione, con un Movimento 5 Stelle tenuto sotto scacco dalla Lega, rimane il vuoto della sinistra. Individualità ben pensanti si sostengono sui social, indignandosi e ricordandosi quanto sia però vano… Nella società i rapporti di forza sono a favore della barbarie, i corpi intermedi ne pagano tutte le conseguenze. Un concorso di colpe, oggettive e soggettive. Se poi le colpe in realtà a nulla servono, occorrerebbe concentrarsi su ipotesi di soluzioni, purché praticate al di fuori della sola teorizzazione.
Jacopo Vannucchi
Sono profondamente convinto che abbia ragione la senatrice Liliana Segre: non è che nei decenni scorsi la gente fosse meno razzista o meno fascista, ma si vergognava di dirlo – e poi, una volta, c’era un sistema politico, anche internazionale, che rendeva sconsigliabili avventure neofasciste in Italia.
Quello che colpisce è come alla nuova legittimazione sociale del razzismo e della violenza si accompagni un linguaggio che è volgare e turpe anche agli alti livelli delle istituzioni. Non è stupefacente, perché dopotutto uno dei primi slogan squadristi, “me ne frego!”, era una volgarità, per non parlare del ricorso alla violenza e all’insulto pesante compiuto da gente come Mussolini e D’Annunzio ancor prima della Grande Guerra.
Però eravamo disabituati: la violenza era qualcosa che riguardava il basso, il terrorismo, la lotta armata, magari anche la piazza, ma mai le istituzioni. Non l’ha rilegittimata Salvini, e neppure l’orrendo Grillo da solo: già nel 2004 Tremaglia, che faceva il ministro, usò su carta intestata una volgarità omofoba nei confronti del Parlamento europeo. Per non parlare di Bossi e dei suoi riferimenti a rutti, flatulenze, organi sessuali eccetera.
Qualche giorno fa, sul mio profilo privato di Facebook, ho articolato una riflessione sulla corrosione delle basi della convivenza civile (riferendomi implicitamente all’atmosfera che precedette la tirannia fascista) e ho affrontato il ruolo dei reality show nel capovolgimento del principio culturale: ad essere ambita oggi non è più la diffusione della cultura verso il basso, bensì l’affermazione verso l’alto dell’ignoranza delle masse.
Ho letto con attenzione i commenti che la mia riflessione ha suscitato, e tra questi mi ha colpito uno in particolare: un signore che sosteneva che non bisogna parlare erudito, che è necessario farsi capire. Qui c’è a mio avviso la resa culturale all’avversario (non lo chiamo nemico solo perché “avversari” li chiamava Togliatti). Farsi capire è essenziale, certo, ma il punto focale è che la via da battere deve essere quella dell’acculturazione delle masse. La volgarità delle masse non può essere considerata come un fattore dato.
Un compagno una volta mi disse: “se fosse facile convincere il popolo, avrebbero fatto la rivoluzione all’epoca dei faraoni”. È molto più difficile costruire sulla cultura che devastare; eppure mi sento sempre più vicino a una considerazione della Arendt: il Male può essere estremo, ma mai radicale; non può penetrare in profondità perché non ha un pensiero, ma soltanto la distruzione del pensiero.
I tempi che ci aspettano non saranno facili, anzi forse saranno durissimi, ma in breve tempo anche questa sbronza passerà. Spiace soltanto l’impreparazione, appunto culturale, con cui non ristretti settori del mondo progressista affrontano questa fase di offensiva reazionaria.
Alessandro Zabban
In un episodio della serie televisiva di fantascienza distopica Black Mirror, Waldo, un orsacchiotto blu animato interpretato da remoto da un comico fallito, da irriverente provocatore e da sarcastico critico degli scandali che coinvolgono i politici, finisce ben presto per ottenere un tale successo di popolarità da presentarsi come candidato indipendente alla elezioni locali di una cittadina britannica.
Questo prodotto preconfezionato, che basa il tuo successo nell’insultare e offendere gli altri, che non risponde alla domande se non con sparate demenziali o con un altro round di insulti, che nasconde la pochezza delle proposte politiche sotto pernacchie e linguacce, mostra perfettamente la degenerazione delle nostre democrazie mediatizzate. Sembra che un po’ come il personaggio di Waldo, i non meno inquietanti Trump, Bolsonaro o Salvini abbiano portato alle estreme conseguenze una tendenza di impoverimento e volgarizzazione della comunicazione che però viene da lontano.
Il successo di uno stile comunicativo violento e aggressivo e l’uso sempre più profittevole che può essere fatto delle fake news più clamorose, non funzionerebbero in una società dotata dei dovuti anticorpi democratici. Lo svuotamento delle istituzioni democratiche che hanno abdicato al loro ruolo storico di formazione, educazione e promozione della conoscenza, la visione dell’istruzione come unicamente funzionale alla carriera professionale, la spettacolarizzazione dei processi decisionali, la riduzione delle consultazioni elettorali a talent show per leader carismatici, la personalizzazione della politica, la semplificazione dei messaggi non sono il frutto di un complotto sovranista, sono l’eredità di 40 anni di neoliberismo e di applicazione della sua visione dello Stato.
Il progetto collettivo di accrescere la consapevolezza e la conoscenza delle persone, timidamente abbozzato nel Dopoguerra, si è invertito in un meccanismo di rincorsa agli istinti più meschini e ai preconcetti più ottusi che circolano in società. Lo Stato eroga i servizi che il mercato non è interessato a erogare, mentre l’informarsi, il comprendere, il saper filtrare le notizie e i messaggi è responsabilità individuale (se uno vuole si informa su internet). Gli esiti dell’applicazione di questo ragionamento sono sotto gli occhi di tutti. In questo contesto degradato, in cui la bontà di un messaggio è valutata in base al numero di like, retweet o condivisioni che produce, lo stile aggressivo di Salvini si impone senza alcuna difficoltà. Sconforta il silenzio assordante delle istituzioni di vigilanza, la debolezza di enti fatiscenti come l’Ordine dei Giornalisti, preoccupa soprattutto vedere le forze dell’ordine in totale balia dei capricci del Ministro dell’Interno e l’assuefazione generale nei confronti di una degenerazione che sembra non avere fine.
Immagine da www.flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.