Culturalmente vivace, ma anche ricca di innumerevoli contraddizioni, la Corea del Sud si è da tempo distinta, fra le altre cose, per la grandezza e l’importanza della sua industria dell’intrattenimento, in grado di sfornare in massa prodotti cinematografici e musicali di successo e dalla facile fruizione. Serie Tv e film romantici coreani, creati ad arte su una variante orientaleggiante del canone hollywoodiano, spopolano ormai in tutta l’Asia mentre la musica K-pop da fenomeno visto con curiosità ma con un certo distacco sta sempre più penetrando in occidente, dove inizia a fare i suoi proseliti grazie all’apporto di boy e girl band come BTS o Twice. Nell’era degli influencer, i teen idol coreani, spesso costruiti a tavolino dalle major discografiche e dalle case di produzione, si impongono, coi loro visi levigati e vestiti sgargianti, come nuovi modelli di bellezza e di stile anche al di fuori dei confini nazionali.
Ma che qualcosa si muova al di sotto di questo circo fatto di trucchi e apparenza, appare ormai evidente. L’ultimo decennio non è stato solo all’insegna del drama zuccheroso di film patinati come Innocent Steps, o di canzoni dall’arrivismo becero come Gangnam Style o sessualmente ammiccanti come Ice Cream Cake ma ha anche segnato l’affermazione di una generazione di registi dal talento cristallino, insoddisfatti di quanto propinato dal mainstream e inclini a mettere in scena un realtà ben più scura, problematica e degradata di quella che appare sui volti sorridenti dei teen idol dell’upper class coreana. Con stili e linguaggi espressivi diversi, registi come Kim Ki Dook, Park Chan-wook, Lee Chang-dong e Bong Joon-ho ci stanno raccontando, con una potenza espressiva inaudita e un originalità a tratti spiazzante, la violenza, la solitudine, la povertà e la miseria esistenziale che attanaglia tutti coloro che non vivono in prossimità delle luci della ribalta e che sono costretti a barcamenarsi nella iniqua e brutale società coreana, così lontana e così vicina rispetto alla nostra. Recentemente, film come Burning o il pluripremiato Parasite hanno dipinto a tinte fosche una ruling class che di fascinoso, elegante e rispettabile ha solo l’aspetto esteriore, sotto il quale cela la sua meschina natura e perversa visione del mondo.
E la Musica? Anche in questo ambito negli ultimi anni si respira un clima di effervescenza creativa che ci obbliga a ripensare gli stereotipi che circolano attorno alla produzione musicale coreana. A fianco della musica tradizionale e quella K-pop si sono negli anni sempre più definite delle aree culturali che, pur prendendo a modello la musica popolare di stampo occidentale, hanno preferito esplorare, con il filtro estetico del loro paese, stilemi e modalità espressive alternative rispetto al canone K-pop. Negli ultimi anni, una nuova generazione di musicisti sta imponendo su alti livelli quello che alcuni definiscono, forse un po’ impropriamente, K-indie attorno al quale ruotano comunque, oltre che una miriade di artisti che animano il pulsante sottobosco di Seoul e degli altri centri urbani coreani, a partire da Busan, anche festival musicali e riviste e blog specializzati.
Mentre l’ascesa di artisti di spessore in quasi tutti i campi dell’alternative, accolti peraltro molto positivamente anche dalla critica occidentale (come ad esempio il post-rock dei Jambinai o l’indie rock dei The Black Skirts), appare sempre più un dato di fatto, al centro di questo rinnovamento sembra esserci ancora una volta il pop. Ciò non deve stupire: come movimento di reazione al k-pop, la musica alternativa coreana ha sentito primariamente l’esigenza di riscattare e salvare il pop dalla sua brutale omologazione e banalizzazione. Fra i tanti artisti e gruppi, che tramite coordinate molto diversificate fra loro, hanno ripensato il pop secondo sensibilità lontane dal music business, ne abbiamo selezionati cinque che possono fungere da esempio paradigmatico della qualità della nuova musica pop coreana.
Neon Bunny
Fra i nomi proposti, quello che più si lega al filone del k-pop è quello della giovane Lim Yoo-jin, in arte Neon Bunny. Il suo disco di esordio del 2012, Seoulight, era in effetti caratterizzato da una certa adesione ai canoni del pop da classifica, tanto da essersi guadagnato il titolo di migliore album pop all’edizione dei Korean Music Awards di quell’anno. Pulito e sbarazzino, il disco mostrava però già una capacità di scrittura nettamente superiore a quella riscontrabile nella media delle produzioni k-pop del periodo.
Poco a suo agio con l’etichetta di reginetta pop e lontana per indole dalla luce dei riflettori, Neon Bunny mette a punto una trasformazione artistica quasi spiazzante sul successivo Stay Gold (2016), capolavoro del pop coreano e uno dei dischi electropop più belli della scorsa decade. Il disco è una raccolta di malinconici affreschi di vita urbani, resi da suggestive stratificazioni di synth caldi e liquidi. Neon Bunny si fa narratrice di una Seul alienante e dispersiva, che non offre certezze e appigli se non nella promessa di un amore che è però sempre sfuggente. I suoi vocalizzi sensuali e dolenti, le basi dilatate e appiccicose, scolpiscono un suono cinematico e magnetico, resa emblematico dalla visionaria “Forest Of Skyscreapers”, il cui videoclip, trip psichedelico a metà fra un anime post-apocalittico e un film di Wong Kar-wai, riassume alla perfezione la sua estetica che culmina nell’incanto di luci ovattate (“Romance in Seul”), memorie offuscate di incontri estemporanei (“Room 314”), malinconiche confessioni (“It’s You”). Per chi ha imparato ad amare quest’album, l’attesa per il prossimo disco è a dir poco spasmodica.
http://https://www.youtube.com/watch?v=-KbvUmR6zkg
Yukari/Aseul
L’altra stella del pop elettronico di Seul è Yukari che condivide con Neon Bunny, oltre alla provenienza e a una certa affinità musicale, anche il carattere interamente autoprodotto dei suoi lavori. Le due artiste sembrano inoltre essere legate da un ottimo sodalizio e hanno recentemente fatto un tour a Taiwan insieme. Rispetto ai beat ritmati della sua collega però, Yukari predilige stratificazioni elettroniche e synth a cascata su cui innescare, per contrasto, la sua voce angelica e i sui sussurri celestiali. Così, il suo esordio Echo (2012) è un gioiellino synthpop/shoegaze dal fascino immediato, un’ esperienza ascetica attraverso cui lascarsi cullare da ninnananne paradisiache (“8PM”, “Yule”), da stranianti pulsioni inconsce (i magnifici beat alieni di scuola Warp in “Just Friends”) fino ad assaporare la vertigine del crollo ( i fischi cosmici a cascata di “Marginal Man”, molto 4AD e un po’ primi M83) e una lenta e surreale risalita (lo strabordare rumoristico di “Am I Dreaming?”).
In seguito a una serie di problemi di salute e personali, dopo 4 anni di silenzio, Yukari torna a far parlare di sé a nome Aseul. Oltre ad aver cambiato nome, Yukari ha anche apportato significative trasformazioni al suo stile artistico, espresse nel disco/manifesto New pop (2016), una vera e propria dichiarazione di intenti che si traduce in una maggiore ricerca e in un pop più avanguardistico e sperimentale. Abbandonate almeno parzialmente le suggestioni anni ’90 degli esordi, New pop risulta più nervoso e tagliente. È Il risveglio di una Aseul che si riscopre inquieta a fissare dalla sua finestra un’alba pallida e straniante sui cieli della sua Seul. E che apre gli occhi sul mondo esterno e sui suoi problemi (“Weird World”). I synth perdono armonia, si destrutturano in un puzzle di campionamenti e patchwork obliqui (“Dazed”, “Give me Five”), mentre i suoi vocalizzi restano sognanti ma meno angelici e più ombrosi (“Nothings”). Il risultato è un ottimo disco di transizione, intelligente, variegato, imprevedibile e dalle atmosfere sottilmente inquietanti, rese dalla perfetta incompiutezza dei pezzi, che lasciano una lieve sensazione di angoscia. Aseul mostra di essere un’artista già straordinariamente matura a cui manca solo il disco della definitiva consacrazione.
Say Sue Me
Alfieri della scena alternativa di Busan, i Say Sue Me si caratterizzano per il loro amore sconfinato per la musica americana. Infatuato tanto della psichedelia e del surf pop degli anni sessanta, quanto dell’indie pop dei novanta, il quartetto mette sul piatto tutte le sue influenze sul fresco esordio We’ve Sobered Up (2014) che verrà poi ristampato con preziose aggiunte prese dai lori primi EP, sul prezioso disco eponimo Say Sue Me: 18 pezzi sanguigni e diretti con raffiche di jungle chitarristici (“My problem”, “Bad Habit”), acidi motivetti tex/mex (“Fight The Shark”, “Spy On Motorbike”), schizzate ballate lisergiche (“One Question”), pulsazioni noise (“Long Night And Crying”) e sghembi mantra minimalisti (“One Week”, che ricorda i Beat Happening) all’insegna di inquietudini (“Bad Feeling”), insicurezze adolescenziali (“I know I’m Kind of Boring”), mancanza di prospettive (“Say Sue Me”), problemi di alcolismo (“Sorry that I’m Drunk”).
I Say Sue Me trovano però la loro vera dimensione artistica con il successivo Where We Were Together (2018) un disco decisamente più coeso e consapevole che risente pesantemente del grave incidente accaduto al batterista Kang Semin, finito in coma dopo una caduta accidentale. Ma la patina nostalgica che avvolge tutto il disco risulta un valore aggiunto, in grado di amalgamarsi perfettamente con la disarmante genuinità e purezza dei jingle chitarristici e delle sottili ma penetranti linee vocali di Sue Mi Choi. In un tripudio di chitarre lascive e calde, atmosfere ovattate e melò, i Say Sue Me mostrano una decisa maturazione artistica, complice una produzione eccezionale, che regala un suono più nitido e profondo, e che esalta le loro sfuriate surf-punk (“Old Town”, “I Just Wanna Dance”) e i loro austeri carillon sognanti (“Let it Begin”). Where We Were Together, pregno di sentimenti di mancanza e solitudine e di bar dove sbronzarsi alla morte, trova dei momenti di autentica estasi nei sublimi vortici chitarristici di un invasato Kim Byunggyu (si ascolti ad esempio “But I Like You”), nelle filastrocche suonate a rotta di collo (come “Old Town”, impreziosita da un handclapping debordante), e nelle stralunate ballate desertiche (il tour de force conclusivo di “Coming To The End” con una memorabile coda strumentale). Qualche pezzo non del tutto messo a fuoco, erede dello stile calligrafico dell’esordio, impedisce di parlare di capolavoro, ma i Say Sue Me, pur alla convergenza di vari linguaggi musicali, dimostrano di avere già raggiunto una loro identità artistica ben definita.
http://https://www.youtube.com/watch?v=8ZBTIJ5tOi4
Mid-Air Thief
Poco si conosce sull’identità del misterioso artista che si cela sotto il suggestivo moniker Mid-Air Thief. Online è attivo solo uno scorno profilo Bandcamp ma i suoi dischi hanno suscitato l’interesse di varie comunità di internauti come Rate your music e hanno ricevuto il plauso della critica che, anche un po’ in Italia, si è interessata al suo caso.
Mid-Air Thief esordisce nel 2015 con 공중도덕 (Gongjoong Doduk) raccolta di brevi composizioni sospese fra avant-folk minimalista e pop psichedelico, realizzate con un inusuale intreccio di scarne chitarre e tastiere, con frequenti incursioni di partiture elettroniche e strumenti a fiato, per un disco dalle atmosfere sognanti e sfuggenti. L’incanto pop, costruito su un immaginario fiabesco, funziona nella sua non linearità, nel dare spazio a costruzioni ellittiche ed imprevedibili che nulla tolgono alla magnetica attrattiva di un disco in cui è facilissimo entrare e quasi obbligatorio perdersi.
Il successivo 무너지기 (Crumbling), piccolo caso discografico in Corea, dove ha sorprendentemente vinto il Best Dance & Electronic Album al Korean Music Festival, è forse persino superiore. Qua la capacità di Mid-Air Thief di tenere insieme da un lato un approccio scarno e minimalista e dall’altro prodigarsi in scelte compositive complesse e sofisticate, raggiunge un equilibrio sopraffino. Forse meno sperimentale del suo lavoro precedente, ma indubbiamente più vario ed eclettico, Crumbling risulta insuperato nella sua capacità di costruire atmosfere, che risultano sempre più ipnotiche e stordenti. Arabeschi di chitarra acustica, progressioni quasi-prog e beat folktronici, esaltano la delicatezza quasi sovraumana dei vocalizzi di Mid Air Thief e della collaboratrice Summer Soul, preziosa aggiunta in grado di arricchire non poco le linee melodiche. Ne esce fuori un gioiellino dream pop suadente e raffinato che galleggia fra beat elettronici liquidi, chitarre esotiche e tastiere fiabesche. L’augurio è che in futuro Mid-Air Thief sappia meravigliare come ha già fatto con i suoi primi due dischi e posso ritagliarsi maggiormente quella notorietà che solo ora sembra timidamente cominciare ad arrivare.
http://https://www.youtube.com/watch?v=HDNOO-OE3hs
Jannabi
Forse i più canonici fra gli artisti passati in rassegna, ma non per questo banali, i Jannabi sono un quartetto che ha rispolverato con grande maestria e con un piglio moderno la tradizione pop – rock degli anni sessanta e settanta. Il loro esordio sulla lunga distanza e dopo una lunga gavetta, Monkey Hotel (2016) mostra tutta la loro conoscenza enciclopedica e il loro approccio eclettico. Il pacchetto comprende ballate pop chitarristiche, numeri funk-rock, marcette jazzate, inni prog-pop, con sprazzi di folk, glam e hard rock, messi insieme da un attitudine giocosa e allegra e da una buona capacità compositiva.
L’interesse che scaturisce nei loro confronti diventa una vera e propria consacrazione quando per presentare il nuovo album viene rilasciato il singolo di lancio “For Lovers Who Hesitate”. Il brano, prodotto, come il disco precedente, dalla minuscola etichetta Peponi, all’insegna di un pop retrò, leggero ma sofisticato, riesce sorprendentemente a sbaragliare la concorrenza delle star del k-pop e prendersi il primo posto delle charts coreane. Così, l’album 전설 (Legend) del 2019 è un successo annunciato ma è anche un disco di grande destrezza compositiva che rispecchia pienamente le aspettative che il singolo aveva prodotto. Ritorna quella giocosa brillantezza del disco degli esordi, ma più posata e riflessiva, soprattutto più nostalgica e consapevole. Il disco è così finalmente un opera coesa che rinuncia al suo approccio enciclopedico in direzione di un stile più personale, che mette al centro un pop posato, vintage, delicato. Accantonati i Queen e i Bee Gees, i Jannabi trovano la loro dimensione artistica nella raffinatezza ed eleganza di Simon And Garfunkel e dei Beach Boys di Pet Sounds. Scelta più che mai azzeccata.
http://https://www.youtube.com/watch?v=GdoNGNe5CSg
Discografia essenziale
Aseul – New Pop (2016)
Jannabi – 전설 Legend
Mid- Air Thief – 공중도덕 Gongjoong Doduk
Mid- Air Thief – 무너지기 Crumbling
Neon Bunny – Stay Gold (2016)
Say Sue Me – Where We Were Together (2018)
Yukari – Echo (2012)
Immagine da commons.wikimedia.org
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.