Charlottesville, Trump e il domani
Charlottesville si iscrive tra gli eventi per cui sarà ricordata l’era Trump. Una manifestazione contro la rimozione di una statua di Robert Lee, generale degli sconfitti Stati Confederati, è stata promossa da forze di estrema destra (compreso il tristemente noto Ku Klux Klan), suscitando una reazione di piazza da parte della cittadinanza antirazzista.
Dopo alcuni scontri, Heather Heyer, giovane donna di 32 anni, è stata uccisa da un suprematista bianco, lanciatosi con la propria auto su un gruppo di dimostranti. Il presidente degli Stati Uniti in carica è stato accusato di aver preso una posizione di condanna in ritardo, oltre ad essere al centro di furiose polemiche per aver argomentato come le violenze siano da ascrivere ad entrambe le parti in piazza.
Trump appare isolato anche rispetto alla rimozione dei simboli Confederati nel sud degli Stati Uniti. Aziende, istituzioni locali, parlamentari (anche Repubblicani) e larga parte dell’opinione pubblica si sono mossi indignati rispetto all’agibilità dell’estrema destra, anche se su diversi giornali liberal e progressisti la teoria degli opposti estremismi appare decisamente condivisa, tra le righe.
Il razzismo ha origini ben radicate nella “più antica democrazia del mondo”, che tra l’altro ha sempre avuto cura di coprire anche le forme piu radicali, nonché il nazismo stesso. Il suprematismo bianco esiste negli States da ben prima della nascita del nazismo, e anzi ispirò gli stessi nazisti nei loro deliri sulla razza ariana.
Le leggi segregazioniste sono rimaste intatte fino agli anni Settanta e alcune legislazioni schiaviste, anche se non applicate in toto, sono rimaste in vigore in alcuni stati fino agli anni Novanta
Quello che è accaduto a Charlottesville è la conseguenza del caos americano e occidentale nel quale ci dibattiamo. In quanto facenti parte di un impero decadente ci troviamo sempre più esposti a simili fatti di isteria criminale.
Tuttavia, ritengo che un evento davvero dirimente e centrale nella vicenda sia la cacciata di Steve Bannon, avvenuta proprio in seguito ai fatti di Charlottesville. Quest’ultimo dopo la cacciata ha prontamente commentato come sia finita definitivamente la Presidenza Trump ed effettivamente ciò che sta avvenendo è la definitiva normalizzazione di una Presidenza eretica. Bannon, identificato come il suprematista bianco di turno, ci ha rimesso la testa, caduta sotto la scure del sovrano che deve tornare presentabile dopo aver coperto esplicitamente un gesto criminale.
Con la cacciata di Bannon, Trump riesce a cogliere due piccioni con una fava, poiché riesce a togliersi temporaneamente anche dall’impiccio nordcoreano assecondando gli interessi liberisti che premevano per un allentamento della tensione con la Cina.
L’obiettivo è ammorbidire la linea dura verso il Dragone cinese, in nome delle buone relazioni economiche di mercato. Nella fattispecie il Ministro del Tesoro, Gary Cohn e il lobbying della Goldman Sachs avrebbero esercitato pressioni fortissime per scongiurare quella “guerra commerciale”a cui gli Stati Uniti vanno inevitabilmente incontro nel lungo periodo e preconizzata in un’intervista che probabilmente è costata il posto al povero Bannon (link).
Infine, merita rilevare la cosa più curiosa che è sintomatica dello stato della nostra democrazia e della difficoltà di far filtrare nella gente la gravità dei fatti di Charlottesville. Se è vero che Bannon appartiene storicamente alla destra nazionalista statunitense, tutti i media mainstream lo hanno solitamente inquadrato come politico tutto sommato accettabile, ma solamente in quanto Consigliere Strategico del Presidente della “più antica democrazia del mondo”. E se ai vertici di tale democrazia antica e prestigiosa vi fosse una cricca di neonazisti? Nulla di male, il potere democratico continuerebbe ad autodefinirsi tale. La verità su di loro emergerebbe però solamente in seguito all’espulsione da tale cricca di questi venuti ai ferri corti con qualche pesce più grosso di loro. E la vicenda del povero Bannon, cacciato per ripulire la faccia di Trump dai fatti di Charlottesville e assecondare le mire ultraliberiste delle lobbies, non fa altro che dimostrarci quanto gli Stati Uniti effettivamente continuino a restare un’oligarchia.
Nascosto il nazista dietro la tenda, la stanza sembrerà più accogliente.
Trump continua a sembrare, al sistema di informazione, un errore, dovuto all’ignoranza dell’elettorato e alla sottovalutazione di un fenomeno comunque costantemente sminuito, anche a posteriori.
Vengono rimosse statue ed oscurati siti web. Alcuni profili su siti di incontri vengono censurati, con tanto di slogan pubblicitari (“dove si coltiva l’amore non c’è posto per l’odio”). La morte di una giovane donna impedisce all’aquila della democrazia di rimanere un faro di libertà, attraverso la favola di una presidenza reazionaria in grado di rafforzare la parte sana del Paese attraverso le proteste.
L’allontanamento di Bannon appare un tentativo di normalizzare una presidenza avvertita con sofferenza da larga parte dell’economia a stelle e strisce, a partire dalla Silicon Valley. Alcuni opinionisti si affannano a scrivere dell’affermazione di Trump come un problema di mero narcisismo: sarebbe un falso populista, che non ha la possibilità di costruire il muro con il Messico o cancellare l’Obama Care. Il tutto appare con sfumature inquietanti, quasi la sovranità popolare si esprimesse attraverso l’autotutela del sistema, anziché nella pratica politica (ridotta in effetti al mero voto, troppo spesso).
Esiste una parte oscura degli Stati Uniti da non affrontare, da utilizzare quando torna comodo, i cui problemi è bene rimangano irrisolti, dato che metterebbero in discussione troppi privilegi e metodi di sfruttamento.
Tolte le statue, bannati gli utenti, tutto sarà risolto?
Esistono almeno tre nodi irrisolti su cui vorrei soffermarmi con qualche parola.
1) Diverse realtà hanno evidenziato come le aziende private (quali Google, Facebook, Twitter, et cetera) siano pienamente legittimate a togliere visibilità, spazio, diritto di parola, secondo i propri parametri. Poi certo, il “libero mercato” ti impone di rendere compatibile anche il pensiero di Marx sui social, ma appare inquietante il potere in mano a questi privati, se larga parte delle nostre vite si sposta sul virtuale…
2) Togliere ogni spazio a qualcosa che esiste non rischia di spingerlo ad abbracciare ancora di più forme di violenza?
3) Quanto è compatibile l’estrema destra con il capitalismo? Perché nonostante larga parte dei quotidiani internazionali e nazionali sia scandalizzata dalla messa in discussione dei diritti individuali, i nazisti sono finiti alla Casa Bianca, mentre tutte le volte che qualche “comunista” si è avvicinato alle stanze del potere in occidente… ed ancora oggi, tra le macerie del muro di Berlino, liberali e progressisti trovano tempo per dedicarsi alla teoria degli opposti estremismi, spiegandoci come estrema destra e sinistra siano due facce della stessa medaglia, fosse mai che diventi egemone l’idea che capitalismo ed estrema destra sono le reali due facce della stessa medaglia….
Due sono i motivi addotti per rimuovere i monumenti confederati presenti nel Sud:
1) simboleggiano il suprematismo bianco, il razzismo, il segregazionismo, i linciaggi, lo schiavismo, ecc.;
2) i confederati, avendo preso le armi contro il governo degli Stati Uniti, sono dei traditori.
Riguardo la seconda questione, soltanto dopo la guerra di secessione, quando già avevano deciso le armi, la giurisprudenza ha ufficialmente stabilito che gli stati non hanno il diritto di lasciare l’Unione. Nel 1799 due padri della Costituzione e futuri Presidenti, Jefferson e Madison, avevano addirittura sostenuto che gli stati avevano il potere di nullificare nel proprio territorio le leggi federali; quindici anni dopo fu il New England a minacciare la secessione dopo che l’amministrazione Madison ebbe portato gli Usa in guerra contro la Gran Bretagna.
La prima argomentazione fa invece leva sul fatto che tali statue sono state erette in due periodi particolari: a cavallo tra Otto e Novecento e, successivamente, negli anni Cinquanta, per legittimare rispettivamente l’introduzione della segregazione razziale e delle restrizioni razziali al voto e poi la lotta contro il movimento per i diritti civili.
Proiettare il razzismo sulla storia della Confederazione, tuttavia, perde di vista due dati fondamentali. Il primo, che così facendo si accetta appunto la falsa narrazione razzista che pone l’equazione tra Sud e oppressione; il secondo, che tutte le politiche razziste in vigore nel Sud sono state debitamente approvate dalla Corte Suprema federale. Per citare solo alcuni episodi: l’unico giudice della Corte Suprema che si espresse contro la segregazione (Plessy v. Ferguson, 1896) era un ex proprietario di schiavi del Kentucky. Il generale Longstreet, principale aiutante di Lee, dopo la guerra comandò in Louisiana un reparto di ex schiavi contro le bande armate di bianchi suprematisti: per questo Longstreet è odiato dai “nazionalisti bianchi”, che si dimostrano estranei alla storia reale della Confederazione. Il Segretario di Stato dei CSA, Judah Benjamin, era un ebreo osservante (niente a che spartire coi neonazisti del KKK), proprietario di schiavi, che nella sua professione di avvocato difese schiavi che erano fuggiti cercando la libertà. Nella stessa Virginia, lo stato di Charlottesville, ex confederati promossero nel dopoguerra partiti interrazziali. Fu solo a fine Ottocento che l’élite bianca del Sud si sentì minacciata dall’alleanza elettorale tra neri e bianchi poveri e ricorse agli ignobili mezzi delle leggi razziste per dividere con la violenza le due comunità popolari.
L’attacco contro i monumenti confederati si inserisce in una lunga auto-erosione che il Partito democratico va compiendo sulla propria storia. Ad esempio in Iowa ha cassato i nomi degli schiavisti Jefferson e Jackson dall’omonima cena annuale che fa da palcoscenico per i candidati nazionali, ripudiando così i due fondatori del Partito democratico storico (1792, nato per realizzare in America gli ideali illuministi della Rivoluzione francese) e di quello attuale (1824, nato in opposizione alle politiche classiste dell’élite finanziaria del Nord). Questa operazione nasconde che Jefferson fosse personalmente contrario alla schiavitù, tanto da averla definita un crimine nella bozza iniziale della Dichiarazione d’Indipendenza (passo che fu cancellato dai delegati del Sud), e che lo sterminio dei nativi, iniziato da Jackson, fu completato mezzo secolo dopo dal generale nordista Sherman, “eroe” della guerra di secessione noto per aver incendiato i campi di cotone in Georgia. (La Confederazione, invece, prevedeva per i nativi un delegato permanente alla Camera.)
Quarant’anni fa i deputati del Sud, democratici conservatori, furono convinti a votare a favore della grazia per i renitenti alla leva del Vietnam in cambio della restituzione postuma dei diritti di cittadinanza a due leader sudisti: il generale in capo Robert Lee (morto nel 1870) e il Presidente Jefferson Davis (morto nel 1889). L’importanza pratica di questo atto era nulla, ma simbolicamente aveva un grande valore per l’identità regionale del Sud. Il venir meno della rappresentanza parlamentare di questo gruppo politico è stato tra i fattori che hanno favorito l’ascesa di Trump. Oggi i democratici si dividono tra chi ritiene necessario radicalizzarsi a sinistra e chi invece espandersi verso il centro, ma proprio tra questi ultimi si schiera Mitch Landrieu, il sindaco di New Orleans che tre mesi fa ha avviato la rimozione dei monumenti confederati.
La battaglia contro i fantasmi della guerra di secessione si risolve in una colpevole lotta contro inani mulini a vento del passato, mentre al giorno d’oggi il Voting Rights Act è stato mutilato dalla Corte Suprema e duecentomila afroamericani sono stati espulsi dalle liste elettorali in Wisconsin (che, essendo nel profondo nord, pare non abbia problemi di razzismo). E anche l’esclusione del neonazista Bannon dalla Casa Bianca non cambia che ricchi milionari siedano ancora ai dicasteri del Commercio, dell’Istruzione, della Sanità, degli Esteri (e, ovviamente, nello Studio Ovale).
Quando hai da una parte un gruppo di manifestanti che protesta contro il razzismo, il suprematismo bianco e l’odio razziale e dall’altra un gruppo di fanatici le cui azioni hanno portato all’uccisione di una giovane donna e al ferimento di decine di persone, risulta singolare che si possano, in buona fede, condannare “le violenze commesse da entrambe le parti” come molti esponenti della destra e in parte anche della sinistra americana hanno affermato.
Questi commenti riflettono però la consapevolezza di una crescente polarizzazione sociale, della nascita di due o più Americhe sempre più distanti e incompatibili. In una società sempre più divisa, conflitti economici e razziali si compenetrano, si alimentano a vicenda e procedono di pari passo. Per molti bianchi, la crisi ha significato perdita del lavoro, diminuzione del salario, perdita di prestigio sociale, frustrazione che ha trovato nei neri, nei latini e negli immigrati un capro espiatorio perfetto e in Trump la panacea di tutti i mali. Dalla parte opposta esistono comunità etniche enormi che sono rimaste schiacciate fra la delusione del sogno, disatteso e incarnato dal primo presidente nero Obama, di procedere verso un riconoscimento non solo formale ma anche sostanziale dei diritti civili e la consapevolezza di aver subito, più di qualsiasi altra categoria, l’esito nefasto delle politiche neoliberiste.
Da una parte hanno allora preso nuovo vigore le teorie razziste e suprematiste, con un ritorno in grande stile degli incappucciati del KKK, dall’altra si sono formati movimenti che sull’onda dell’indignazione per le violenze della polizia sui neri e il diverso trattamento in sede giudiziaria, stanno dando nuova linfa alle battaglie per i diritti delle minoranze nel nuovo millennio. Il futuro e la credibilità nel lungo periodo di questi movimenti, come Black Lives Matter si giocherà nella loro capacità di riuscire a coniugare una battaglia per i diritti civili con quella per i diritti economici, altrimenti il rischio sarà quello di essere assorbiti nella retorica liberal e innocua dei democratici di estrazione clintoniana.
Intanto però a Charlottesville c’erano due Americhe che indicano altrettante strade per il futuro degli Stati Uniti. Una conduce a uno stato fondato sulla diseguaglianza razziale, l’altra a uno basato sulla parità sostanziale di diritti. Liquidare la vicenda criminalizzando entrambe le parti, collocarle entro la stessa categoria di “estremismi” significa difendere lo status quo, ovvero un paese in cui le etnie non bianche si trovano in una situazione di oggettivo svantaggio socio-economico e nel quale si rischia di essere ammazzati dalle forze dell’ordine solo per essere usciti di casa la sera.
Immagine liberamente tratta da www.nytimes.com
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