Cavie umane per i test antismog
Nei tempi postmoderni in cui viviamo la schizofrenia è elevata a sistema di governo, per cui ogni processo diventa un ossimoro di se stesso volto a rivelarsi nella negazione di ciò che formalmente afferma. L’esempio più eclatante ci arriva dall’ecologia.
La Commissione Europea citerà in giudizio presso la Corte UE gli stati membri colpevoli di aver violato le norme sull’inquinamento atmosferico.
Parallelamente, la Società di Ricerca europea per l’Ambiente e la Salute nei Trasporti, fondata da 3 colossi dell’auto tedeschi (Volkswagen, Daimler e Bmw), ha promosso un “un breve studio di inalazione con ossido d’azoto su persone sane”. Lo studio (autorizzato dal comitato etico dell’università che svolgeva i controlli) ha previsto la esposizione di “venticinque persone, per diverse ore, e in diverse concentrazioni, all’ossido d’azoto”, in media tale esposizione è durata tre ore al giorno e si è ripetuta per quattro settimane consecutive. Successivamente queste sono state sottoposte a dei controlli presso la clinica universitaria di Aquisgrana per verificare le loro reazioni fisiologiche a tale sovraesposizione. Il tutto si è concluso con una transazione economica volta a remunerare la loro prestazione.
Mentre Angela Merkel sbraitava il suo odio etico verso le case automobilistiche colpevoli di utilizzare cavie umane, i grandi marchi tedeschi prendevano immediatamente le distanze dal centro di ricerca europeo al quale avevano commissionato gli studi.
Insomma, i grandi cattivi del petrolio in questo caso sembrano uscire truffati da coloro che con rigore scientifico e dovizia di particolari ci rendono edotti su quanti morti l’anno avvengono a causa dello smog e che non esitano a svolgere test scellerati pur di ottenere riscontri puntuali alle loro tesi.
La notizia degli esperimenti condotti su commissione di alcuni giganti automobilistici su scimmie e su umani volontari ha scatenato un gran polverone, e come al solito la stampa non ha ritenuto di doverlo dissipare almeno un po’; ma anzi, si è nutrita della confusione generata dall’indignazione che si scatena di fronte a “weasel words” come sperimentazione umana. Cerchiamo di fare un po’ di ordine.
I cosiddetti “esperimenti su esseri umani” non sono solo quelli ributtanti del passato tenebroso dello scorso secolo. Basta andare in un qualunque dipartimento di Medicina o di Chimica farmaceutica in una qualunque università italiana per trovare in bacheca bandi per volontari per test clinici. Ad oggi, infatti, come non si può rinunciare a testare i farmaci su cavie animali non si può rinunciare a un ultima fase di sperimentazione su volontari umani.
È la precedente serie di test sugli animali, oltre alla perizia nel disegno sperimentale, a garantire che i volontari umani corrano un rischio minimo.
Ma esistono numerosissimi casi di “sperimentazione umana” meno ovvi per la persona comune, come gli esperimenti che afferiscono al campo della psicologia sperimentale.
Ad esempio il famoso esperimento carcerario di Stanford, in cui un gruppo di studenti universitari volontari venne diviso in “guardie” e “carcerati”, ai rispettivi posti in un finto carcere creato all’interno dell’università. Il nostro immaginario è inquinato da figure hollywoodiane di scienziati pazzi intenti a sezionare malcapitate vittime, e quindi un esperimento come quest’ultimo ci può sembrare un mondo a parte a livello di pericolosità.
Eppure dovette essere sospeso dopo pochi giorni, quando le finte guardie iniziarono a seviziare i finti carcerati.
Ciò che rende etiche queste forme di sperimentazione, oltre alla volontarietà dei partecipanti, è una seria preoccupazione per la sicurezza collettiva o il genuino interesse scientifico che sta alla base, ed è precisamente l’assenza di questo elemento a rendere invece giustificata l’indignazione di fronte ai recentemente emersi test umani e animali dei colossi automobilistici.
Più che a far progredire la scienza, infatti, questi esperimenti sembrerebbero tesi a dimostrare che i mezzi alimentati a gasolio sono relativamente “puliti”, proprio in un periodo in cui i motori diesel sono sotto attacco e vengono formulati piani per bandirli e rimpiazzarli.
Un tipo di ricerca che cerca programmaticamente di intorbidire le acque quindi, cercando di sfruttare malamente il principio di falsificabilità.
Purtroppo non un caso isolato: grandi interessi economici e governi di svariati Stati hanno infatti sovvenzionato negli anni molti studi di questo tipo, tesi a difendere l’indifendibile: per negare la pericolosità del crisotilo (un tipo di amianto) come per dimostrare l’inesistenza del global warming, l’efficienza dell’estrazione del petrolio dalle sabbie bituminose o la bontà nutrizionale di diete ricche di zuccheri o di grassi saturi.
Anche quando non vengono coinvolti direttamente negli esperimenti esseri viventi l’ineticità di piegare gli strumenti della scienza alla legittimazione di cose e situazione dannose per la vita umana e animale è evidente.
Più che puntare al sensazionalismo la stampa dovrebbe aiutare la comunità scientifica a diffondere cultura critica, anche per difendere l’opinione pubblica dagli avvelenatori di pozzi 2.0.
Se al borghese sul piano etico appare riprovevole l’esistenza di una cavia umana che presta il suo corpo in cambio di una retribuzione, al marxista ciò non dovrebbe destare grande scalpore.
Infondo cosa faceva Henry Ford quando testava quali massimali di carico un operaio poteva trasportare in una giornata lavorativa senza stramazzare stecchito al suolo?
Experimentum in corpore vili.
La massa di disperati che necessitano di un salario per campare non manca oggi come allora ed il capitalista è pronto a offrire “la giusta paga per il giusto lavoro”. Peccato che se i disperati pronti a testare un veleno mortale pur di non perire di inedia aumentano i prezzi di tale remunerazione diventano un po’ meno giusti. Meraviglie della macroeconomia!
Così capita anche al giorno d’oggi. Il paradosso questa volta è che coloro che tutti i giorni ci ricordano quanto dannoso sia lo smog, quanto inquinanti siano le nostre auto e quanto il comune cittadino debba pagare per risarcire la collettività di queste sue sciamannate esternalità, alla fine ricorrano nientemeno che agli esperimenti su cavie umane per convalidare le loro tesi scientifiche.
L’ecologia dovrebbe essere fondata sul fine del benessere per la collettività e pare abbastanza scontato che non vi possa essere benessere in una società in cui qualcuno è costretto a vendere la propria salute per soddisfare bisogni più impellenti.
Ci vorrebbe la volontà di modificare radicalmente il sistema di informazione, anche nel suo reciproco influenzarsi con quelle persone pronte a scandalizzarsi cinque minuti – non uno di più – sull’uso di cavie umane per gli interessi delle “cattive multinazionali”. Del successo di Matrix ci è rimasto il bullet time, non una riflessione su quanto l’uomo preferisca illudersi di poter gustare il sapore di una bistecca, rispetto alla scelta di sapere come funziona la realtà in cui vive (chi scrive non è vegetariano né vegano).
Le nuove tecnologie ci metteranno in condizione di poter fare a meno di animali ed esseri umani per gli esperimenti? A leggere la stampa divulgativa del Sole 24 Ore pare di sì, anche se i costi sono alti, oltre alla necessità di dover rimettere mano a regole complesse e articolate. Queste ultime sono particolarmente limitative, tanto da rendere spesso poco conveniente al privato un effettivo corretto rispetto delle stesse (ma nascono proprio per evitare che il profitto snaturi il senso della ricerca…).
Fatta la regola, trovato l’inganno, dice il linguaggio comune. In parte è vero. In una società in cui si cerca di sopravvivere a titolo individuale, fa comodo pensare che comunque siamo tutti impotenti di fronte a cattivi nazisti che torturano vittime innocenti, salvo poi prendere in trentasei comode rate mensili una di quelle vetture delle quali faremmo volentieri a meno, perché inquinano, ma poi anche solo per andare in edicola, …
Lo scandalo sulla questione test antismog era l’occasione per riflettere su come funziona il mondo della ricerca scientifica e sul punto a cui siamo per le battaglie ambientali.
L’occasione però è stata, ovviamente, persa.
Quando il New York Times, il 25 gennaio, scrisse che la Volkswagen aveva usato dieci scimmie per testare il livello di tossicità delle emissioni, la notizia fu derubricata in posizioni di secondo piano e sollevò poche reazioni.
Diverso tenore la rivelazione di test su esseri umani, data da quotidiani tedeschi il 29 gennaio. Sarebbe curioso conoscere il comportamento anche dei produttori auto americani, se non altro visto che i test su scimmie si sono svolti in New Mexico e che dal New Mexico venne la prima proposta di usare umani; ma anche al di là del persistente attacco all’industria automobilistica tedesca si pone più di un problema etico.
Partiamo con le scimmie: è giusto sottoporre primati a sperimentazioni scientifiche? Già nel 2006 il Parlamento spagnolo discusse una proposta di riconoscere i diritti fondamentali ai primati; ad oggi restrizioni severe, se non il divieto, di ricerca sui grandi primati è in vigore in cinque Paesi Ue (Svezia, Paesi Bassi, Austria, Germania e – sic – Regno Unito). In Austria sono proibiti esperimenti anche su primati non ominidi. Il principio di base è che non solo bonobo e scimpanzé ma anche gorilla e oranghi sono cognitivamente simili agli esseri umani e quindi non possono essere sottoposti a test. Il terreno è molto scivoloso: l’uomo è sottoposto a test perché può dare il consenso volontario; lo scimpanzé non può darlo; ma allora lo scimpanzé non è cognitivamente simile. D’altro canto è proprio l’alta condivisione del patrimonio genetico tra uomo e grandi scimmie a rendere queste un test scientificamente più affidabile di un qualsiasi mammifero complesso (ad esempio il maiale) o di un roditore o di un pesce zebra (altri tipici animali da laboratorio).
E che dire degli umani? Nessun test su bonobo sarà affidabile quanto quello su uomo. La fistola anale di Luigi XIV fu operata con successo nel 1686 dopo numerosi esperimenti praticati su indigenti e galeotti (alcuni sopravvissero). Meno di vent’anni prima, la scienza medica aveva abbandonato la ricerca sulle trasfusioni dopo i ripetuti decessi di pazienti curati con sangue animale.
Ma a quali condizioni è lecito il test umano? Pazienti in stato terminale possono sicuramente proporsi per procedure mediche altamente rischiose; ma in casi come quello Volkswagen? Retribuire la partecipazione all’esperimento innescherebbe una crudele macelleria di darwinismo sociale; non retribuirla può portare a partecipare i soggetti depressi o comunque affetti da psicopatologie.
Il ruolo dell’esperimento, su animali di varie specie (escluse ovviamente quelle in pericolo!) o su umani, risulta ad oggi insostituibile. La sua delimitazione etica può essere affidata ad appositi Comitati, anche se proprio in Germania il Consiglio nazionale di bioetica propose nel 2015 la legalizzazione dell’incesto. Oppure può essere conformata a vincoli di responsabilità sociale: ma non è socialmente responsabile anche una ricerca sui gas di scarico, se conduce a combustibili meno inquinanti? (Anche se, a quanto pare, l’auto usata dalla Volkswagen era truccata per emettere meno polveri sottili – per il bene, se non altro, delle dieci scimmie.)
Sarebbe facile cavarsela addossando la responsabilità alla Natura matrigna, all’«aspra sorte» leopardiana che ci costringe alla catena alimentare, all’invecchiamento e alla morte. In realtà sono proprio lo sviluppo sociale e il progresso – costruito, questo, anche sugli esiti di esperimenti scientifici – a definire storicamente contorni etici sempre più nitidi. Basti pensare agli esperimenti su schiavi e forzati, oggi virtualmente scomparsi.
L’indignazione che ha fatto seguito alle rivelazioni della stampa sui test condotti su scimmie e persino su esseri umani è del tutto giustificata, soprattutto se è vero, come sostengono in molti, che gli studi siano stati commissionati non per un interesse scientifico reale ma solo per promuovere l’idea del diesel come “carburante pulito”: manovra di marketing dunque che avrebbe avuto lo scopo di riabilitare l’immagine delle case automobilistiche tedesche che hanno perso molta della loro credibilità dopo lo scandalo dei test anti-smog truccati.
Occorre però rifiutare una lettura “nazionale” del fenomeno che è emersa da molte parti (social network, blog e forum vari) ovvero quella che imputerebbe l’ennesimo scandalo che colpisce la Germania a una sorta di nazismo latente che caratterizzerebbe in maniera permanente ed innata i tedeschi. C’è chi ha evocato lo spettro dell’ “angelo della morte” Josef Mengele, tristemente celebre per i suoi esperimenti medici ed eugenetici condotti ad Auschwitz usando i deportati come cavie umane, come se i tedeschi avessero il nazismo scritto nel DNA, nazismo che si attiverebbe o disattiverebbe a seconda delle epoche storiche e delle situazioni ma che sarebbe sostanzialmente sempre innatamente presente e pronto a riemergere da un momento all’altro. Se accadesse uno scandalo simile qua da noi non credo che gli italiani parlerebbero di un ritorno al nostro caro Cesare Lombroso o al fascismo, anche perché di quelle eredità sembrano andarne sempre più fieri.
La realtà invece è che anche quest’ultimo scandalo che concerne i colossi dell’auto tedeschi dimostra che le logiche del profitto non si fermano davanti a nulla. Comportamenti che la maggior parte di noi non avrebbe difficoltà a considerare immorali avvengono in ogni angolo del mondo da parte di attori politici ed economici di ogni colore e credo. Stiamo andando incontro a una sempre maggiore reificazione della realtà sociale, fra algoritmi che decidono come e quando lavoriamo, dispositivi che misurano i costi/benefici fisici e psicologici di ogni nostra azione quotidiana in un contesto di ansia per l’ottimizzazione utilitaristica e di feticismo per il dato numerico puro che ha varcato ogni confine.
In questo contesto culturale, l’abbandono di certe pratiche come gli esperimenti su esseri umani è solo una messinscena (come anche nel caso della tortura).
Non si commettono meno nefandezze di 100 o 200 anni fa ma lo si fa in modo più nascosto e austero e soprattutto velando ogni cosa con una patina discorsiva che fa della retorica dei diritti umani e del politically correct un vero e proprio mantra.
L’indignazione per questo ennesimo capitolo del Dieselgate non è tale perché sono emerse pratiche che si pensavano superate ma perché si è potuto assistere con terrore a ciò che già sapevamo e che volevamo dimenticare: ovvero che dietro quella patina non si nasconde niente di caldo e umanitario ma bensì di freddo e calcolatore.
Immagine di copertina liberamente ripresa da flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.