Pubblicato per la prima volta il 14 giugno 2018
So che è stato detto e scritto tutto con voci molto più autorevoli e preparate delle mie rispetto alla vicenda dell’Aquarius, e che è augurabile che tanto si continui a dire e a scrivere a proposito di questo fatto, ma quel che è accaduto non può lasciarmi inerte, anche a costo di scrivere delle immense banalità o a fare dei ridondanti e altisonanti discorsi retorici. Il rifiuto da parte del Ministro degli Interni e del ministro delle Infrastrutture Toninelli insieme al placido/tacito silenzio assenso del presidente del Consiglio Conte, di far attraccare la nave di soccorso Aquarius con a bordo 629 persone, tra donne, uomini e bambini, è di una gravità allucinante.
Purtroppo non basta pubblicare e diffondere i dati reali dell’accoglienza di rifugiati in Italia, o l’incidenza di un numero così infimo sulla popolazione italiana perché a questa gente che si trova al governo del nostro paese non interessano affatto i dati reali, le vere statistiche, interessa solo avere il plauso dei propri elettori che dei numeri e della verità se ne fregano ancora di più. A questi ministri importa aver dato l’esempio di paese duro che finalmente alza la propria voce in Europa contro l’invasione di profughi, migranti economici e futuri clandestini, gli basta dimostrare il pugno duro e dimostrare che d’ora in poi le cose cambieranno, che i paesi europei non potranno più pensare che ogni barcone carico di esseri umani sbarchi sulle coste italiane, e questo indipendentemente dal loro numero o dal loro impatto reale nel rapporto con la popolazione autoctona. Informarsi e informare sui dati reali non rientra nei piani di coloro che puntano a cavalcare il risentimento e la frustrazione di una fetta abbondante di persone che ormai ha deciso che il nemico, il pericolo, la causa di tutti i mali siano 600 migranti che potrebbero arrivare sulle coste italiane, come in generale tutti gli stranieri presenti in Italia. Nessuna contro-narrazione molto più solida e fortificata da numeri, statistiche e corroboranti argomenti potrebbe smontare la retorica dell’invasione, dell’emergenza, dello straniero che ruba il lavoro e grava sulle casse dello stato.
Perché a nessuno interessa sapere come stanno realmente le cose, è più comodo convincersi che il problema siano queste persone e che sia l’Europa tutta a doversele prendere in carico e farle approdare su coste che non siano solo quelle italiane. Da tale punto di vista l’obiettivo di Salvini è stato raggiunto in pieno, ma ciò che è profondamente discutibile (per usare un eufemismo) è il modo in cui l’obiettivo di “divisione degli oneri dell’accoglienza e di cooperazione” tra paesi europei sia stato, almeno in questo caso (poi si vedrà per le altre navi di soccorso), raggiunto, grazie all’intervento del governo socialista spagnolo. Una prova di forza, quella di Salvini, che per quanto strategicamente vincente dal suo punto di vista (ha ottenuto l’approvazione di gran parte dell’elettorato, e non solo quello leghista) si è giocata sulla vita di esseri umani tenuti in ostaggio in nome di una mera ostentazione, di una provocazione lanciata agli altri paesi europei (in realtà forse più simbolica che, a mio parere, realmente producente anche dal punto di vista dei “piani salviniani”, perché dopo questi 629 migranti, ne arriveranno altri, e saranno anche molto più numerosi). Qui è l’immagine che conta, il messaggio che si vuole lanciare e in questo Salvini ha fatto pieno centro, accolto e applaudito da persone per lo più disinformate che davvero credono che le loro condizioni di vita possano migliorare con qualche migrante in meno sul nostro suolo. Tra l’altro l’Italia si colloca su posizioni molto basse, rispetto ad altri paesi (tra cui Germania, Svezia, ma anche la stessa Malta) europei, per quanto riguarda l’accoglienza di rifugiati in rapporto al numero di abitanti, ma, come sopra accennato, questi dati non scalfiscono minimamente la realtà fittizia che si vuole raccontare, la narrazione e la retorica dell’invasione e dell’emergenza su cui fa comodo costruire la propria azione politica e propagandistica.
Quello che a me preoccupa più di tutto di questa vicenda, ma non solo di questa, è, insieme alla catastrofe umanitaria, anche la catastrofe culturale in cui stanno piombando non solo l’Italia, ma anche diversi altri paesi europei e non solo. A cominciare da un linguaggio carico di disprezzo e di odio che parla di “pacchia”, di “ripulisti” o che inneggia alla naturalità della famiglia tradizionale decretando, verbalmente per il momento, l’inesistenza delle famiglie composte da coppie omogenitoriali; un linguaggio violento e distruttivo che fa passare l’idea “far-westiana” del farsi giustizia da soli, giustificando l’uccisione di vite umane in nome della protezione della proprietà privata. Condividere una simile visione vuol dire regredire radicalmente, tornare o diventare un paese incivile che su una ideale scala gerarchica colloca su posizioni superiori per importanza ciò che è proprietà rispetto a ciò che è vita umana. Perché uno dei problemi, giusto per citare un’altra tragedia recente, non è tanto che il sindacalista Soumaila Sacko sia stato ucciso nonostante fosse innocente e non volesse rubare ma cercare palizzate per costruire un’abitazione, il problema è che sia stato ucciso, punto e basta. Anche se davvero avesse voluto rovistare tra quei pezzi di lamiera per rubarli, il problema non sarebbe scomparso né la gravità che lo accompagna. Si entra in un pericoloso circolo vizioso quando per difendere le vite e la dignità di questi esseri umani, si eleva la loro moralità e il loro essere “brave persone”. Come direbbe De André “un ladro non muore di meno”.
Il punto della questione, a opinione di chi scrive, è proprio la riconoscibilità di coloro che chiamiamo “migranti” o “immigrati” o “clandestini” o rifugiati”, come soggetti, come soggetti prima di tutto politici, riconoscerli come prossimo, conferirgli quel grado di intelligibilità che si dà a un nostro concittadino, anche laddove non lo si conosca. Non dovrebbe esserci bisogno di dire che anche loro possono essere brave persone perché è un assunto ovvio e scontato. Così come anche tra di loro ci sono persone “meno brave”, come in tutti i popoli di questa terra. Allo stesso modo sbagliamo, a mio avviso, a fare la distinzione tra rifugiati e migranti economici, come se andasse bene accogliere i primi e cacciare i secondi, dimostrando tra l’altro di non conoscere bene le realtà, i contesti, i percorsi di vita che hanno fatto coloro che arrivano in Europa, perché spesso migrante economico e richiedente asilo sono due componenti di una stessa persona, i due aspetti spesso si incrociano e si mescolano, rendendo impossibile una distinzione netta. C’è chi arriva in Libia come migrante economico, per cercare lavoro e da lì è costretto a scappare per motivi di emergenza umanitaria, diventando, pertanto, un rifugiato. Nel nostro secolo mi augurerei che chiunque voglia costruire il proprio destino in un luogo diverso da quello in cui è nato, possa essere libero di farlo, possa essere libero di scegliere un’altra destinazione in cui provare a edificare il futuro per sé o per la sua famiglia e questa libertà dovrebbe poter essere garantita a tutti, indipendentemente dalla provenienza.
E alle repliche che bisogna tener conto del malcontento e della frustrazione della gente, dei loro istinti ferini, della “pancia delle persone” che “non ne possono più” di questi arrivi, credendo di essere “colonizzati” da mandrie di africani o arabi perché forze politiche hanno costruito questa fasulla narrazione, bisogna rispondere che la politica non dovrebbe abbassarsi alla pancia del popolo che è tenuta a rappresentare ma semmai elevarlo a una coscienza e una consapevolezze più alte e più nobili e più compatibili con la realtà. Se il popolo è asino, la politica deve insegnargli a smettere di ragliare, deve costruire un linguaggio e delle narrazioni che lo liberino dalla sua “asinità”. Deve farlo uscire dallo “stato di minorità” ed elevarlo a principi, valori, ideali più alti. Purtroppo coloro che adesso occupano le posizioni di governo non sono certo migliori del popolo che li ha eletti, gli uni sono specchio e prodotto degli altri, pur non sapendo chi tra le due parti ha creato per primo il mostro. Sono Salvini e compagni ad aver creato e fomentato la rabbia, la paura dell’altro e la xenofobia della gente o sono queste ultime ad aver creato e reso più forte il “mostro” gialloverde? Fatto sta che chi scrive non vede spiragli di riscatto positivo ma anzi, prevede un disastro inarrestabile.
L’incidente internazionale dell’Aquarius è sintomo di un fenomeno di “nazistizzazione” nel modo di concepire il diverso, l’altro da sé. Come il nazismo per poter giustificare e rendere digeribile l’annientamento di milioni di esseri umani doveva depredarli della loro umanità, doveva spogliarli dello stesso statuto di soggetto, così la logica di chi chiude i porti, di chi grida che la pacchia è finita, di chi parla di razze migliori di altre, ecc., è una logica che mira alla de-soggettivizzazione e alla disumanizzazione di queste persone. Mira a strappar loro lo stesso statuto di persone ed esseri umani. Toglie loro la riconoscibilità di soggetti, li estrae dalla loro cornice di intelligibilità, così da abbassarli al grado di non-individui, non-esseri umani, non-persone e soprattutto non soggetti politici, con il carico e il peso che si attribuisce a questa parola. I nazisti avevano ridotto ebrei, rom e sinti, omosessuali, disabili a zecche, a microbi, esseri parassitari che avrebbero infestato la razza ariana (vi erano studi sulle zecche finalizzati proprio a dimostrare che questi “parassiti”, per la loro passività non potevano esser annoverabili tra gli esseri viventi). Linguaggi violenti come “ripuliamo l’Italia”, “Facciamo ripulisti”, “Togliamoli di mezzo” e altre simili espressioni cariche di odio e di misconoscimento dell’umanità dell’altro, non sono lontani da una logica bio-medica ed eugenetica che applicavano i medici nazisti per tutelare la purezza della razza ariana dagli “scarti” contaminatori della società. Smettere, anche solo a livello semi-inconscio, di riconoscere l’altro come soggetto è il primo passo per il suo annullamento senza carico di colpa né responsabilità. Lasciare vite umane in balia del sole e delle onde del mare, per quanto non in pericolo di vita (comoda “coperta di Linus” per rassicurare la propria coscienza, per non sentirsi colpevoli e forse in questa operazione di auto-assolvimento permane ancora un residuo di umanità) significa non riconoscere più quelle persone come persone, negare la loro possibilità di soffrire, di avere paura, di provare angoscia e ansia per il proprio destino, e negare a noi quell’istinto, in altre circostanze automatico, di soccorrere chi ha bisogno di aiuto perché è in una condizione di debolezza e precarietà.
Mi sento profondamente a disagio in un mondo che è incapace di negoziare le relazioni di prossimità che ci connettono gli uni agli altri. In un mondo che non ammette alcun tipo di relazionalità, né tanto meno prossimità, con determinate alterità. E nel fare questo, appunto, spoglia questi altri della loro dignità di soggetti, della loro dignità di persone. Sono solo considerabili come pericoli, entità quasi astratte che minacciano la mia presunta supremazia e il mio presunto maggior diritto ad avere diritti e possibilità di autodeterminazione derivanti dal mio, del tutto casuale e non meritocratico, esser nato in un paese occidentale. Se proprio è concepita una relazionalità con l’altro da sé questa è agita nei termini di rabbia, difesa, paura, protezione del proprio spazio dall’intrusione e dall’“invasione” dell’altro.
Le strutture politiche e sociali che di volta in volta costruiamo, e i linguaggi e le narrazioni che le accompagnano, condizionano fortemente e “manipolano” il modo di recepire e concepire l’altro, ne determinano la sua riconoscibilità in quanto soggetto o la sua non riconoscibilità. Nella nostra contemporaneità in molti, troppi paesi, questi strutture sono barriere, fili spinati, porti chiusi; i linguaggi sono inneggiamenti all’odio e alla paura, all’espulsione e al disprezzo, così che la riconoscibilità dell’altro viene costantemente messa in pericolo, mettendo in discussione e rendendo labile il suo statuto di soggetto agente e patente e portando così a un’indifferenza pressoché totale del suo destino umano. Queste strutture politiche e discorsive cancellano la sua stessa rappresentabilità e la sua stessa “figurabilità” (il potermi rappresentare questo altro in determinate condizioni, con una storia alle spalle, con una rete di legami, con la sua capacità di sofferenza eccetera), e quindi abortiscono a priori una qualsiasi forma, foss’anche minima, di empatia, di immedesimazione o di compassione (nel senso etimologico latino di cum-patire, soffrire insieme, partecipare emotivamente alla sofferenza dell’altro ma anche di quello greco di syn patheia di partecipazione a qualunque sua passione) dell’altro.
“La possibilità di riconoscere l’altro si costituisce socialmente e dipende dal modo in cui le strutture sociale e i regimi discorsivi ne sanciscono anzitutto l’intelligibilità o la non-rappresentabilità; la dignità o la non-dignità di essere riconosciuto. Di conseguenza, il lavoro da compiere ha […] a che fare col modo in cui l’umano perviene a esistenza entro schemi relazionali e discorsivi”[1].
Bisognerebbe dunque cominciare di nuovo a interrogarsi sulla nozione di soggetto, e sulla nozione di umano, se non vogliamo perderle entrambe e risultare incapaci di riconoscerle in quello che chiamiamo altro. Probabilmente non esiste una nozione di umano valida e codificabile una volta per tutte, perché è un concetto transuente, storicamente determinantesi e dai confini labili. Possiamo però proporre un paradigma dell’umano diverso da quello dell’Homo oeconomicus, criticando il postulato che l’umano sia definibile a partire da caratteristiche che pongono l’accento sull’autoconservazione, la razionalità, la forza e la sovranità eleggendo questi aspetti a criteri privilegiati e universalistici, che oltretutto finiscono per appiattire e rendere vuota ogni specificità culturale.
Si potrebbe invece provare a ipotizzare un soggetto opaco a se stesso, nell’idea che “non solo lo statuto ontologico del soggetto consiste in una precarietà e in una vulnerabilità estrema, ma anche il legame etico con gli altri è radicato nella stessa condizione umana”. Come inviterebbe a fare la filosofa Judith Butler che elabora così una ontologia dell’umano che precede o anticipa persino ogni discorso relativo ai diritti: “Quando lottiamo per i nostri diritti non stiamo […] lottando per diritti che si riferiscono alla nostra persona, ma per essere considerati come persone”[2]. Alcuni soggetti non sono riconosciuti come persone e questo implica già una castrazione alla radice dei loro stessi diritti, impediti in partenza. Sono corpi e non soggetti, portatori di un’esistenza indifferente, sono esseri che “si trovano al limite estremo di un’agonia della presenza, di una presenza morente […] Non ancora morti ma ogni volta […] sul punto si scomparire […] Diventare meno, sempre meno”[3], senza mai però scomparire del tutto.
Questo paradosso dell’invisibilità nella troppa visibilità, della “non esistenza” nella troppa presenza, del non-riconoscimento nell’esser fin troppo evidenti è ben incarnato dalla figura del migrante. Figura del migrante che richiama un po’ quella dell’Homo sacer di Agamben, ripresa dall’antico diritto romano che denota la “nuda vita” depoliticizzata. Homo sacer indica l’eccezione rispetto al processo di costituzione politica, è ciò che è fuori, che è escluso dalla regolazione dello stato, dalla “ragione governa mentale”. L’Homo sacer possiede soltanto una nuda vita, ovvero il mero corredo biologico e in quanto de-politicizzato, è escluso dalla comunità e di conseguenza, per gli antichi romani, uccidibile senza macchiarsi di reato. Questa figura incarna il paradosso della non-sacrificabilità unita all’uccidibilità senza colpa, senza che la sua uccisione costituisca un crimine, poiché la sua esistenza non è regolata dalle norme dello stato, dal diritto e dalle leggi. La sua vita non è “governamentata”, è mera esistenza biologica ma in quanto tale priva di dignità politica, esclusa dalle norme sociali e dalla vita comunitaria. La sua non è una soggettività bensì una singolarità qualunque.
Homo sacer è colui che è esposto al bando, messo al bando, o, se vogliamo, ab-bandonato, perché è sulla nuda vita che si esercita il potere (o anzi, il bio-potere, proprio in quanto esercita la sua azione sul dato biologico, si inscrive, come direbbe Foucault, nella carne dei soggetti) e questo potere mette al bando, esclude, taglia fuori dalla comunità e confina in luoghi non luoghi colui che è “nudo”, privo di un’identità, dotato solo della sua zoè, la mera vita biologica. Il bando è il luogo non luogo, spazio qualunque, esteriorità esclusa dai confini che chiudono la dimensione del “dentro” , dello Stato, dello spazio politico, civile e comunitario, caratterizzato da codici, leggi, modi e regole di convivenza, simbologie, proprietà eccetera. Il bando è spazio impolitico, limbico, proprio come quello in cui si situano, metaforicamente ma anche fisicamente, i migranti, che questo spazio sia rappresentato da una nave/barcone o da un C.I.E (Centri di Identificazione ed Espulsione), che ben presto diventeranno Centri per il rimpatrio. Tutti luoghi non luoghi in cui vige “stato di eccezione”, di emergenza, il limite paradossale della legge che annulla la legge stessa, l’annullamento dell’ordinarietà del diritto che è lo stesso diritto ad operare. Il mare stesso, culla e tomba di tanti di questi uomini, donne, bambini che provano ad approdare sulle coste dell’Europa è una specie di non luogo che ha leggi tutte sue, fuori dagli ordinamenti comuni.
Lo spazio del migrante è la precarietà, l’esteriorità, l’essere senza luogo né identità, è il bando. Alla base è questa (non)considerazione dell’umano in quanto umano che impedisce le più scontate forme di civiltà e di soccorso, che invece ci imponiamo laddove riconosciamo l’altro come un soggetto politico, come un portatore di soggettività (e dignità) sociale e politica e quindi degna della mia chiamata in causa, del mio dovermi porre al suo servizio in caso di difficoltà o pericolo. Riconoscerlo come portatore di umanità.
Come anticipato è forse proprio da qui che dobbiamo ripartire. Ripartire da una nuova concettualizzazione di ciò che è soggetto e di ciò che è umano, scardinando entrambi i concetti dalla loro autonomia e auto-referenzialità. Superare quella nozione di umano strutturato a partire da un sé auto centrato e padrone di sé, fondatore di sé stesso, sovrano e sciolto dai legami, immune alla relazionalità: “Anziché essere il luogo di una inoppugnabile razionalità e di una identità fortificata da una storia di successi politici e culturali, l’Occidente – e il soggetto – sono (da sempre) il luogo di una costante intrusione da parte dell’altro. Svelare il feticcio di una razionalità autocentrata e di un sé sovrano sono compiti che la filosofia post-strutturalista ha ormai ampiamente svolto in tutte le sue possibili varianti”[4].
Pensare l’umano in maniera diversa, pensare il soggetto non come assoluto padrone di se stesso, ma come fin da sempre contaminato dall’altro, “invaso” dall’altro, levinassianamente “interpellato dall’altro”, sartrianamente guardato dall’altro, foucaultianamente soggettivizzato (soggettivazione intesa come assoggettamento al potere e dunque sottomissione ma al contempo anche soggettivazione vera e propria, ovvero costituzione del soggetto, divenire soggetto) o butlerianamente esposto all’altro, caratterizzato da una dipendenza originaria che condiziona la sua formazione politica. Forse solo così possiamo recuperare un’etica dell’umano più vivibile per tutti, un’etica disponibile verso qualunque altro si ponga di fronte a noi e creare un’intersoggettività positiva che ci permetta di vivere in comunità. Occorre fondare una nuova etica che prende le sue mosse da un ego-cum, come direbbe Nancy, e non dall’ego sum cartesiano. Un’etica che parte e si realizza a partire dall’intrinseca e insopprimibile vulnerabilità di ogni soggetto umano, questo potrebbe permettere un’apertura verso la vulnerabilità dell’altro, perché è la stessa che mi costituisce.
A caratterizzare il soggetto, potrebbe essere la sua dipendenza dall’altro e non la sua ab-soluta sovranità, sciolta e svincolata dal bisogno dell’altro cui invece siamo legati fin dalla nascita. È questo il nostro primo lutto, la nostra prima debolezza che però è anche ciò che ci soggettivizza, che porta all’emergere del soggetto: la consapevolezza di essere frutto di una dipendenza, di una non-autonomia, di un amore famelico e necessario per colui/coloro da cui si dipende; la consapevolezza che a fondarci non è una sovranità, una piena autonomia o una razionalità discorsiva e attiva ma una passività, una dipendenza, una vulnerabilità, una relazionalità, un bisogno vitale dell’altro, senza il quale soccomberei e non potrei costituirmi come soggetto. È forse accettando questa reciproca e inevitabile interdipendenza che posso finalmente accettare l’altro, in una comune esposizione, anche al pericolo e al male che l’altro potrebbe infliggermi, ma anche a ciò che di bello può darmi.
Pensare il soggetto come un soggetto opaco, dislocato, non come autocentrato, egocentrico, ma come de-centrato, come periferico, in quanto i suoi confini sono sempre sfilacciati dalla “contaminazione” con l’altro permette di aprirsi a questo stesso altro da sé. Ma non solo in nome di un impegno etico, una responsabilità verso l’altro quando sono posto di fronte a lui, ma perché è questo stesso altro, è la relazione che fin da sempre ogni soggetto intrattiene con l’alterità che fondano il soggetto stesso. “Senza l’appello di altri (che in parte sono anche personificazioni delle norme, portatori delle griglie di intelligibilità attraverso cui il sé può emergere come soggetto) restiamo muti ed invisibili. Relazionalità quindi non significa semplicemente celebrazione dell’apertura all’altro, impegno etico verso chi mi sta di fronte: essa ha invece a che fare con la vivibilità. Al di fuori della scena interlocutoria in cui sono chiamata in causa, in cui entro a fare parte di un regime di verità e di realtà – in cui, direbbe Foucault, mi costituisco come soggetto, pagando un certo prezzo – non c’è riparo individuale. Dalla relazionalità interlocutoria dipendo per esistere. Prendere atto di questa totale dipendenza dalla convocazione altrui significa anche, […] fare il contropelo a quel discorso pubblico che disumanizza i propri “nemici’” iperumanizzando le proprie vittime”[5].
Se accettiamo che sia l’altro a costituirmi, a consegnarmi a una esteriorità che mi impedisce di essere totalmente trasparente a me stesso e che costantemente mi de-centra, mi mette in discussione, mi disloca e mi opacizza, forse davvero possiamo imparare ad accogliere l’altro da noi.
“Proprio in virtù di questa relazionalità costitutiva sono ‘già da sempre fuori di me’, e lungi dall’essere frustrata per questo spossessamento, cerco di trasformarlo in una risorsa morale: […] se è proprio in virtù delle relazioni con gli altri che si è opachi a sé stessi, e se queste relazioni con gli altri sono il luogo della propria responsabilità etica, allora significa che è proprio in virtù dell’opacità verso di sé che il soggetto si espone e accetta alcuni dei più importanti vincoli etici”[6].
Da qui nasce un’etica del soggetto, dell’umano e una responsabilità etica nei suoi confronti, di qualunque soggetto che ci interpella, che ci chiami a rispondere, si tratti. L’incontro con l’altro mette in questione, destabilizza la natura monolitica e assolutistica dell’io, la sua pretesa natura solipsistica e autoreferenziale, il suo voler essere per sé quando, come direbbe Lévinas, è fin da sempre, ontologicamente, un essere per l’altro. È proprio Lévinas ad aver coniato la famosa figura dell’emergere del volto dell’altro, nella sua totale nudità. Volto nudo che subito, facendo la sua semplice comparsa diventa immediatamente un impegno per me, un appello rivolto a me, una responsabilità cui non posso sottrarmi. È una responsabilità a priori che io ho nei confronti dell’altro. Dietro quel volto c’è qualcuno che mi chiama, che mi obbliga a rispondere, che mi obbliga pur facendolo senza forza.
“Sono responsabile d’altri, rispondo d’altri. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che di primo acchito fa parte di un insieme che tutto sommato mi è dato, come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in un certo modo da tale insieme precisamente con la sua apparizione come volto. Il volto non è semplicemente una forma plastica, ma è subito un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al suo servizio. Non solamente di quel volto, ma dell’altra persona che in quel volto mi appare contemporaneamente in tutta la sua nudità, senza mezzi, senza nulla che la protegga, nella sua semplicità, e nello stesso tempo come il luogo dove mi si ordina”[7].
Il soggetto è costitutivamente dipendente dalla convocazione/invocazione dell’altro e a questo deve rispondere.
Una riflessione sulla vulnerabilità dell’umano può quindi, forse, condurci a riconoscere più umanità nell’altro, riconoscendo tutti i soggetti come vulnerabili e dipendenti, non in pieno possesso di sé. Il dolore, sempre per citare Butler, non rimanda solo a una dimensione privata, personale, intima, ma è foriero di una comunità politica “evidenziando quei legami e quelle relazioni necessari a teorizzare ogni forma di dipendenza fondamentale e di responsabilità etica. Se il mio destino non è né prima né dopo separabile dal tuo, allora questo ‘noi’ è attraversato da una relazionalità cui non possiamo facilmente opporci; oppure possiamo, possiamo anche opporci a essa, ma a costo di negare ciò che di fondamentale c’è nella condizione sociale della nostra stessa formazione”[8].
Le forme di soggettivazione devono essere declinate a partire da una connotazione ontologica relazionale. Siamo costitutivamente “esseri relazionali”, portatori della traccia dell’altro, ed forse solo accettando che ogni processo di soggettivazione sia presieduto da una sfera intersoggettiva, relazionale, di interdipendenza, che possiamo riconoscere dei soggetti, degli esseri umani, in qualunque altro si presenti alla nostra porta.
“È lo stesso concetto di umano a riferire […] di un agire in concerto, di una condizione nella quale siamo consegnati fin dall’inizio agli altri, in cui siamo sempre fuori da noi e mai trasparenti a noi stessi: di una condizione in cui «prendersi le proprie responsabilità significa innanzitutto riconoscere i limiti di ogni comprensione di sé» e «di assumere tali limiti non solo come predicato del soggetto, ma come condizione generale dell’intera comunità umana». Questo ci espone a una vulnerabilità che non è possibile rettificare, poiché precede addirittura la formazione dell’io, ma a partire dalla quale è senz’altro possibile ripensare la qualità di questo essere nelle mani degli altri (e di questo essere degli altri nelle nostre mani) in cui consiste la nostra condizione relazionale. E non vi è pensiero più politico di quello che rimette al centro proprio la qualità delle relazioni umane, al fine di rendere possibile la nostra stessa persistenza in quanto umani”[9].
Più che l’appello a restare umani, si potrebbe lanciare un appello a iniziare a diventare umani, conferendo un nuovo senso e una nuova valenza allo stesso concetto di umanità.
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F. Zappino, Il potere della melanconia, in J. Butler, La vita psichica del potere, a cura di F. Zappino, Mimesis, Milano 2013, p. 35. ↑
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J. Butler, La disfatta del genere, a cura di O. Guaraldo, Mimesis, Meltemi, Roma 2006, p. 59. L’analisi di Butler è soprattutto improntata sul soggetto queer e sulla questione del gender, luogo per eccellenza dell’intervento normalizzatore di sapere/potere, nonché ambito “privilegiato”in cui è più facile scorgere vulnerabilità e precarietà dell’umano, questo non toglie però che la sua riflessione si allarghi e possa applicarsi al soggetto umano in generale dipendente costitutivamente da ordini discorsivi che ci precedono e trascendono, e quindi va rivolta, in particolare, a tutti i soggetti “meno riconosciuti” dalle relazioni di sapere/potere, i più invisibili, i più vulnerabili, quelli meno “inquadrabili” in cornici di intelligibilità. ↑
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A. Simon, Dal teatro di scrittura alla scrittura di scena, in S. Beckett, Teatro completo, Einaudi Gallimard, 1994, p. 754. ↑
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http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2007-11/butler.htm ↑
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Ibidem ↑
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J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 32 ↑
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Intervista a Emmanuel Lévinas in https://mondodomani.org/dialegesthai/el01.html ↑
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J. Butler, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, a cura di O. Guaraldo, Meltemi, Roma 2004, p. 41 ↑
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F. Zappino, op. cit., p. 36 ↑
Immagine: A. de Souza-Cardoso, Maschera con occhio verde, 1914-15, (dettaglio)
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.