Pubblicato per la prima volta il 18 agosto 2017
Il problema del
tempo non è la velocità ma il senso. Byung-Chul Han, filosofo e
docente a Berlino, invita, nel suo Il profumo del tempo,
all’arte di indugiare sulle cose, indagando il malessere diffuso
nella società contemporanea globalizzata.
Nel testo pare
trovare risposta anche la domanda di Pietro Ingrao sul valore della
contemplazione (ne
ho scritto qui). A livello diffuso ci capita spesso di affermare
od ascoltare parole inerenti all’assenza di tempo. Numerose sono le
vittime cadute di fronte ai nostri occhi, nel nuovo millennio: la
verità, l’esperienza, la conoscenza, il linguaggio, la complessità
ed il valore dell’ambivalenza. La causa è lo sparire della durata.
Non abbiamo modo di vivere le nostre esperienze, riducendole ad un
consumo di eventi, verificabile anche con un esempio su cui forse
l’autore non concorderebbe: pensate però alle fotografie durante
le vacanze (dato che siamo in agosto). Tutto deve essere messo nella
memoria di una scheda SD (o salvato sul cellulare) per rendere il
passato costantemente accessibile.
«Se si toglie la
memoria alle cose, esse diventano informazioni, o anche merci, che
vengono spostate in uno spazio temporalmente vuoto, astorico. La
registrazione dell’informazione è pertanto preceduta dalla
cancellazione della memoria, dalla cancellazione del tempo storico»
(p. 15). La sensazione di affogare nelle (apparenti) infinite
possibilità offerte dalle nuove tecnologie è la conseguenza del
reale problema: non esiste una tensione narrativa capace di dare un
significato alla nostra esistenza. L’accelerazione è una
«inquietudine nervosa», la vita non aumenta di velocità ma diventa
solo «più confusa» (p. 20). Il tempo si atomizza, senza un prima e
un dopo, la «finestra del presente» si accorcia e si affolla (p.
50). Contemplare diventa impossibile non perché non ve ne sia il
tempo, ma per l’assenza di una sintassi capace di dare
significato.
Siamo passato da un tempo mitologico, dato come
immagine, ad un tempo storico, vissuto come processo. L’orizzonte
escatologico, di natura religiosa, ha poi ceduto il passo, con
l’Illuminismo, ad un tempo «basato sulla promessa di progresso»
(pp. 22-23), di cui la locomotiva è perfetta metafora, con la
tecnica e la scienza al servizio di una corsa contro l’ingiustizia
(per echeggiare le parole della nota canzone di Guccini).
Oggi,
secondo Byung-Chul Han, abbiamo perso ogni spazio per la profondità
dell’essere.
Nella seconda parte
del libro si fa serrato un confronto con Nietzsche, Heidegger, Marx
ed Arendt, attraverso anche i riferimenti a Baudrillard, Simmel ed
Hegel, oltre ad Aristotele, Tommaso d’Aquino e Gregorio Magno.
Anche senza avere familiarità con l’universo filosofico, può
essere comunque facilmente colto il senso di una critica di fondo
alla centralità del lavoro nella lettura delle comuniste e dei
comunisti nel corso del Novecento, su cui si è appunto interrogato
anche Ingrao.
Per il filosofo a noi contemporaneo la questione
attiene all’avere sostituito alla fatticità la produzione. Il
mondo non è dato (Dio è morto), si offre come processo all’umanità,
chiamata a dare un senso al proprio agire. Scomparsa però ogni
distanza tra l’azione e la realtà tutto finisce per ridursi al
lavoro, sfruttato od emancipato. Anche laddove si arrivasse ad una
democratizzazione del lavoro rischieremmo di essere schiavi di
quest’ultimo, con la riduzione di tutto a merce da consumare.
Se
la persona si riduce come soggetto storico alla figura del
lavoratore, al di fuori del processo produttivo si riduce ad essere
consumatore, si sostiene nel libro. Ogni momento libero si limita ad
essere una pausa per riposarsi e poi rientrare all’interno della
trasformazione del mondo in merce.
Le conseguenze della
situazione denunciata da Byung-Chul Han attengono ovviamente anche al
vivere in società.
«Mancando il tempo per pensare e la quiete
nel pensare, si evita ogni opinione divergente e si inizia persino ad
odiarla. […] È il tempo a dettare il pensiero» (p. 125). «Se si
toglie al linguaggio la dimensione indiretta esso si approssima al
grido e all’ordine. Anche cortesia e gentilezza riposano infatti
sul deviante e l’indiretto. La violenza, invece rinvia al diretto»
(p. 126).
Decelerare non è
quindi la risposta. L’autore propone di democratizzare, oltre al
lavoro, anche l’otium, inteso come pratica contemplativa
capace di interrogare l’uomo sul proprio essere. Occorre una
«mediazione tra vita contemplativa, che senza azione è cieca, e
vita activa, che senza contemplazione è vuota» (p. 129).
Per
farlo è necessario rifiutarsi di vivere ogni giorno come un nuovo
inizio e sapersi collegare sia con il passato che con ciò che ci sta
intorno. Il profumo del tempo si concentra sull’individuo, ma è
nel suo relazionarsi con gli altri che è possibile ricostruire una
tensione narrativa autentica, non veicolata dall’alto e capace di
ridare un significato diverso da una società in cui tutto è merce,
a partire da noi stessi.
Byung-Chul Han, Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, Vita e Pensiero, Milano, 2017, p. 136, € 15,00
Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.