Bombardamento statunitense in Siria: monito o premessa?
Dopo mesi di combattimenti in cui la fortuna bellica stava gradualmente iniziando a sorridere ad Assad e al suo alleato russo a danno dei ribelli sia “moderati” che islamisti, nella notte fra il 6 e il 7 Aprile gli Stati Uniti hanno lanciato il primo attacco deliberato contro obiettivi militari del governo siriano, rimescolando nuovamente le carte di una crisi regionale sempre più allarmate.
Il pretesto, un bombardamento che si presume condotto dall’aviazione governativa nella provincia di Idlib con armi chimiche e che ha causato la morte di almeno 86 persone, ma le cui dinamiche e responsabilità sono ancora tutte da verificare, ha portato l’amministrazione Trump a spingersi su posizioni interventiste incassando l’immediata approvazione di Ankara e di molti leader europei. Molto dura invece la Russia che parla di violazione illegittima della sovranità nazionale.
Resta da capire se si tratti solo di un attacco dimostrativo oppure se Trump abbia veramente l’intenzione di aprire un fronte militare in una zona delicatissima del pianeta, in un paese martoriato e diviso in cui si scontrano gli interessi geopolitici delle principali potenze mondiali.
E così coloro che credevano alla pace armata tra Stati Uniti e Russia per via dell’ascesa di Donald Trump e delle possibili convergenze politiche tra i due blocchi conservatori restano definitivamente delusi. Stati Uniti e Russia continuano ad essere profondamente divisi su basi radicate nel sistema di riproduzione mondiale del capitale e con il peggioramento della crisi sistemica la situazione non potrà che peggiorare.
Nella settimana appena trascorsa infatti il martellamento massmediatico sull’utilizzo di armi non convenzionali, chimiche nella fattispecie, su civili (bambini) ha fatto scattare prima l’indignazione a comando nei benpensanti occidentali e immediatamente dopo la rappresaglia unilaterale degli Stati Uniti sull’esercito regolare di un Paese sovrano. Quello che dovrebbe essere, a rigor di logica, un atto di guerra non dichiarata, passa però nell’opinione pubblica mondiale come l’avvertimento da parte del poliziotto globale al “regime” russo complice di aver spalleggiato troppo a lungo il massacratore di bambini Bashar Al Assad.
Com’è evidente a qualsiasi persona non sia pervasa da una visione ideologica della realtà, il fatto che in Siria vengano utilizzate armi chimiche è molto differente dall’attribuzione certa di responsabilità a uno dei tanti attori che operano sul territorio. Ma d’altra parte le interviste giornalistiche riportano la gran confusione che vige nell’opinione pubblica convinta che “Trump abbia bombardato i terroristi”. Ancor più grave è legittimazione di un attore esterno ad intervenire militarmente contro un Paese delle Nazioni Unite senza l’approvazione dell’organizzazione stessa, e nonostante si operi in un territorio martoriato da una guerra civile che dura ormai da sei anni.
Certo, per il 90% dei commentatori ormai è una norma consuetudinaria, viste le deroghe avvenute dal 1989 ad oggi in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia tanto vale continuare.
Purtroppo però le tensioni globali stanno esplodendo e l’imperialismo americano è più determinato che mai nell’impresa di mozzare la testa agli Stati scomodi che ancora resistono all’inclusione nella sfera di mercato statunitense. Siria e Corea del Nord sono i prossimi della lista. Russia e Cina sono avvisate da Trump che si sta rivelando né più né meno che la faccia incattivita dell’imperialismo. L’Italia e l’Unione Europea continueranno a fare i servi del padrone d’oltreoceano o saranno in grado di avere una propria visione e dar vita ad una propria politica più lungimirante? Vedremo, anche se personalmente ho messo al bando l’ottimismo politico da un po’.
Trump l’isolazionista. Putin il manovratore. Assad il dittatore sul punto di cadere. I ribelli per la democrazia portati dal vento delle Primavere Arabe. I califfi neri combattuti dalla NATO.
Tutte le ipocrisie risuonano nel vuoto dell’indifferenza di un’opinione pubblica occidentale imbarazzante, per la quale dovremo chiedere scusa. Non che l’opposizione a Bush jr. sia servito a molto, ma dei punti di resistenza sembravano lasciare aperta la speranza di un mondo diverso.
L’Europa come terra di pace, l’Unione Europea come baluardo per evitare i conflitti. La guerra è brutta ma fino a che segna l’altra parte del Mediterraneo (o la parte orientale del vecchio continente) c’è poco di cui indignarsi ormai.
Leggere che si è “contro Trump e contro Assad” sul sito di Sinistra Italiana fa il pari con chi ha avuto il coraggio di scrivere che Trump avrebbe garantito maggiore pace rispetto alla Clinton, mentre sullo sfondo rimane chi stampa litografie di Putin come campione antimperialista.
Si è contro la guerra come strumento per dirimere questioni di politica internazionale (quale è l’ingerenza nei paesi del Medio Oriente).
Pretendere da ogni ente locale, da ogni eletto a qualsiasi livello, una presa di distanza dalle vittime dell’ipocrisia atlantica deve essere la priorità per ogni commosso utente del web che scuote la testa di fronte a qualche immagine “sensazionale”.
La versione dell’attacco su Khan Shaykhun resa nota dalla branca siriana di al-Qaeda, che occupa terroristicamente quell’area, è stata propagandata da tutti i mezzi d’informazione occidentali che si sono all’uopo fatti scudo con i bambini vittime. Se propositi etici sicuramente nobili e genuini hanno sin qui impedito a stampa e tv di mostrare le immagini dei bambini fucilati dai terroristi tale scrupolo si è improvvisamente dissolto quando ha potuto servire a denigrare un esercito che, a prezzo di oltre cinquantamila morti in sei anni di guerra, sta sconfiggendo tagliagole e torturatori.
Come se ciò non fosse sufficientemente indecente, il “mondo libero” (si diceva così?) ha applaudito la presunta “svolta” di Trump che, invece di scendere a patti con la Russia come aveva promesso, ha cercato di infliggere un colpo esiziale all’aviazione siriana, nerbo dei successi ottenuti contro le formazioni terroristiche. Sui missili Tomahawk si sono ricompattati europeisti e atlantisti, centrodestra e sinistre, lasciando alle destre radicali (le stesse che avevano brindato a Trump non più di cinque mesi fa) la bandiera della pace in una sconcertante inversione di ruoli rispetto alla questione irachena del 2002-03.
In aggiunta, di fronte a una tanto smaccata dimostrazione di aggressività imperialistica, la Corea del Nord ha lapalissianamente argomentato la giustificazione del proprio programma di deterrenza atomica. Il National Security Council, in un disegno di cinico sterminio che poco lascia da invidiare ai deliri del Terzo Reich, ha reagito valutando il dispiego di missili nucleari in Sud Corea oppure l’omicidio del Presidente Kim. In tutto questo ad essere additato quale brutale dittatore e feroce belva inumana non è Trump, ma Assad, che durante un’insurrezione terroristica armata ha 1) revocato, prima delle elezioni, uno stato di emergenza che durava dal ’63; 2) accettato un’ispezione Onu e la distruzione dell’arsenale chimico (che svolge in piccolo le funzioni di deterrenza che chi può assegna alla bomba atomica).
La Ue, ben lungi dallo sfruttare l’occasione Trump per acquisire o almeno reclamare autonomia militare, pare anzi aver accolto con un sospiro di sollievo il rinnovato interventismo del gendarme mondiale. Se Washington intende avviare una nuova stagione di guerre di aggressione, di destabilizzazione e di aiuto al terrorismo, se nell’area Nato saremo inevitabilmente condannati a sentire le campane della propaganda del Pentagono, tuttavia questo non esime le altre potenze – Russia e Cina – dall’opporre una netta resistenza a disegni di dominio che vogliono annullare, non che la realtà, il concetto stesso di sicurezza collettiva. Nelle proteste londinesi contro il decreto razzista di Trump del 27 gennaio comparvero cartelli che denunciavano la May come “appeaser”, in riferimento alla politica britannica verso il regime di Hitler. È sull’appeasement, e non sulle fantomatiche armi chimiche siriane, che deve oggi essere tracciata la vera e fondamentale “linea rossa”.
L’attacco di Trump con 59 missili Tomahawk lanciati da due portaerei contro la base area dalla quale sarebbero partiti i raid chimici di Damasco, ha poco a che fare con le presunte atrocità di Assad e va letta innanzi tutto come la necessità del neopresidente statunitense di riaffermare la presenza degli Stati Uniti in politica internazionale. Lasciare troppo spazio a Putin sulla regione più instabile del pianeta poteva essere interpretato dal mondo come segno di debolezza e disimpegno, cosa che Trump, per quanto si definisca isolazionista, non può permettersi. Del resto la sopravvivenza stessa dell’impero americano, in palese crisi, si regge su una politica di controllo e di egemonia internazionale dalla quale non si può tanto facilmente tornare indietro.
Così, quando il soft power fallisce, non resta che ricorrere alle maniere forti. L’attacco, che si spera essere solo una prova di forza di Washington senza ulteriori conseguenze, aveva anche l’obiettivo di ricompattare sotto la guida di Trump un Partito Repubblicano il cui nocciolo duro non aveva mai visto di buon occhio l’ascesa come outsider del tycoon. Ora i falchi Repubblicani come i senatori John McCain e Lindsey Graham possono brindare al ritorno a casa del figliol prodigo. Ai dirigenti del Grand Old Party del resto, sembra importare poco del fatto che colpendo Assad si rafforzano inevitabilmente terroristi e i jihadisti. Colpire la Siria significa anche accontentare la Turchia e l’Arabia Saudita che si vorrebbero sbarazzare dell’alauita Assad, principale alleato dell’Iran, nonché favorire Israele nella sua lotta all’organizzazione libanese degli Hezbollah aiutati dal regime di Damasco. Il resto pare essere secondario.
Resta da capire se il vero e più profondo motivo dell’attacco non si debba invece ricercare nel tentativo di fornire un monito all’altro paese che insieme alla Siria è uno dei principali obiettivi della politica estera statunitense, ovvero la Corea del Nord. L’azione di aggressione statunitense è infatti avvenuta durante l’incontro fra Trump e Xi Jinping, fattore simbolico che però fa trasparire come uno degli obiettivi prioritari di Washington in politica estera sia quello di disfarsi dello scomodo Kim Jong-un.
Qualunque sia l’obiettivo nel lungo periodo, è evidente che c’è una chiara intenzione degli Stati Uniti di riprendere una strategia offensiva sul piano internazionale. L’attacco contro le forze governative siriane è stato anche un monito alla Corea del Nord, altro paese in cima alla lista degli “stati canaglia” insieme alla Siria e non è un caso che il lancio di missili sia avvenuto durante l’incontro in Florida di Trump con Xi Jinping, uno reale alleato di Pyongyang. L’azione dei gendarmi del mondo porta quasi sempre solo sciagure più grandi di quelle che vorrebbero (almeno propagandisticamente) risolvere. Siria e Nord Corea non farebbero eccezione.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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