Pubblicato per la prima volta il 29 maggio 2015
Mai come oggi la questione dello spazio diventa un tema politico e sociale di fondamentale importanza. Più il luogo viene annullato dalle tecnologie della telecomunicazione e dei trasporti, più si sente il bisogno di riappropriarsene. È in gioco una continua battaglia per lo spazio che divide chi il territorio può abitarlo e costruirvi progetti di vita e chi dal territorio deve fuggire a causa di guerre, malattie, persecuzioni politiche, catastrofi naturali. Il conflitto moderno è per l’accesso al luogo dove si possa immaginare un futuro, un accesso però spesso negato, in nome di timori irrazionali o di slogan propagandistici che fanno leva sulla paura. Per gli ultimi del mondo, per gli sconfitti della globalizzazione, le frontiere diventano così barriere invalicabili che definiscono una geografia globale della marginalità la cui drammaticità emerge in tutta la sua irruenza emotiva di fronte al moltiplicarsi di desolanti campi profughi o alle sempre più frequenti tragedie che si consumano al largo delle coste di Lampedusa.
Non stupisce che siano questi alcuni dei temi di fondo della sesta edizione dei Dialoghi sull’uomo, uno dei più importanti festival di antropologia contemporanea in Italia. Migrazioni, abitazioni, approdi, margini, sponde sono solo alcuni dei concetti toccati dagli incontri della tre giorni pistoiese che ha visto la presenza di alcuni degli studiosi più importanti a livello nazionale e internazionale come Francesco Remotti, Ugo Fabietti, Marco Aime, Adriano Favole e Marc Augé.
È proprio quello dell’antropologo francese Augé a essere uno degli incontri più attesi all’interno della kermesse: il suo intervento in Piazza Duomo torna a parlare di nonluoghi, a due decadi dalla sua prima formulazione, riaprendo così il dibattito su uno dei concetti più influenti dell’antropologia urbana contemporanea.
I nonluoghi (o non luoghi) sono gli spazi di circolazione e consumo tipici della surmodernità, ovvero dell’epoca attuale caratterizzata dalla sovrabbondanza di eventi e di spazi. Si contrappongono ai luoghi storici e antropologici che sono l’espressione visibile del legame sociale, ovvero caratterizzanti un territorio vissuto e abitato, in cui si produce e si radica una storia, una cultura, un modo di vivere, una serie di relazioni sociali solide e dove si crea identità tramite il confronto con l’altro. Rispetto a questi dunque, centri commerciali, aeroporti, superstrade, si configurano come non luoghi perché rappresentano lo spazio del movimento e del transito, dove la gente vi entra e vi esce in base a qualità specifiche come quella di consumatore o di cliente o di viaggiatore: non vi è radicamento o storicità né vi si possono leggere regole simboliche che reggono un ordine sociale e le sue rappresentazioni collettive.
Rispetto a questa prima formulazione classica, Augé nel suo intervento ha voluto aggiungere che le rapide trasformazioni sociali, che del resto sono una caratteristica tipica della surmodernità, impongono di ripensare al concetto di non luogo secondo modalità parzialmente differenti. Da questo punto di vista, una precisazione è d’obbligo: non ci sono assoluti ma sempre e comunque della sfumature in questa distinzione. Da una parte le accelerazioni dei ritmi di vita e la progressiva interconnessione portano all’emergere di città globali che assumono sempre più le caratteristiche dei non luoghi, d’altra parte persino in un centro commerciale, i ragazzini che vi trascorrono il loro tempo libero, producono relazioni sociali e definiscono e creano abbozzi di vita collettiva e storicità all’intero del non luogo.
Nonostante la
progressiva colonizzazione di ogni sfera della vita da parte della
logica consumistica, che moltiplica i non luoghi, la persone passano
molto del loro tempo a “fare luogo” cioè a cercare di creare,
anche se in maniera frammentaria, discontinua e disorganizzata, posti
di senso e di relazione. Il paradosso è però che questa ricerca
disperata conduce molto spesso verso la schiavitù nei confronti
delle nuove forme sempre più solitarie e individualizzate di
comunicazione (social networks, smartphones) che al di là di un
appagamento immediato stanno producendo sempre più gravi e
preoccupanti forme di nevrosi e di alienazione, senza appagare in
profondità il bisogno profondo di luogo.
Anche quando
quest’ultimo non finisce nel binario morto della comunicazione
informatica e digitalizzata, le possibilità di produrre luoghi
restano fragili e contingenti. Gli esercizi commerciali sotto casa o
i villaggi vacanze diventano spesso il posto effimero e superficiale
in cui crearsi un luogo di identità, storia e legame sociale, ma si
tratta di abbozzi estemporanei e provvisori. Questo aspetto si lega
al concetto di “eterotopie” coniato da Foucault e si riferisce a
una situazione in cui il crollo degli ideali di liberazione
collettiva porta l’individuo a elaborare forme di utopie
privatistiche e a immaginarsi un futuro felice e diverso per se
stesso altrove, magari a contatto con nuove e differenti forme di
relazione sociale, o sognando di risiedere in posti ameni in cui
passare una tranquilla e agiata vecchiaia. Così il luogo spesso
diventa il posto desiderato dove recuperare l’autenticità e
l’immediatezza di una vita slegata dal mero utilitarismo e dalla
finzione dei rapporti di mercato, rispetto al progressivo dilagare
dei nonluoghi le cui logiche sembrano ormai dominare ogni spazio di
vita.
Qualsiasi tentativo di fare luogo si colloca in una
situazione in cui la globalizzazione e le trasformazioni
spazio-temporali moltiplicano i non luoghi. Fare luogo, creare
relazione, storia, identità è un processo che avviene in un
territorio, come quello della città globale, caratterizzata dalle
immagini mediatiche, dalle relazioni di mercato e dallo stile
consumista che la rappresentano, che è di per sé non luogo. Augè
può così arrivare ad affermare che “i non luoghi sono il contesto
di ogni possibile luogo”: il tentativo di creare luogo sconta la
difficoltà di doversi attuare all’interno delle logiche del non
luogo.
La teoria della “fine della storia” di Fukuyama, come convergenza verso un modello unico e universale che lega insieme democrazia rappresentativa e capitalismo è stata falsificata dall’evidenza che l’economia di mercato può tranquillamente funzionare anche in contesti politici autoritari. Per Augé, dunque, più che fine della storia, occorre parlare della fine della preistoria. Siamo infatti alla fine della preistoria della società planetaria. Stiamo cioè entrando in un mondo in cui si può cominciare a pensare al globo terreste come unità.
Simbolo di questo cambiamento di scala è il turismo spaziale in cui l’attrazione più spettacolare diventa la possibilità di osservare la terra nella sua interezza. Augè non si chiede se agli occhi di questi turisti la terra apparirà come un luogo e come un non luogo, ma invita a ribaltare la domanda in questi termini: cosa rappresentano questi turisti agli occhi di tutti gli altri abitanti del mondo? – Rappresentano l’oligarchia globale, l’elite consumistica che può percorre la superficie terrestre e persino avventurarsi nello spazio in tempi infinitesimali rispetto a quelli di ogni altro essere umano.
Non possiamo allora negare che il contesto di questo pianeta globalizzato è costituito dalle logiche neoliberiste, consumistiche, astoriche dei nonluoghi e che qualsiasi tentativo di produrre luogo si colloca in questo contesto. I conflitti, lungi dall’essere terminati, riguarderanno in futuro il bisogno di opporsi ai nonluoghi e di creare relazione, identità, cultura all’interno di un territorio. La storia è appena cominciata.
Immagine di Yatheesh Gowda da Pixabay
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.