L’insurrezione e i suoi antefatti
La riunione congiunta delle Camere che il 6 gennaio avrebbe dovuto certificare, stato per stato, il voto del Collegio Elettorale, viene presieduta dal Vicepresidente degli Stati Uniti nella sua qualità costituzionale di Presidente del Senato. In vista di tale evento il Presidente Trump aveva dunque cercato di convincere il suo vice, Mike Pence, a rifiutare i voti elettorali di alcuni stati[1]; non sembra chiaro quali nello specifico, anche se le obiezioni dei sostenitori di Trump al Congresso si concentravano su sei stati: Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania, Wisconsin.[2] Non è chiaro neanche quale fosse il successivo piano di Trump per farsi proclamare Presidente, se cioè escludere quei voti dal conteggio oppure se assegnarli legalmente al candidato repubblicano.
In ogni caso, Pence ha prima spiegato a Trump di non avere il potere legale per una simile mossa[3] e poi, di fronte alle insistenti pressioni rinnovate dal Presidente durante un comizio ai suoi sostenitori nella città di Washington[4], ha emanato un comunicato ufficiale in proposito[5], nel quale, richiamandosi al costituzionalismo confederalista-conservatore, spiegava che, in base all’intento dei Padri Fondatori di evitare la concentrazione dei poteri, il potere di contestare i risultati elettorali risiede nei corpi intermedi in cui il popolo è rappresentato, ossia gli stati e il Congresso, ma non nelle autorità monocratiche, il cui ruolo nel processo elettorale è «in gran parte cerimoniale».
Il comunicato di Pence è stato emanato a ridosso dell’apertura della seduta congressuale; a breve distanza Trump è tornato ad attaccare frontalmente Pence via Twitter[6] e fuori dalla Casa Bianca ha arringato la folla fascista da lui stesso convocata pubblicamente il 20 dicembre scorso.[7]
Questa folla si è poi diretta al Campidoglio, dove, grazie in alcuni casi alla complicità dei poliziotti, è riuscita ad aver ragione di blandissime misure di sicurezza e quindi a prendere d’assalto il Congresso.[8]
Con tutta evidenza questa folla era costituita non di semplici “manifestanti” (che non mancavano, ma fornivano semplicemente la carne da cannone), bensì, nei suoi ruoli direttivi, di miliziani addestrati: si vedano ad esempio le immagini in cui alcuni scalatori provetti si arrampicano sulle mura esterne del Campidoglio.[9] Il termine “miliziano” va inteso nel suo significato tecnico, cioè come appartenente al Militia Movement, il nome collettivo di reti terroristiche di estrema destra che hanno già giocato un ruolo politico nell’opposizione frontale alla Presidenza Clinton a metà anni Novanta.[10] La contiguità dell’eversione fascista al trumpismo è cosa nota fin dagli albori bannoniani, ma specificamente sulla funzione delle milizie in caso di eventuale sconfitta di Trump ci si interrogava già da diversi mesi.[11]
Del resto già a metà dicembre si era venuti a sapere che Trump aveva discusso progetti di colpo di Stato e legge marziale con l’ex generale Flynn[12], il suo ex consigliere per la sicurezza nazionale e uno degli anelli di collegamento fra la campagna trumpista e la diplomazia russa. Flynn, che si era dichiarato due volte colpevole di aver mentito all’FBI nel corso dell’inchiesta Mueller[13], aveva poi ritrattato. La sua sentenza era stata rinviata più volte, mentre il Dipartimento di Giustizia guidato dal servitore di Trump William Barr aveva chiesto alla magistratura il ritiro delle accuse. Flynn è stato poi graziato da Trump il 25 novembre, senza aver mai ricevuto una condanna.
Inoltre, c’era già stato il precedente del Michigan. A fine aprile miliziani pesantemente armati avevano fatto irruzione nel Parlamento del Michigan a Lansing[14], per “protestare” (!!!) contro il lockdown anti-Covid imposto dalla Governatrice democratica, Gretchen Whitmer. Già in quell’occasione l’atteggiamento delle forze di polizia era stato di fatto compiacente, permettendo a persone armate – nel Michigan è comunque legale entrare in luoghi pubblici con armi in vista – di raggiungere i parlamentari (alcuni che possedevano propri giubbotti antiproiettile li indossarono). All’inizio di ottobre l’FBI arrestò sei terroristi che stavano pianificando il rapimento della Whitmer[15], con l’intenzione tra l’altro di incendiare il Parlamento, prendere ostaggi e assassinarli in diretta televisiva.[16] Pochi giorni dopo Trump attaccò la Whitmer (da lui già definita “dittatrice” per aver imposto il lockdown) in un comizio in Michigan, rispondendo “carceriamoli tutti!” (Biden, Clinton, Whitmer, ecc.) alla folla che intonava il noto «Lock her up!» (“carceriamola!”) già usato contro Hillary.[17] Dopo due settimane, ancora in un comizio in Michigan, Trump rivendicò a se stesso il merito di aver sventato il piano terroristico per poi metterne in discussione la stessa esistenza pochi secondi dopo.[18]
Significati storici
Sembra quindi più che lecito ipotizzare che questa tentata insurrezione contro i poteri dello Stato, portata avanti da gruppi terroristici interni, possa essere stata sviluppata di concerto col Presidente, o quanto meno sia il frutto degenerato di una precedente intesa col Presidente che, pur non su basi insurrezionali, intendeva contestare con la violenza il risultato elettorale. Già convocando la manifestazione il 19 dicembre, infatti, Trump l’aveva annunciata pubblicamente come “selvaggia”.[19]
Il concetto di insurrezione o sedizione ha una storia politica importante negli Stati Uniti. L’esempio massimo è il linguaggio di Abraham Lincoln, che scelse di definire legalmente la secessione sudista come una insurrezione, iniziando la guerra con una prima leva di 75.000 volontari in quanto negli stati del Sud «l’esecuzione delle leggi è ostacolata […] da forze troppo potenti per poter essere soppresse dal corso ordinario dei procedimenti giudiziari o dai poteri conferiti agli ufficiali della legge», ciò in perfetta coerenza con l’interpretazione costituzionale che negava agli stati il diritto alla secessione.
Un altro precedente importante era stata la “ribellione dello whiskey”, l’insurrezione contadina contro la tassa sul liquore imposta nel 1791 e giudicata iniqua nei confronti dei piccoli produttori della Pennsylvania occidentale, che distillavano lo whiskey per smaltire il grano in eccesso e presso i quali, in una situazione ancora di frontiera, l’alcolico serviva talvolta anche da moneta di scambio. L’importanza storica della ribellione dello whiskey risiede in due fatti: per la prima volta lo Stato federale ricorse all’esercito (per giunta guidato sul campo dal Presidente allora in carica, George Washington) per gestire l’ordine pubblico e per la prima volta uno scontro sociale mostrava le fratture interne del sistema socio-istituzionale statunitense.[20]
Questi richiami storici sono utili in quanto di fronte ai fatti del 6 gennaio alcuni commentatori o politici, anche conservatori, parlano di un evento «un-American», non-americano, ossia estraneo al carattere nazionale americano, anti-americano.[21]
A sinistra, invece, il rischio è quello di interpretare il fenomeno terroristico come la reazione di povera gente disperata, schiacciata dalle diseguaglianze e dall’assenza di un’alternativa al crudo mondo neo-liberale. Tale è stata ad esempio l’interpretazione di Fabrizio Barca[22], interpretazione invero confusa perché incapace di distinguere fra il consenso popolare di massa per Trump e l’azione eversiva di gruppi miliziani addestrati.
Per affrontare prima quest’ultima possibile interpretazione è sufficiente considerare le motivazioni profonde del consenso a Trump: la reazione razzista di un gruppo specifico di persone (bianchi cristiani eterosessuali) che non si rassegnano a non costituire più la maggioranza del Paese e a potersi dunque identificare arbitrariamente con il Paese.[23] Questo gruppo si sente defraudato dei propri privilegi dalla crescita numerica e politica delle persone di colore, di altra fede religiosa, di altro orientamento sessuale, e intende mantenere il potere oppressivo su di esse a tutti i costi, anche quello della violenza. Emblematica, infatti, non è solo l’immagine di confronto tra le truppe antisommossa contro le manifestazioni antirazziste e le labilissime misure di sicurezza al Campidoglio[24], ma anche, e soprattutto, l’immagine di un paio di bianchi fascisti che si divertono a mimare l’uccisione per soffocamento di George Floyd.[25]
Plasticamente, proprio nel giorno del tentativo eversivo si certificava il passaggio dei due seggi senatoriali della Georgia dai repubblicani ai democratici, nelle persone di Raphael Warnock, un nero, e Jon Ossoff, un ebreo. Risultato di grande significato storico non solo perché Warnock è il pastore della chiesa battista di Ebenezer ad Atlanta, la stessa dove furono pastori Martin Luther King e suo padre, ma anche perché la Georgia fu nel 1915 il teatro del più noto linciaggio antisemita operato dal Ku-Klux-Klan, l’assassinio di Leo Frank. Condannato a morte, al termine di una cause célèbre, per l’omicidio di un’adolescente, dopo aver ricevuto la commutazione nell’ergastolo Frank fu rapito da klanisti di alto rango (fra cui un ex governatore dello stato), condotto in automobile di fronte alla casa della sua presunta vittima (un viaggio di circa 300 chilometri) e ivi impiccato. Su antisemitismo[26] e razzismo[27] avevano fatto affidamento, durante la campagna elettorale, i senatori in carica Perdue e Loeffler; quest’ultima, nell’ambito di una lotta intestina con un altro repubblicano, si era definita «più conservatrice di Attila l’Unno».[28]
È evidente, dunque, la contrapposizione tra il sia pur contrastato progresso in marcia nella società statunitense e la reazione ad esso di una parte degli elettori di Trump, molto probabilmente quelli che sono stati definiti «preservazionisti americani»[29]: l’elettorato repubblicano meno istruito, con minore reddito, con maggiori pregiudizi razziali e maggiore rabbia nei confronti dei gruppi dirigenti nella politica e nell’economia, terreno fertile per il reclutamento dei miliziani.
“Americano, troppo americano”
Altrettanto interessante è la contraddizione in cui cade chi vuole decisamente espellere l’evento del 6 gennaio dal perimetro di quanto è lecitamente americano.
Da mesi proprio la destra conservatrice più intellettuale ha snocciolato la tesi secondo cui gli Stati Uniti non sono una democrazia, ossia uno Stato sotto il controllo del popolo, bensì una repubblica costituzionale, ossia uno Stato sotto il controllo della Costituzione (intesa come testo letterale e non come corpus di principii in evoluzione). Ad esempio secondo il senatore repubblicano per lo Utah Mike Lee la democrazia può facilmente degenerare in una tirannia della maggioranza, cosa che la repubblica costituzionale impedisce.[30]
Qui possono farsi due obiezioni. In primo luogo, la repubblica costituzionale statunitense non può degenerare in tirannia della maggioranza perché, da lungo tempo, lo è già. La questione fu messa in evidenza nel diverbio tra il senatore Lee e il collega Markey (democratico per il Massachusetts) in occasione della nomina alla Corte Suprema di Amy Coney Barrett: il primo manifestò indignazione perché il secondo aveva correttamente osservato che l’originalismo costituzionale – ossia l’interpretazione letterale della Costituzione è «razzista, sessista, omofobo; un sinonimo gradevole di discriminazione».[31] L’indignazione di Lee verteva sul fatto che se le parole di Markey fossero state vere, allora ciò avrebbe significato che la Costituzione stessa era razzista: ma ciò risponde effettivamente a verità. Non solo perché la Costituzione permetteva la schiavitù ed entro il 1808 anche il commercio internazionale degli schiavi, ma perché, anche nonostante gli emendamenti tesi ad estendere i diritti sociali, essa è stata compatibile con il razzismo oggettivo della società degli Stati Uniti.
In secondo luogo, la volontà pervicace del trumpismo di mantenersi al potere a tutti i costi è a) l’esatto opposto della repubblica costituzionale governata dalle leggi; b) una dimostrazione della brama disperata di mantenere in piedi la “tirannia della maggioranza” anche quando la maggioranza non è più tale; c) una evidente forma di oclocrazia, ossia del predominio della folla sregolata sulle leggi, che costituiva per Polibio la degenerazione della democrazia propriamente detta.
Questa oclocrazia della minoranza è più che compatibile col sistema politico degli Stati Uniti, che è sempre stato di fatto, e talvolta de jure, un sistema oligarchico: anche senza citare le disposizioni apertamente razziste, si pensi al fatto che l’elezione presidenziale è indiretta, come un tempo era l’elezione del Senato, o alla scarsissima rappresentanza popolare al Congresso, o all’esclusione sistemica delle masse dal voto tramite una serie di accorgimenti (iscrizione nelle liste elettorali non automatica, giornata elettorale in giorno feriale e non valevole per permessi lavorativi, scarsa densità dei seggi elettorali). Negli ultimi anni il Partito Repubblicano, che dopo il 1988 ha rappresentato una maggioranza elettorale solo alle presidenziali del 2004, ha sfruttato queste caratteristiche per mantenere maggioranze parlamentari e per stipare i tribunali federali di giudici conservatori. Quanto all’oclocrazia, la maggioranza degli stati permette di portare con sé armi da fuoco in vista e il Secondo Emendamento (quello che consente ai cittadini di portare armi) è da anni invocato come una forma di militanza politica.
Insomma, lungi dall’essere non-americana l’insurrezione del 6 gennaio è americana, troppo americana.
Entrambe le confutazioni che abbiamo reso, quella che respinge l’interpretazione meccanicistica “di sinistra” di una folla di diseredati in rivolta contro l’iniquo sistema e quella che respinge l’interpretazione conservatrice di una “democrazia profanata”, si condensano in una frase, che è il titolo di una lucida disamina pubblicata su FiveThirtyEight: «L’assalto al Campidoglio per mantenere il potere bianco in America».[32]
Citando in breve le considerazioni di alcuni studiosi, contenute nell’articolo, «ricordare agli americani bianchi il mutamento demografico razziale li porta ad adottare attitudini razziali più negative verso le minoranze [e] porta americani bianchi politicamente non schierati a manifestare una più forte adesione al Partito Repubblicano»; «l’aumentata significatività della “bianchitudine” [whiteness] come categoria sociale corrisponde in larga parte all’avvenuto cambiamento demografico nel Paese. […] ciò, a sua volta, ha creato presso alcuni americani bianchi la paura che la loro presa sul potere sia diventata sempre più precaria, come evidenziato al massimo dall’ascesa di Barack Obama, un uomo nero, alla Casa Bianca».
In conclusione: «i repubblicani bianchi giunti a contrastare la democrazia lo fanno, in parte, perché a loro non piacciono coloro che dalla democrazia traggono, a loro giudizio, benefici».
E ora il Partito Democratico?
Ancor prima dell’insurrezione, l’aperto divorzio fra Trump e il Partito Repubblicano reso evidente dalla dichiarazione di Pence avrebbe consentito al Partito Democratico di scegliere fra tre alternative:
1. L’alleanza con il Partito Repubblicano per ricostruire il consensus neo-liberale – questa via avrebbe comportato ovviamente un colpo di spugna sulle complicità repubblicane nei crimini di Trump;
2. L’egemonia su un Partito Repubblicano sottoposto a de-trumpizzazione, epurato cioè non solo dei Trumpers, ma anche dei Trump-enablers[33], e da usare come stampella centrista per l’azione e il messaggio di largo respiro della Presidenza Biden;
3. L’alleanza con un Donald Trump de-fascistizzato per ricostruire, saldando l’elettorato globalista e multietnico del Partito Democratico a quello bianco e populista di Trump, qualcosa di simile alla coalizione sociale che sostenne il New Deal rooseveltiano negli anni 1930 (e che fu poi il fondamento dell’egemonia politica dei democratici fino al 1968).
L’opzione 3, che sarebbe stata forse la più adeguata per il Partito Democratico per ricucire con il suo ex elettorato del Midwest ormai inaridito[34], avrebbe richiesto come contropartita per Trump una qualche forma di scudo penale; anche per tale motivo è ormai completamente esclusa dopo le vicende del 6 gennaio.
D’altro canto i fatti del 6 gennaio mettono alla sbarra di un processo politico non solo Donald Trump, ma tutto il Partito Repubblicano. Robert Reich, già Segretario del Lavoro nel primo mandato di Bill Clinton e da sempre uno dei fari intellettuali della sinistra politica USA, ha evidenziato molto bene i cerchi di corresponsabilità nelle azioni criminose del Presidente: i suoi più immediati collaboratori (Donald Jr., Giuliani); i parlamentari che, propalando la teoria complottista dell’elezione rubata, hanno formalmente obiettato alla certificazione dei voti elettorali (il senatore per il Texas Ted Cruz, il senatore per il Missouri Josh Hawley, ecc.); i più stretti alleati di Trump al Congresso durante il mandato (es. il senatore per la Carolina del Sud Lindsey Graham); i compiacenti interlocutori istituzionali di Trump (il vicepresidente Pence, il capogruppo repubblicano al Senato McConnell); gli amministratori delegati dei colossi del web che per anni hanno ospitato i deliri razzisti e fascisti di Trump (es. Dorsey per Twitter, Zuckerberg per Facebook, Pichai per YouTube).
In un celebre passaggio della Repubblica Platone scrisse che anche una banda di ladri e di briganti, per poter avere successo nelle proprie imprese, deve avere una giustizia interna, ossia un proprio interno regolare ordinamento. Oggi che la banda Trump è al crollo finale, la regola di giustizia interna che la governava crolla anch’essa. L’anziano senatore per il Kentucky Mitch McConnell, la cui moglie Elaine Chao sedeva nel gabinetto Trump come Segretaria dei Trasporti, è stato il garante del patto fra la famiglia Trump e il Partito Repubblicano: qualsiasi copertura personale e politica sarebbe stata fornita al Presidente, purché egli garantisse l’oppressione di una minoranza sulle maggioranze (i bianchi sui non-bianchi, i ricchi sui non-ricchi), tramite le nomine nei tribunali federali e il sistema fiscale. L’apice di questa spudorata prepotenza lo si raggiunse con la conferma alla Corte Suprema della giudice Coney Barrett otto giorni prima delle elezioni, dopo che nel 2016 il Senato repubblicano aveva bloccato la nomina obamiana di Garland otto mesi prima delle elezioni, considerati un tempo troppo breve.
La conferma di un giudice supremo nell’ultimo anno di mandato era stata, con inusitata impertinenza, apertamente evocata da McConnell parlando agli industriali del Kentucky a maggio 2019: «Uno dei presenti ha chiesto a McConnell, “Se un giudice della Corte Suprema dovesse morire l’anno prossimo, quale sarebbe la sua posizione sulla nomina del successore?”. Il capogruppo ha sorbito un lungo sorso di apparente tè freddo prima di annunciare con un sorriso “Oh, nomineremmo un successore”, provocando una forte risata del pubblico».[35]
La storia è andata proprio così.
Tuttavia adesso i repubblicani non controllano più alcuno dei tre “rami del Governo” (Presidenza, Senato, Camera) e, nonostante le fratture interne ai democratici, si trovano nella non felice posizione di vedersi ripagare con gli interessi le forzature di questi anni.
La deputata Cori Bush, eletta a Saint Louis nel Missouri ed esponente della sinistra interna, ha introdotto una risoluzione per chiedere l’espulsione dal Congresso dei parlamentari complici di Trump, sulla base di una provvisione costituzionale che vieta le cariche pubbliche ai colpevoli di insurrezione contro lo Stato. Una proposta analoga era stata avanzata dal deputato Bill Pascrell già a dicembre, contro i ben 126 deputati repubblicani che avevano sottoscritto la richiesta dello stato del Texas alla Corte Suprema di invalidare i risultati elettorali in alcuni stati. Questo movimento ha guadagnato molto consenso dopo il 6 gennaio[36] e le crepe non hanno tardato a emergere.
La prima di rilievo è stata quella di Liz Cheney, figlia dell’ex Vicepresidente Dick Cheney e terza in ordine gerarchico nel gruppo repubblicano alla Camera; punta dell’iceberg che ha costretto il vertice (McCarthy e Scalise) ad accordare la libertà di coscienza nel voto per l’incriminazione.[37]
Il vero colpo di scena però c’è stato quando alla stampa è trapelato che McConnell consideri l’impeachment come un mezzo comodo per liberarsi di Trump.[38] Anche a seguito di una sua telefonata con Biden sembrava che il capogruppo repubblicano potesse dare il via alla condanna di Trump, ma a quanto pare non assentirà alla richiesta del suo omologo democratico Schumer di riconvocare il Senato per discutere il processo del Presidente[39], che, così, dovrà svolgersi o nei primi giorni della Presidenza Biden, ingolfandone quindi l’avvio, oppure a qualche mese di distanza. Non è da escludere che in quest’ultima scelta abbiano giocato un ruolo le minacce di morte che pare stiano tuttora trattenendo diversi deputati repubblicani dal votare per l’incriminazione di Trump.[40]
Il momento politico negli Stati Uniti è chiaramente in evoluzione. Adesso la natura dello Stato è stata resa chiara agli occhi di molte persone, fuori e dentro il Paese: non una democrazia, ma un’oligarchia liberale con alto potenziale fascista e altamente permeabile alle infiltrazioni fasciste nei gangli dello Stato.
La lotta per l’individuazione e punizione dei colpevoli e per il miglioramento democratico dello Stato si rispecchierà quindi nelle alternative tra le precedenti opzioni 1 e 2, e sarà un termometro per misurare i rapporti di forza all’interno del Partito Democratico.
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Immagine The National Guard (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.