Arresto di Lula: l’ombra dell’ex presidente sulla politica brasiliana
Consegnandosi alla polizia sabato 7 aprile, l’ex presidente brasiliano Lula ha iniziato a scontare la condanna a dodici anni di carcere che, a sei mesi dalle elezioni, pone fine alla sua carriera politica (uscirebbe di prigione a ottantacinque anni).
Ritardando l’arrivo in carcere di un giorno, trascorso nella propria “casa” politica, il sindacato metallurgico di São Bernardo do Campo, Lula non ha quindi inteso sottrarsi all’esecuzione della sentenza o dare inizio a movimenti di azione extralegale. Chiamando a raccolta i suoi sostenitori, il leader del Partido dos Trabalhadores si è verosimilmente proposto tre obiettivi: un’ultima dimostrazione di forza, per provare a tutto il Paese quanto grande sia ancora il suo consenso presso i ceti popolari; l’invito ai suoi sostenitori a continuare, anche senza la sua guida, la lotta politica contro il ritorno del Brasile a soluzioni autoritarie e conservatrici; gettare i semi di un movimento popolare di resistenza che sarà forse necessario in futuro.
Ultimo capitolo di un assalto iniziato tre anni fa al governo del PT, la carcerazione di Lula sembra per ora destrutturare la sinistra brasiliana: secondo la situazione evidenziata dai sondaggi l’elettorato di Lula diserterebbe le urne favorendo l’elezione, quasi certa al secondo turno, del candidato di estrema destra Jair Bolsonaro.
L’America del Sud è un continente di una complessità incredibile, in cui i processi storici si svolgono tra contraddizioni difficilmente immaginabili altrove. L’ascesa di governi di sinistra nell’ex “vicinato” degli Stati Uniti aveva acceso la speranza di un mondo più giusto ed un certo livello di simpatia diffusa, almeno nel campo della sinistra. A distanza di poco più di un decennio, di quell’esperimento sopravvivono pochi esempi perlopiù marginali, come la Bolivia di Morales (il Nicaragua sandinista ha già un’altra storia).
I governi “bolivariani”, pur nelle differenze, presentavano generalmente un profilo moderato, ideologicamente più vicino al cattolicesimo sociale che al marxismo, e si sono perlopiù impegnati in un’opera riformista di riduzione delle abnormi disuguaglianze sociali. Ciò non li ha salvati da una sistematica campagna diffamatoria, perpetrara da molti media occidentali, in cui capi di stato democraticamente legittimati venivano (e vengono) presentati come istanze dell’archetipo del dittatore dello stato di Bananas, in cui problematiche minori venivano (e vengono) ingigantite e al tempo stesso banalizzate, spesso con toni di paternalismo colonialista insopportabili. In loco, più che l’intervento diretto dell’ingombrante vicino del nord come in passato, hanno contato le trame eversive dei settori più reazionari e antidemocratici delle borghesie locali.
Nessuno nel Nord del mondo si indigna più di fronte alle condanne ad orologeria dispensate dalla magistratura brasiliana, anzi, le narrazioni giornalistiche si arricchiscono di particolari morbosi sulla “tangentopoli brasiliana” (per contrasto, dei guai giudiziari della famiglia Netanyahu quasi non si parla). Dal canto suo la sinistra radicale, nel nostro emisfero nord, dopo gli anni di Porto Alegre e dei Social forum si è programmaticamente disinteressata delle questioni che travalicano gli angusti confini del “primo mondo” privilegiato, e non sa più leggere processi storici e politici che non si svolgono secondo i polverosi schemi europei. Si trova così a barcollare tra una presunta esigenza di dover prendere posizioni nette e “tifare” per qualcuno e un autoproclamato ruolo di oracolo e giudice che dispensa ricette e condanne dall’alto della sua torre d’avorio, senza alcuna necessità di conoscere a fondo i contesti.
Rimane solo da sperare che un altro mondo sia veramente possibile.
Il Sud America è avvinghiato dalla più brutale stretta repressiva dai tempi delle dittature militari. Il Venezuela stesso è l’ultimo bastione che probabilmente Trump e Bergoglio si riservano di abbattere. Intanto il Brasile dopo il golpe di Temer vede cadere per mano della mano giudiziaria la dirigenza del Partido dos Trabalhadores. A Lula in persona non è stato risparmiato che il tempo per assistere alla messa della seconda moglie prima di cadere sotto la scure giudiziaria. L’opinione pubblica locale è troppo presa ad appassionarsi alle vicende giudiziarie, spinta dal rancore verso una classe dirigente che ha saputo dare molta crescita ma poca redistribuzione della ricchezza, per capire che sta avvenendo una svolta reazionaria in tutto il continente.
L’opinione pubblica mondiale è invece totalmente assente, spesso ai più non giungono nemmeno le notizie come nel caso dell’omicidio di Marielle Franco taciuto dai principali canali informativi del “mondo libero”, e quando giungono il clima è tra i più sfavorevoli alla ricezione e all’innesco della solidarietà internazionale necessaria. Basti pensare a come questo Paese abbia innescato negli anni Novanta una battaglia culturale contro il malaffare e la corruzione diventata una vera e propria caccia alle streghe. Era pressoché impossibile attivare indignazione sul caso e infatti tutta la vicenda è passata completamente sottotraccia in Italia.
Quello che però non può passare sotto traccia è la svolta repressiva di un paese non più sotto regime democratico da ormai un paio di anni, in cui la magistratura sta decapitando una parte politica facendo fioccare condanne senza accorgersi né della sua interferenza politica (basti ricordare come Temer ha preso il potere) né delle inchieste in corso contro chi è attualmente al governo (vedi l’ Operaçao Castelo de Areia). Il gruppo di potere che ha preso in mano il Brasile, costituito da gruppi, famiglie, corporation legate a finanza, latifondi, imprese, miniere e multinazionali varie, e la “bancada” evangelica ha salvato il “suo” presidente Temer dalla Giustizia e sta per decapitare l’opposizione in vista delle elezioni. Tutto nel pieno rispetto della democrazia formale, secondo i nostri commentatori del “mondo libero”.
Dmitrij PalagiL’America Latina è stata all’inizio del XXI secolo il continente in cui sono state proiettate le speranze degli sconfitti del Social Forum europei. L’affermazione di Laclau e le suggestioni populiste progressiste nascono dal successo di una serie di realtà di cui Lula ha rappresentato un precursore a suo modo moderato, in un paese dal grande peso economico, sullo scacchiere internazionale. Il Brasile si inserisce tra una nuova idea di socialismo radicale e quella cultura riformista degli anni ’90 a cui sentiva di appartenere anche D’Alema. Certo è evidente come l’offensiva liberista/capitalista sia ostile a ogni politica di emancipazione delle classi sociali meno abbienti, soprattutto in un’area geografica dove il potere del secondo dopoguerra si è articolato in forme completamente diverse al resto del “blocco occidentale”. Quest’area geografica è da decenni rilevante anche per misurare l’ipocrisia e l’inconsistenza del sistema di informazione italiano. Rimane quanto già scritto in altre occasioni, rispetto ai temi internazionali: ha poco senso dichiararsi solidali, quando non si ha la forza di fare pressione per incidere o almeno influenzare su quei processi che si contestano. L’arresto di Lula, dopo le morti di Chavez e Castro, ci interroga su quale sia l’altro mondo possibile che il movimento dei movimenti avrebbe dovuto cercare di preparare, oltre alle capacità dei singoli dirigenti.
Con la carcerazione di Lula si è giunti a un ulteriore salto di livello nella tenaglia golpista che da tre anni si sta stringendo attorno al Brasile per strangolarne il movimento popolare. L’arresto, a sei mesi dalle elezioni presidenziali, del candidato dato per favorito e per vincitore ricorda da molto vicino le elezioni farsa degli anni della dittatura militare e la brutale repressione politica di quegli anni.
Senza Lula, e in un quadro di diffusa smobilitazione popolare, la poltrona di Presidente è pronta per essere occupata da Jair Bolsonaro, l’ex paracadutista che apertamente difende il regime militare e richiede una nuova partecipazione delle Forze armate al governo del Paese. Il comandante dell’esercito, Villas Bôas, ha usato Twitter – sul quale conta circa duecentomila seguaci – per assicurare che i militari sono schierati «contro l’impunità» e gli «interessi personali», in evidenti bordate contro Lula. Villas Bôas è solo la punta dell’iceberg di un gruppo di militari ansiosi di dettare la linea politica del Paese; ancora maggiore è l’esposizione di generali in pensione, evidentemente molto più liberi di intervenire direttamente nella campagna elettorale.
È presto per dire se vi sarà una reazione efficace delle sinistre a questo ritorno autoritario; per ora, però, le manovre golpiste accomunano il Brasile ad altri Paesi del Sudamerica in cui gli esperimenti di socialismo democratico si sono andati, in vario modo, depotenziando o addirittura esaurendo.
Per cui la domanda posta dal golpe brasiliano è la medesima emersa già in Venezuela e, in realtà, già nel Cile di Allende: quali sono i limiti del socialismo del XXI secolo? La coalizione composita messa in piedi da Lula e Rousseff attorno al Partito dei Lavoratori, che da solo non ha mai controllato neppure il 20% dei seggi della Camera, comprendeva e comprende partiti liberali, conservatori e di destra. La giungla della corruzione brasiliana, che prospera succhiando linfa dal sottosviluppo sociale, ha costretto a più di un compromesso politico. Fino a quali margini è possibile spingersi, se si mantengono invariati il potere economico del capitale privato, se si mantiene invariata la presa dei ceti reazionari su istituzioni chiave come la magistratura, l’esercito, la stampa?
Mentre in Venezuela Maduro viene bollato come dittatore sanguinario solo per aver difeso lo stato di diritto da bande di piromani e saccheggiatori fomentate da una destra eversiva e becera, Temer in Brasile può, nel silenzio generale dei media occidentali, schierare l’esercito a Rio per gestire l’ordine pubblico fino a quando non avrà i numeri in Parlamento per mandare in porto la riforma lacrime e sangue delle pensioni. Non male come metodo democratico per gestire il dissenso.
Neanche la morte della giornalista Marielle Franco ha scosso l’opinione pubblica internazionale più di tanto. O quantomeno, come quasi sempre accade, la sua morte non è stata sufficientemente contestualizzata all’interno della situazione socio-politica brasiliana attuale, che vede l’esercito ricorrere a perquisizioni sommarie, fermi collettivi e violenza gratuita nei quartieri popolari di Rio nella totale impunità e agli ordini di un governo che sta smantellando pezzo dopo pezzo tutte le conquiste sociali ottenute nei due decenni precedenti, (a onor del vero, è stata Dilma Rousseff a iniziare questo trend, sebbene in maniera decisamente più soft), riportando povertà diffusa e livelli inauditi di violenza in un paese che sembrava sulla strada di potersi emancipare da questi problemi strutturali. Ma chiaramente, per tutti, finché il Brasile accetta i diktat del FMI e le direttive di Washington, la democrazia non è in pericolo.
Anche le vicende giudiziarie di Lula confermano il carattere autoritario del neoliberismo sudamericano (l’Argentina di Macri è un esempio quasi altrettanto eclatante). Il popolare e carismatico leader della sinistra brasiliana è stato condannato senza che di fatto ci siano delle prove effettive sulla scandalo di corruzione nel quale è coinvolto. I tempi record con i quali si è giunti al verdetto, funzionali a evitare la sua partecipazione alle prossime elezioni presidenziali, che con ogni probabilità vincerebbe nettamente, indicano piuttosto chiaramente che siamo in presenza di un processo politico. Sebbene quello di Lula sia tutto sommato un profilo piuttosto moderato e riformista, la sua figura dà comunque fastidio alla borghesia brasiliana tanto da cercare qualsiasi escamotage giudiziario per incarcerarlo. A questo si aggiunge il pesantissimo messaggio lanciato da parte del generale Villas Boas che alla viglia della pronunciazione del verdetto del Supremo Tribunale Federale ha affermato che una sentenza contro l’incarcerazione di Lula avrebbe portato all’intervento dell’esercito. Un intimidazione inammissibile, una minaccia di golpe militare inaccettabile per qualsiasi paese civile che non può non condizionare un procedimento giudiziario di tale portata (se fosse accaduto in Venezuela…).
La farsa brasiliana, che si protrae dall’ impeachment di Dilma Rousseff, mostra un sistema politico- economico globale disposto a tutto pur di imporre le proprie ricette e diktat in ogni paese. Anche laddove l’enorme apparato propagandistico fallisce nel convincere il popolo a mettere una “ics” sul simbolo “giusto”, nuovi metodi e sistemi possono essere applicati per ricondurre la pecorella smarrita all’ovile del neoliberismo. E tutto questo come sempre per il vantaggio economico di pochissimi ai danni del resto del mondo.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.wikipedia.org
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