Con il voto di martedì mattina, il Parlamento Europeo ha adottato la Direttiva per il copyright nel mercato unico digitale. Alla fine della lunga negoziazione sul testo, la posizione di “massimalismo del copyright” (definizione della Electronic Frontier Foundation) caldeggiata da grandi gruppi editoriali e alcune associazioni di autori ha prevalso sulle critiche e le preoccupazioni manifestate da molti studiosi e attivisti del mondo digitale. Tendenzialmente compatto a favore il Partito Popolare Europeo, spaccati con una prevalenza favorevole Socialisti&Democratici, spaccati Alde e ENF, tendenzialmente contrari EFDD, GUE/NGL e Verdi.
Ufficialmente la direttiva deve passare ancora per l’approvazione da parte della Commissione Europea, che però sembra tutt’altro che improbabile vista l’evidente volontà di concludere l’iter prima della fine della legislatura e lo schieramento favorevole di due Stati membri influenti come Francia e Germania. Starà poi al recepimento delle normative degli Stati membri, cosa che difficilmente semplificherà il quadro visto il margine d’interpretazione, con la partita dei rapporti di forza ancora tutta da chiarire, anche per quanto riguarda gli effettivi strumenti messi in campo dalle piattaforme.
Il testo finale, rinegoziato a seguito di un primo respingimento il 18 gennaio, pur presentandosi come un estremo compromesso mantiene le criticità già segnalate (qui) in particolare circa la “tassa sui link” e il “filtro dei contenuti” – in prima stesura sanciti rispettivamente negli articoli 11 e 13, oggi rimodulati principalmente nell’articolo 13, che per le piattaforme di condivisione prevede l’acquisto dagli editori di licenze di pubblicazione e la predisposizione di strumenti di blocco dei contenuti non autorizzati. L’iniziale invocazione delle tecnologie di riconoscimento automatico dei contenuti è stata sostituita da un’acrobatica perifrasi sul rendere indisponibili contenuti identificati come coperti da copyright ma non autorizzati, la cui vaghezza apre ad una varietà di meccanismi e strumenti di filtro pre o post caricamento. Quanto e come questo sia realizzabile è aperto alla speculazione.
Mantenute, anzi articolate ulteriormente, anche tutte le espressioni della forzatura di applicare la rigidità della norma alla flessibilità di ciò che vorrebbe normare: eventuali violazioni delle disposizioni sarebbero valutate tenendo conto delle specificità della piattaforma, delle sue possibilità, del suo pubblico. Le realtà più piccole saranno escluse dall’obbligo di acquistare licenze – purché rimangano piccole; si apre così lo scenario di un’internet a due classi, da un lato giganti sempre più grandi per imporre le proprie condizioni nel negoziare le licenze e dall’altro realtà sempre più residuali, in bilico sul filo dell’invisibilità. Questa prospettiva così simile ad un colpo alla neutralità della rete non è probabilmente lo spirito della legge, ma non si può legiferare prescindendo dalla realtà materiale cui si applicherà la norma.
Le licenze acquistate dalle grandi piattaforme copriranno i loro utenti per usi privati, punto su cui i negoziatori si sono accapigliati fino all’ultimo. Sarà possibile pubblicare piccole anteprime di articoli e pagine internet (snippet), purché senza abusare della funzione per fare proprio l’intero articolo – giusto, ma forse un po’ immeritato da un giornalismo che spesso copia e incolla paginate di testo da siti di agenzie (questo pomeriggio cercavo informazioni su un incendio in una zona che conosco ed ho letto, su mezza dozzina di testate diverse, sempre lo stesso articolo dell’Ansa), che purtroppo è del resto probabilmente proporzionato al compenso corrisposto ai giornalisti dagli editori delle testate. Le eccezioni di “uso legittimo” previste per critiche, recensioni, satire, citazioni continuano a cozzare con la previsione di filtri automatici del tutto incapaci di riconoscerle.
Si nota come l’impianto della direttiva veda gli utenti come pubblico passivo, anziché a loro volta creatori e modificatori di contenuti e cultura. Questo immaginario non solo non riflette ciò che internet dovrebbe essere nel migliore dei mondi possibili, ma non corrisponde evidentemente neanche all’immagine che ne hanno quelle stesse grandi piattaforme che la legge ambirebbe colpire, per le quali gli utenti sono effettivi produttori di materiale (contenuti, interazioni, dati…) fonte di profitti probabilmente maggiori della semplice pubblicazione di contenuti editoriali esterni. La supposta sensibilità per il diritto d’autore non si è del resto spinta al punto di considerare le licenze di diffusione di tipo Creative Commons, non legate alla titolarità commerciale dei diritti da parte di editori o distributori ma non per questo meno vincolanti nella proprietà intellettuale.
Imputare tutta la responsabilità alle piattaforme di condivisione in rete implica inevitabilmente riconoscerne il potere; e, se la sproporzione a loro favore nei rapporti di forza è reale, normarne le responsabilità deve essere fatto tenendo accuratamente conto del rischio di legittimare quel potere. Sembra improbabile che attribuire funzioni di controllo ai colossi di internet possa eroderne il potere, o addirittura remunerare i soggetti con il minor potere contrattuale, gli autori di contenuti. Inutile ricordare inoltre come l’utile spauracchio della pirateria in rete sia sempre stato funzionale a distogliere l’attenzione dall’imbarazzante iniquità della distribuzione dei profitti tra autori ed editori. Davvero sancire che le grandi piattaforme sono un male necessario è la soluzione migliore per tutti?
Immagine European Parliament (dettaglio) da flickr.com
Studia scienze naturali all’Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.