L’epilogo di questa strana crisi di governo agostana non è ancora chiaro. Possibili opzioni sono in campo: oltre a quella che, ad oggi, resta quella più probabile ovvero accordo di governo PD-M5s, rimane valida la possibilità di un governo più propriamente tecnico ma anche il ritorno alle urne in un periodo complicato. Il Dieci mani di questa settimana prova a fare il punto della situazione.
Piergiorgio Desantis
Siamo quasi giunti al momento di conoscere gli esiti della trattativa per la formazione di un governo (c’è chi lo chiama di legislatura, chi di svolta) tra PD e M5s. Al di là del confronto tra due opzioni di futuro e di società (adesso è prassi farlo per punti, dimostrando una regressione e un ritardo concettuale abbastanza preoccupante) si delineano i tratti di un’Italia che guarda, ancora una volta, tra le priorità irrinunciabili e improrogabili quella del taglio dei parlamentari, per esempio. Nonostante un risparmio economico risibile, colpisce che siamo rimasti ancorati alle parole d’ordine proprie di quell’onda lunga che partì nel 2007 con l’uscita del libro “La casta”.
D’altra parte non c’è rimasto nessuno (o quasi) che eccepisce la necessità di mantenere integra la rappresentatività della nostra democrazia, utilizzando un altro modo di ragionare e di intervenire attraverso, ad esempio, una semplice riduzione delle indennità parlamentari (per ridurre le spese). E, oltre il richiamo all’ennesimo taglio delle tasse e necessità di sgravi fiscali, il mondo del lavoro (e i problemi a esso connessi) è semplicemente espunto tra le priorità del prossimo governo, colpito da una damnatio memoriae ormai lunga almeno tre decenni.
Nessuna critica al passato vicino e distante, cosa necessaria anche per aggredire temi devastanti come precarietà, disoccupazione e emigrazione. Non c’è alcun accenno alla difesa e al rilancio (con relativi finanziamenti) dei servizi pubblici (sanità, scuola, trasporti, cultura) e di tutto ciò che un tempo si chiamava welfare state. Conviene allora rivolgersi ai sindacati, alla sinistra diffusa (che pur esiste) affinché il dibattito intorno al nuovo governo non investa esclusivamente il nome del Presidente del Consiglio ma che riguardi anche sviluppo, crescita compatibile, diritti, redistribuzione e fiscalità progressiva.
Dmitrij Palagi
Questa rubrica a più mani si concentra da diverse settimane sul tema politico nazionale del momento. Cercando di non ripetersi, a conclusione di un agosto dove si è discusso molto (e poco consapevolmente) della centralità del Parlamento, bisogna provare a guardare gli aspetti critici.
Intanto il tema di un’opposizione che rischia di configurarsi come sotto l’esecutivo Monti: Lega in presunta sintonia con la maggioranza della popolazione, una finanziaria di larghe intese a vocazione responsabile/tecnica e una sinistra non percepita. La stessa discussione sul “governo che vorrei” è disarmante. Un tweet di Renzi, una diretta di Salvini, una battuta di Zingaretti e l’incognita dei vari dirigenti a 5 Stelle.
Ci sarebbe davvero tantissimo spazio, mentre sui territori si aprono le scadenze elettorali amministrative (regioni importanti rinnoveranno i loro organismi). Analisi, progettualità e proposte: adesso lo spazio sarebbe davvero tantissimo, ma forse lo lasciano perché non c’è nessuno in grado di approfittarne per mettere in discussione questo sistema insostenibile e iniquo. Nelle strade qualche slogan rispetto al capitalismo da superare lo si sente, ma davvero pare che rimbalzi su pareti di spazi troppo vuoti…
Jacopo Vannucchi
Tutto è ancora possibile fin quando non si insedierà il prossimo governo, che sia quello M5s-Pd, quello “di garanzia” per gestire le elezioni o quello “tecnico” per fare la legge di bilancio 2020 in attesa di elezioni all’inizio dell’anno nuovo.
Tuttavia non è peregrino estendere alcune considerazioni sulla fase attuale, a partire da alcuni nodi che più o meno lecitamente hanno dominato la cronaca politica di quest’ultima settimana.
Anzitutto la questione del Presidente del Consiglio. È moralmente corretto e politicamente opportuno che Giuseppe Conte, guida e garante dell’accordo M5s-Lega, continui guidare il governo anche nella nuova coalizione, rivelandosi il proverbiale “uomo per tutte le stagioni”? Per la verità, ci sono almeno due precedenti che vale la pena di ricordare:
1) Il “bis” di Badoglio, che, dopo aver guidato il governo militare nominato dal re il 25 luglio 1943, divenne ad aprile 1944 il garante del patto tra monarchia e Comitato di liberazione nazionale, guidando un nuovo ministero “misto”, cioè di coalizione tra elementi del Regno del Sud ed esponenti del Cln. Il suo vice era Palmiro Togliatti. Badoglio onorò poi la promessa di dimettersi una volta liberata Roma (giugno 1944) per lasciare spazio a un governo integralmente espressione del Cln. E si ritirò dalla vita politica.
2) Il Governo Dini del gennaio 1995. Giova ricordare che Dini era Ministro del Tesoro nel governo uscente di Berlusconi, di cui la Lega Nord aveva provocato la crisi, e che fu sostenuto in Parlamento da una maggioranza eterogenea comprendente la Lega, il Partito popolare, il Patto Segni, il Pds e perfino i “Comunisti unitari” (in pratica l’ex Partito di unità proletaria) appositamente usciti da Rifondazione.
Ho sentito a tal proposito due critiche. La prima, che la situazione dell’accordo su Badoglio nell’aprile 1944 fosse incomparabilmente più grave di quella attuale: era a rischio l’indipendenza, la sovranità, l’unità del Paese ed eravamo nel mezzo di una cruenta guerra di distruzione, con l’Italia campo di battaglia tra Asse e Alleati. Innegabile. Ma anche le responsabilità di Badoglio erano più gravi di quelle di Conte (guerra d’Etiopia, attacco alla Francia, guerra di Grecia, ventennale connivenza con il fascismo). La seconda, che il Governo Dini fu una tappa nello scivolamento dell’ex Pci verso posizioni di carattere liberale. Questa critica è lecita, ma la necessità di fissare punti fermi in materia programmatica è responsabilità dei contraenti del nuovo governo.
Un altro parallelo è stato avanzato, quello sull’assenso del Pci alla guida del governo ad Andreotti nel 1976; Andreotti che rappresentava non solo la destra dc e l’ala più clericale dello scudo crociato, ma anche quel grumo di trame oscure contro cui il Pci si candidava a riportare pulizia nella cosa pubblica. Andreotti fu accettato sia perché si riteneva il processo politico più rilevante delle persone, sia perché un uomo più in sintonia con il Pci, Aldo Moro, sarebbe andato al Quirinale nel 1978. Moro fu assassinato prima, ma al Quirinale andò Sandro Pertini, antifascista illustre e il più filo-comunista tra i dirigenti del Psi.
La definizione dell’inquilino del Quirinale, che sarà scelto all’inizio del 2022, è chiaramente una delle maggiori poste di questo gioco. Il suo ruolo è molto importante, come si è visto anche in altri frangenti della storia italiana (ad esempio nella prima metà degli anni Sessanta, quando la destra dc impose Segni per frenare le spinte progressiste del centro-sinistra). L’altra posta in gioco è la ricomposizione di una frattura dell’elettorato popolare nei suoi tronconi Pd e M5s e l’emersione sempre più nitida di un corpo di sinistra all’interno del M5s. E, naturalmente, c’è la necessità immediata di fermare l’arrembaggio reazionario di Lega e Fd’I.
Alessandro Zabban
Il 5 Stelle si dimostra sempre di più prototipo del partito liquido. Senza una vera identità politica, questo movimento ha cavalcato la protesta negli anni della crisi economica più profonda con efficacia ma senza mai giungere a una vera sintesi politica. Con un programma schizofrenico, che unisce temi socialisti, ambientalisti, liberisti e fascisti, il 5 Stelle ha provato a dare un senso alla propria esistenza definendosi non come qualcosa ma in contrapposizione a qualcosa (coloro che non sono la casta, coloro che non sono né di destra né di sinistra). Il risultato di questa operazione che non affonda la sue radici nella prassi politica ma nella mera comunicazione di contenuti e stili che cambiano a seconda del contesto, è sotto gli occhi di tutti. Non potendo dettare una reale linea politica, perché troppo confusa e contraddittoria per essere applicata, la forza guidata da Di Maio, è in totale balia di chi un programma politico ce l’ha: prima il capitalismo nazionalista di Salvini, ora il neoliberismo europeista del PD.
Se si pensa che il 5 Stelle, dopo aver votato con la Lega gli abominevoli decreti sicurezza, sarebbe ora col PD pronto ad abrogarli, si capisce la totale inconsistenza di un movimento capace solo di farsi dettare la linea politica dagli altri. Una cosa che non sta né in cielo né in terra ma che diventa normalità in una situazione in cui l’ansia da prestazione elettorale prevale sull’idea politica. Ma alla lunga chi si fiderà più di un movimento capace di passare con raccapricciante disinvoltura dal sovranismo salviniano all’europeismo moderato del PD?
Immagine da www.en.kremlin.ru
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.