Le recenti elezioni politiche in Norvegia (13 settembre) e in Islanda (25 settembre), pur avendo riguardato nel loro complesso poco più di quattro milioni di elettori, sembrano meritare un approfondimento analitico.
Anzitutto per le implicazioni che questi Paesi hanno o hanno avuto nel dibattito politico nazionale italiano: l’Islanda è stata a lungo vista dal Movimento 5 Stelle come la terra in cui maggiormente venivano realizzate le sue idee di ristrutturazione sociale. In un’atmosfera di grande confusione ideologica, che offriva anche il fianco alla polemica antifinanziaria tipica dei movimenti fascisti, il rifiuto di rimborsare i fondi pensione di contribuenti britannici e nederlandesi (si può immaginare che la reazione sarebbe stata ben diversa se i correntisti fossero stati islandesi…) fu addirittura insignito del titolo di “rivoluzione”.[1] Ancora prima, giova ricordare, la sconfitta elettorale dei conservatori per la prima volta nella storia del Paese, la formazione di un governo socialdemocratico per la prima volta in trent’anni e la seconda in cinquanta, la richiesta formale di adesione all’Unione Europea furono tutti letti, a sinistra, come segni dell’albeggiare di un nuovo capitalismo di Stato in Europa.[2]
Quanto alla Norvegia, l’esito elettorale favorevole al Partito Laburista è stato sbrigativamente salutato come l’anticipo di un esito analogo in Germania (ove si sarebbe votato il 26 settembre) e come un viatico di speranza per le prossime elezioni politiche in Italia. In generale, insomma, come la riaffermazione di un ruolo centrale della socialdemocrazia che, dopo aver sofferto i colpi della globalizzazione e l’erosione del suo storico elettorato fordista, tornerebbe adesso alla guida delle nuove politiche dirigiste che gli Stati capitalisti intendono attuare per fronteggiare i diversi filoni della crisi economica: quello da Covid-19, quello commerciale, quello climatico e quello demografico.
Ma vi è anche un secondo motivo, forse ancora più forte, ed è lo stagliarsi all’orizzonte di un’importante guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Europea per il controllo dell’Artico. Lo scioglimento dei ghiacci non solo apre nuove rotte navali, ma rende anche sfruttabili giacimenti naturali fino ad oggi inaccessibili.
Il tentativo di Trump di acquistare la Groenlandia, secondo il modello già esperito un secolo e mezzo fa con la cessione russa dell’Alaska, non è andato a buon fine.[3] Tuttavia sembrano ancora essere gli Stati Uniti a partire da una posizione di forza: nessuno dei territori o Stati dell’area è parte dell’Unione Europea, e anzi le linee di idiosincrasia con essa sono pesantemente marcate. Per mezzo di referendum popolari, i groenlandesi hanno abbandonato la CEE nel 1985, i norvegesi hanno respinto l’ingresso ben due volte (1972 e 1995) e i britannici, come è noto, hanno detto addio alla UE nel 2016. Il quarto Paese, l’Islanda, ha ritirato la richiesta di adesione nel 2015 e, soprattutto, la sua stessa esistenza come stato formalmente indipendente dal 1944 (fino ad allora era sotto sovranità danese) è dovuta al suo status de facto di colonia militare statunitense. L’Unione Europea rischia di restare chiusa in una sacca sub-artica a vantaggio di due potenze esterne (USA e Russia) e delle loro pedine. Il rinnovato interesse per la Groenlandia mostra, quantomeno, una volontà di non rassegnarvisi.[4]
Islanda
In Islanda il post-elezioni del 2017 aveva visto fallire la prospettiva di un governo quadripartito guidato dalla Sinistra Verde (GV) in alleanza con i socialdemocratici, il Partito Pirata e il Partito Progressista (FSF, che rappresenta i contadini). Quest’ultimo, che pure si era avvicinato al centrosinistra a causa della scissione pre-elettorale della sua ala populista ultraconservatrice, che aveva costituito il Partito di Centro, fu in grado di indirizzare la formazione del governo su un tripartito sempre a guida della GV ma in alleanza stavolta con il Partito dell’Indipendenza (SSF), principale partito conservatore (nonché storicamente maggior partito del Paese). Katrín Jakobsdóttir divenne così la Primo Ministro nominalmente più a sinistra nella storia islandese, e per la prima volta dal secondo dopoguerra lo SSF governò in alleanza con il più a sinistra fra i partiti del Parlamento (Althing).
Le elezioni del 25 settembre hanno misurato le conseguenze di questa strana alleanza fra eco-sinistra, destra e centro agrario, forze a ben vedere unificate dall’opposizione all’ingresso nell’Unione Europea.
Sia a sinistra sia a destra si sono avuti riallineamenti di consenso fra i diversi partiti; tuttavia, poiché il Partito Socialista (SFÍ, sinistra radicale), che si presentava alle elezioni per la prima volta[5], non ha superato lo sbarramento del 5%, il saldo finale ha visto lo spostamento dal blocco di sinistra[6] a quello di destra di 4 seggi sui 63 dell’Althing.
Scendendo nel dettaglio dei sei collegi elettorali in cui è diviso il Paese, possiamo leggere i risultati sulla base della densità di popolazione.[7]
Partiamo dall’aggregato dei due collegi urbani di Reykjavík, che costituiscono lo 0,3% della superficie nazionale e il 37% dell’elettorato. Qui rispetto al 2017 sono chiaramente penalizzati la Sinistra Verde (-4,9% in aggregato) e il Centro (-3,5%), mentre i maggiori beneficiari sono il FSF (+5,2%) e lo SFÍ (+3,9%).
Nella zona suburbana di Reykjavík (collegio del Sud-Ovest) la situazione è molto simile, pur se in questo caso il partito che più subisce la concorrenza socialista non è la GV bensì l’Alleanza Socialdemocratica (-4%), che però sembra perdere anche verso il centrodestra a vantaggio del Partito Riformatore, pressoché unico partito con cui condivide lo schieramento europeista.
Restano infine i tre collegi rurali di Sud, Nord-Ovest e Nord-Est. Questo aggregato rappresenta quasi il 93% della superficie islandese ma solo il 35% dell’elettorato. In esso si accentuano le perdite della GV (-5,8%) e del Centro (-7,8%), e mostrano indebolimenti anche lo SSF (-1,3%) e i socialdemocratici (-2,7%). A giovarsene sono, in misura inusitata che nelle zone urbane e suburbane, il Partito Riformatore (+3,3%) e il Partito del Popolo (+4%); su scala minore i socialisti (+3,1%); soprattutto, lo FSF (+7,8%).
Tali spostamenti influiscono sulla composizione della base di massa dei partiti. Si conferma naturalmente urbana quella dei pirati, e anche i socialisti superano il 5% solo nella capitale. Nuovo è invece il tratto prevalentemente cittadino assunto dagli altri due partiti di sinistra. Tipicamente suburbani, espressione di un ceto medio agiato, restano il Partito dell’Indipendenza e quello Riformatore (che si espande però anche in campagna), mentre si identificano come rurali oltre naturalmente al Partito Progressista anche le altre due forze populiste.
[Continua nei prossimi giorni]
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https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/14/rivoluzione-islandese-e-rifiuto-dellingiusto-debito-pubblico/950791/ ↑
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Ne abbiamo parlato qui: https://www.ilbecco.it/normalita-a-cui-tornare-e-ristrutturazione-capitalista/ ↑
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https://www.agi.it/estero/trump_groenlandia-6035287/news/2019-08-17/ ↑
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https://www.repubblica.it/economia/2021/09/11/news/la_groenlandia_verde_fa_gola_l_europa_ci_pianta_una_bandierina-317408230/ ↑
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Nel 2017 aveva partecipato alle elezioni il Fronte Popolare d’Islanda, che, pure su posizioni più radicali del Partito Socialista, ne occupava di fatto l’area di offerta elettorale. Per questa ragione il confronto 2021-2017 è fatto fra tali due liste. ↑
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Definito come Sinistra Verde, Alleanza Socialdemocratica e Partito Pirata. ↑
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I dati di popolazione elettorale sono ricavati dalla pubblicazione statistica nazionale https://hagstofa.is/utgafur/nanar-um-utgafu?id=59055 mentre quelli sulla superficie dei collegi sono stati desunti da Eva Marín Hlynsdóttir & Eva H. Önnudóttir (2018): ConstituencyService in Iceland and the Importance of the Centre–Periphery Divide, Representation, DOI:10.1080/00344893.2018.1467338 ↑
Immagine di Gust Justice (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.