Un anno fa l’assalto a Capitol Hill ha messo in luce la fragilità della democrazia americana e il carattere radicale ed eversivo di una certa destra che segue e sostiene l’ex presidente Trump. L’attacco al Congresso, ha anche evidenziato la forte conflittualità presente nella società statunitense, scossa dalle violenze dei suprematisti ma anche dalle proteste del movimento Black Lives Matter contro il razzismo e per una società più giusta. Se le tensioni sociali sembrano essere calate nell’ultimo anno, il conflitto politico resta infuocato: Trump continua a definirsi un perseguitato vittima di brogli elettorali mentre Biden proprio in occasione dell’anniversario dell’attacco al Congresso ha mosso critiche senza precedenti nei confronti del suo rivale accusandolo di aver impedito un pacifico trasferimento dei poteri e di aver creato una rete di menzogne sulle elezioni. Sugli Stati Uniti a un anno dagli avvenimenti di Capitol Hill, il 10 mani della settimana.
Leonardo Croatto
Il bias boghese e liberale che caratterizza il senso comune nel nostro paese vuole gli Stati Uniti paradigma di democrazia e libertà, punto di riferimento del “mondo libero” per i diritti individuali.
Fuori dalla propaganda, gli USA appaiono un paese estremamente diseguale, dove vivere una vita tranquilla è privilegio di pochi ricchi. Le disparità di reddito sono forti ed in crescita, ad un’ampia base di lavoratori poveri corrispondono stipendi da manager 200 volte superiori rispetto a quelli di un dipendente medio, mentre il numero di cittadini privi di un alloggio si avvicina al milione. Solo chi ha una laurea ha visto aumentare negli anni il proprio reddito medio negli ultimi decenni, tutti quelli che hanno un titolo più basso hanno perso potere d’acquisto – e le università (così come tutto il sistema educativo) sono prevalentemente private e molto costose. Le donne e i cittadini non bianchi percepiscono redditi medi sensibilmente più bassi; le donne subiscono una fortissima segregazione professionale, mentre i cittadini neri e ispanici hanno un tasso di istruzione medio decisamente più basso (e subiscono una discriminazione diretta nell’accesso al lavoro). Non è un caso che queste dinamiche del mercato del lavoro producano il tasso di povertà infantile più alto di tutte le nazioni ricche (e anche sul tasso di povertà dell’intera popolazione gli USA si piazzano tra i peggiori). La lista di queste disuguaglianze potrebbe proseguire ancora a lungo: segregazione territoriale, accesso alla sanità, mobilità intergenerazionale, tasso di incarcerazione ecc.
Un paese così spaccato produce natualmente conflitti intensi, è impensabile che una popolazione così fragile economicamente e culturalmente e incattivita dal confronto con i privilegiati e in cerca di un affrancamento dalla propria miseria non esprima in qualche modo il proprio disagio. Se il tentativo di riscatto, nell’alveo della politica rappresentativa, affidato al Partito Repubblicano in mano a Trump, è fallito, l’offerta del Partito Democratico non sembra rappresentare un’alternativa sostanziale.
Come in tutte le democrazie liberali occidentali, sarà curioso osservare quanto a lungo le parti fragili della società continueranno ad affidarsi ad un salvatore offerto dai meccanismi istituzionali di rappresentanza e a restarne sistematicamente delusi; quanto a lungo i meccanismi della persuasione organizzata riusciranno a convogliare il disagio e la sofferenza verso una qualche offerta politica costruita in modo da risultare attrattiva e quanti ulteriori promesse tradite potranno essere ancora sopportate.
Piergiorgio Desantis
Gli USA, a distanza di un anno dall’assalto di Capitol Hill, si confermano una società in crisi e, quindi, spaccata. Il perdurare della pandemia, l’acuirsi delle diseguaglianze sociali, le crisi internazionali ripropongono le difficoltà dell’Occidente e degli USA in particolare. L’avvento di Biden ha rappresentato un approccio che, in altri tempi, avremmo definito socialdemocratico con grandi investimenti pubblici nelle opere infrastrutturali ma non solo. Questi annunci di impegno dell’economia e di sussidi a pioggia del nuovo presidente sono stati parzialmente ridimensionati dal Congresso stesso. Tuttavia, i sostenitori di Trump e Trump stesso non sono spariti. Sono, viceversa, in campo e interpretano con modernità lo spirito dei tempi difficili. Ci sono e ci saranno molte variabili che influiranno sulla riuscita dell’amministrazione Biden: la pandemia, l’economia, la politica estera americana. Resta da capire, quindi, se si riuscirà a tenere unità la società, oppure si continueranno ad acuirsi le contrapposizioni sociali e economiche. Nel secondo caso Trump o chi per lui ritornerà facilmente a svolgere la sua parte anche dalla carica più importante e più influente dell’Occidente.
Francesca Giambi
Ad un anno dall’assalto (6 gennaio) al Congresso, che minacciò di fermare il trasferimento democratico del potere negli USA come finiranno i 57 protagonisti di questa drammatica vicenda? Diciamo subito, con amarezza profonda, che è cambiata la percezione della gravità (il 34% degli americani giustifica la violenza politica) ma è anche mutata la narrazione di quella giornata nei media di destra: gli assalitori inizialmente criminalizzati anche da reti come la Fox sono stati trasformati in vittime della repressione giudiziaria dei tribunali di Biden. Per ora, penso, solo lo sciamano è stato condannato e chi ha ammesso di aver attaccato i poliziotti… alcuni si sono addirittura candidati alle elezioni del 2021.La giustizia fatica a seguire il suo corso: i criminali sono stati trattati sempre in modo indulgente e questo fa pensare anche all’assalto e alla devastazione alla sede della CGIL a Roma che sembra quasi diventata una barzelletta ed episodio colpevolmente dimenticato.
Il discorso di Biden per l’anniversario dell’assalto dimostra tutta la sua debolezza: ha attaccato Trump indicandolo quasi come mandante per non aver accettato la sconfitta, ha illustrato gli obiettivi raggiunti (aumento dei posti di lavoro e diminuzione della disoccupazione), ha parlato di circa 2000 miliardi in arrivo, dimenticando però che avrebbero dovuto essere 3500.La presidenza sembra vacillare sotto molteplici attacchi interni ed esterni, vedi l’accoppiata di senatori Manchin e Sinema (democratici) che hanno sabotato e poi distrutto i piano di riforme economiche.
Gli attuali sondaggi sul gradimento del presidente vedono Biden in caduta dal 65% al 44% soprattutto per un diffuso malessere popolare sia per l’aumento dei prezzi che per la battaglia contro il Covid; solo il 13% degli americani sembra confidare in un ritorno alla normalità in breve tempo e solo un terzo degli elettori democratici mostra di avere ancora fiducia.
“Sfratto esecutivo nel 2024 e ritorno trionfale di Trump” queste sono le affermazioni di alcuni giornalisti dopo le sconfitte dei governatori democratici.
Le elezioni nell’autunno del 2022 (medio termine) vedranno l’inizio della fine dell’era Biden. Certamente l’uscita sbagliata nei tempi e nei modi dall’Afghanistan è stato il primo tassello di un presidente forse non all’altezza di tutte le battaglie in campo mondiale; ha cercato, è vero, di recuperare le relazioni con Europa e con la Nato, e questo poteva essere un punto a suo favore, a confronto di Obama (“re tentenna”) e di Trump (unilateralità per eccellenza) che infatti non avevano certo puntato al multilateralismo cercato ora da Biden. Ma pensando al suo intervento sull’ambiente al G20 e a Glasgow, proclami forse sinceri, comprendiamo che Biden sia ormai nell’angolo, non riuscendo più a tenere coeso un partito in una America impaurita e disorientata quasi nostalgica del forte Trump.
Biden appare troppo indulgente verso le minoranze, le classi disagiate e troppo poco amico dei ricchi. Sanders sempre più in un cantuccio (vedi la beffarda e offensiva risposta di Elon Musk su Twitter alla sua proposta di tassare i più ricchi: “Continuo a dimenticare che sei ancora vivo”) e la Harris sfruttata per i voto delle donne e degli afroamericani sono la dimostrazione del nuovo volto reazionario e centrista dell’America dove ormai i caos è totale.
Biden è un americano… non dimentichiamolo mai!
Dmitrij Palagi
L’Italia si sente parte del “blocco occidentale” a guida “stelle e strisce”: nel sistema di informazione nazionale le informazioni legate agli Stati Uniti son considerate “di casa”, deformando la percezione di ciò che sta avvenendo.
Trump è una sorta di cattivo da videogiochi, mentre il suo elettorato rimane liquidato all’irrazionalità, con la destra italiana che comunque ha cercato di sdoganare alcuni slogan e contenuti di “oltreoceano”.
I manifesti con Obama non sono diffusi quanto i poster di Berlinguer, nei mondi del centrosinistra della Penisola, ma continuano a essere appesi in alcune stanze: continua a rappresentare essere una “nuova era”, nonostante prosegua principalmente su Netflix, come narrazione progressista di una parte di umanità che si sente più “buona” della media, in un mondo incattivito dalle crisi (economica, ambientale, pandemica).Quello che accade alla Casa Bianca interessa molto dalle nostre parti, ma come noi giudichiamo quegli eventi interessa pochissimo (quasi nulla) alla popolazione statunitense.
Trump ha cambiato più che altro la nostra percezione degli Stati Uniti, più che quel Paese. Bush jr. fu liquidato come un uomo voluto dalle multinazionali e confermato dalla reazione all’11 settembre 2001: una parentesi.
Anche Berlusconi è stato considerato a lungo un’eccezione.
A chi si ritiene progressista non piace quando la politica va in una direzione diversa da come vorrebbe: non c’è nulla di male, purché questo non comporti la rimozione della realtà.
Jacopo Vannucchi
Nei giorni precedenti l’anniversario del 6 gennaio ha destato un certo scalpore un particolare risultato all’interno di un sondaggio commissionato dallo «Washington Post»: il 34% degli intervistati ritiene che l’uso della violenza contro lo Stato sia talvolta legittimo. Per un confronto, a maggio 1995, a ridosso dell’attentato suprematista di Oklahoma City e nel quadro di una ripresa dell’attività paramilitare contro il governo Clinton, il dato era al 9%.Il panorama non è molto cambiato rispetto a un anno fa, quando il 40% dei repubblicani sosteneva che il tradizionale stile di vita americano era talmente minacciato che per difenderlo avrebbe potuto rendersi necessario il ricorso alla violenza. Il 54% degli americani indicava la principale minaccia alla democrazia nei nemici interni e il 71% sosteneva che la democrazia e la legalità fossero sotto attacco. Numeri così ampi rivelano evidentemente che ampi settori del Paese sono trincerati l’uno contro l’altro.
Il cambiamento di tono di Biden risponde anche alla presa d’atto che la situazione, a dodici mesi dal suo insediamento, non è mutata. La collaborazione parlamentare con il Partito Repubblicano è inesistente, limitata a pochi singoli esponenti riguardo la Commissione d’inchiesta sul tentato golpe del 2021 e del tutto assente sul pacchetto di aiuti economici Build Back Better.
Proprio il percorso parlamentare a (molti) ostacoli affrontato dalla legislazione bideniana, con i democratici appesi al voto di un paio di loro senatori centristi, mette in luce il malfunzionamento istituzionale degli Stati Uniti. Senza quei voti, ad esempio, non è possibile cambiare le regole del Senato che di fatto impongono una soglia di 60 voti su 100 per l’approvazione di una qualsiasi legge o mozione. E tuttavia, i 48 senatori democratici “lealisti” rappresentano da soli il 55% della popolazione americana. Il sistema costituzionale sta cioè avvantaggiando sistematicamente le aree bianche, conservatrici e rurali.
A Biden, che aveva ambìto a governare come il Presidente della pacificazione, del compromesso, della normalizzazione politica, non resta che vestire i panni del paladino di fazione per una costante mobilitazione dell’elettorato progressista; il tutto in un clima politico che certo non si raffredderà.
Alessandro Zabban
Biden non se la passa affatto bene. Il suo primo anno di mandato è stato per molti aspetti fallimentare e la sua popolarità appare in calo. Le dure critiche a Trump nel discorso dell’anniversario dell’assalto a Capitol Hill vanno forse interpretate proprio come un segno di debolezza del Presidente americano, che per provare a ritrovare consensi è costretto ad attaccare direttamente il rivale, che in questo momento appare decisamente in vantaggio.
Se è vero che l’economia americana mostra alcuni segnali incoraggianti di ripresa, la variante omicron appare destinata a lasciare dei danni estesi e a compromettere almeno parzialmente il rimbalzo economico previsto. Ma l’aspetto più preoccupante riguarda lo stallo parlamentare sull’ambizioso progetto di finanziamenti pubblici del Build Back Better, il tassello fondamentale dell’intera Agenda di governo ma che rischia seriamente di non passare, bloccato in particolare da un sanatore democratico moderato, Joe Manchin. Siamo di fronte dunque a uno spartiacque. Se il piano non dovesse passare sarebbe la fine di quel progetto di compromesso di Biden con le forze più di sinistra del suo partito e rappresenterebbe una sorta di restaurazione e rivincita centrista, più interessata a tenere a bada il debito pubblico e l’inflazione piuttosto che a garantire la giustizia sociale.
Uno scenario di quest’ultimo tipo creerebbe ancora più fratture di quelle esistenti all’interno di un partito che comunque appare tutt’altro che unitario. Sembra del resto che anche i rapporti fra Biden e la Vicepresidente Harris non siano dei migliori. Quest’ultima è stata usata per dei meri interessi elettoralistici (il voto dei neri e delle donne) e si sente ora messa in secondo piano. D’altro canto la sua popolarità è a picco, situazione che sta creando non pochi imbarazzi al Presidente.
Insomma Biden a dieci mesi dalle elezioni di Midterm ha problemi su tutti i fronti e così il suo partito. Se a questo sommiamo la figuraccia del ritiro disordinato e disonorevole dall’Afghanistan, si capisce come mai Trump, che sembra aver ripreso un certo controllo sul partito repubblicano, sia decisamente ritornato in auge.
Col deteriorarsi della speranza di una rinascita americana con Biden, anche la situazione sociale potrebbe esplodere. L’elezione di Biden e lo sdegno quasi unanime per l’assalto al Congresso hanno raffreddato il clima sociale, ma in una situazione in cui le minoranze etniche iniziano a percepire la lontananza fra i loro interessi e l’operato dei democratici, e i suprematisti tornano a sentire le proprie idee folli legittimate nella comunicazione politica, il rischio di una nuova fase di accesa conflittualità è alto.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.