Le immagini della cattedrale di Notre Dame in fiamme hanno fatto il giro del mondo, colpendo in particolar modo noi europei. Un po’ per immedesimazione (abbiamo tutti pensato “sarebbe potuto succedere da noi”), un po’ perché si tratta di un luogo che in molti abbiamo visitato o che comunque appartiene all’immaginario comune, fatto sta che il trasporto emotivo è stato notevole. Lo stesso non possiamo dirlo per una riflessione sugli aspetti e le conseguenze politiche di questi avvenimenti, che effettivamente è stata abbastanza carente. Proviamo, nel nostro piccolo, a rimediare con il commento a Dieci Mani di questa settimana,
Piergiorgio Desantis
Dalla privatizzazione delle politiche alla conseguente privatizzazione delle soluzioni. Neanche si era spento l’incendio che ha colpito Notre Dame, subito si è scatenata la rincorsa concorrenziale (più o meno reale) di molti multimiliardari per finanziare il restauro con Macron che prometteva l’istituzione di una fondazione per gestire i grandi capitali in arrivo.
Lasciando da parte l’ipocrisia che tradisce questo genere di iniziative, ci si rende conto che ogni cataclisma, terremoto o incendio che possa riguardare luoghi celeberrimi della civiltà mondiale, saranno cavalcati dai vincenti del capitalismo (sempre meno ma assai più ricchi) per dimostrare al mondo intero che questo sistema funziona e, in più, è filantropico. E’ evidente la discrasia tra la rappresentazione proveniente dai media che rilancia e propaganda un modello economico in profonda crisi e la realtà della stragrande maggioranza dei lavoratori che continua a vivere di privazioni e precarietà. Proprio lì sarebbe necessario per la Sinistra inserirsi per rilanciare politiche di redistribuzione delle risorse sia per le opere che meglio rappresentano l’umanità (ma non solo per quelle celeberrime) che per l’umanità stessa.
Alex Marsaglia
Il triste incidente accaduto a Notre Dame ha mostrato inquietanti risvolti che rivelano come oggi il patrimonio artistico in realtà sia oggetto di una speculazione feroce che lo pone a serio rischio, come mai accaduto in ogni altra epoca storica.
Non si tratta solo dell’incuria che ha causato l’incidente. Elementi come l’assenza di una assicurazione in caso di incidenti con lesioni al patrimonio artistico oggetto di restauro è gravissima poiché in circa dieci cantieri di restauro con i bandi di gara emessi dallo Stato ciascun cantiere avrebbe dovuto avere un contratto d’ assicurazione con il massimale di copertura assicurativa a garanzia di ogni rischio di una lavorazione così delicata. Se si pensa inoltre che per il restauro completo occorrevano 150 milioni di euro e lo Stato l’anno scorso ne ha messi appena due, l’incuria diventa un fattore sistemico. Ora, a detta degli amministratori pubblici, toccherà allo Stato medesimo fare l’assicuratore di se stesso, peccato che in tempi di austerità se non fosse per i capitali privati di certo non vi sarebbero capitali pubblici per la ricostruzione di un’opera storica dal valore inestimabile.
Così il sintomo della decadenza della gestione politica e amministrativa del patrimonio artistico lo si percepisce quando la raccolta fondi privati per la ricostruzione diventa un pozzo senza fondo che supera ampiamente i danni fatti e consente ai privati di inserirsi laddove non avrebbero altrimenti potuto farlo. Come diceva con realismo cinico Andreotti: a pensar male si fa peccato, ma si indovina. E così tra le tante negligenze dello Stato i privati riescono a insinuare nuove forme di mecenatismo in linea con il neoliberismo dominante in quest’epoca. A rimetterci ovviamente sono la Storia, la Cultura e l’Arte.
Dmitrij Palagi
«È certamente vero che quanto accaduto abbia generato un senso diffuso di vulnerabilità. Un senso di possibile perdita che è difficile da concepire per un monumento così antico, tanto difficile quanto più si sono dimenticate le sue numerose stratificazioni: le vecchie distruzioni e i nuovi rifacimenti. Credo infine, dati i tempi complessi che stiamo attraversando, che si sia generato un «effetto specchio» che ognuno deve aver percepito di fronte alla propria vulnerabilità».
Queste le parole di Mathilde Larrère, intervistata da il manifesto pochi giorni fa. Comprendere il valore di un messaggio così forte è fondamentale. Poi viene tutto il resto. Le polemiche sulle donazioni private, l’assenza di fondi e di un ruolo pubblico all’altezza della tutela di un edificio così importante, l’assenza di reazioni emotive forti di fronte ad altre tragedie.
Una vita umana vale più di qualsiasi patrimonio storico. Sarebbe sciocco per pensare di trovarci in una storia distopica, in cui non si può provare empatia per le vittime delle guerre e al contempo sentire una perdita nel vedere le fiamme di Parigi. La storica francese ha espresso bene molte delle cose che avrei scritto. Nel finale della stessa intervista invita anche a non esagerare con le proiezioni.
«È altresì necessario combattere qualsiasi manipolazione politica per evitare di cadere nella trappola tesa dal potere: questa trappola ha la forma di una posticcia unione nazionale funzionale a mascherare quei conflitti che non hanno nulla a che fare con il fatto che possiamo effettivamente condividere o meno, nella tristezza di un monumento distrutto».
Un sentimento non cancella gli altri e non cancella la realtà. Lo si può usare, ma con onestà intellettuale e rispetto di chi ci sta intorno.
Jacopo Vannucchi
La mia bolla Facebook ha accolto con disprezzo e ridicolo un breve commento di Filippo Ceccarelli per la Repubblica, che vedeva nel rogo di Notre-Dame «la Waterloo dell’idea di nazione». Probabilmente, nel vario sovranismo o rossobrunismo d’occasione, tali critiche non hanno còlto tre punti fondamentali della vicenda:
1) Notre-Dame soffriva già di una carenza di fondi più volte denunziata dalla diocesi di Parigi;
2) L’edificio non era assicurato;
3) Lo Stato dovrebbe quindi pagare il restauro di tasca propria, ma non riesce a farlo, visto che a fiamme ancora in corso Macron ha annunziato l’avvio di una sottoscrizione nazionale.
Serve qualcosa in più per mostrare che uno Stato europeo ormai non può più mantenere il ruolo assunto nel secolo scorso?
Se serve qualcosa in più, possiamo citare la gara di donazioni effettuata il giorno successivo da milionari che possiamo pensare interessati al ritorno in immagine, ma anche ai relativi sgravi fiscali (peraltro giusti, visto che si tratta di una forma di beneficenza a favore di un bene pubblico).
Non ritengo giusto abbandonarsi alla lamentazione e alla disperazione, né sotto l’aspetto meramente artistico e architettonico né sotto il profilo più squisitamente politico. Perciò ritengo che il giusto modo di intendere la ricostruzione sia, come ha fatto Renzi, vedere nella cattedrale di Parigi il «simbolo di un popolo europeo che non si accontenti di essere solo gente», «il momento in cui un insieme sgangherato di donne e uomini diventa popolo».
Non è necessario, a mio parere, essere cattolici (o atei devoti) per assumere questo punto di vista. Hegel scrive nell’Estetica che gli edifici gotici «trascendono ogni fine specifico e, perfetti in se stessi, si ergono per proprio conto» e la sintesi che essi realizzano tra maestosità del complesso e molteplicità delle variazioni è di fatto una metafora per l’unione tra necessità e libertà.
Notre-Dame costituisce insomma un esempio molto potente sul piano simbolico, ma molto piccolo in termini economici, dell’impossibilità degli Stati-nazione europei di navigare in solitaria, o come una disorganizzata flottiglia, nel mare dei rapporti fra potenze.
Alessandro Zabban
L’incendio di Notre Dame è stato per lo più depoliticizzato dai media. Alla tragedia hanno fatto seguito poche polemiche, per lo più riguardanti la patetica elemosina di miliardari e multinazionali francesi. Molti invece hanno caricato l’evento di una forte componente simbolica. Qualcuno ha azzardato paragoni con l’11 settembre, altri hanno letto la vicenda come rappresentazione plastica del tracollo dell’intera civiltà occidentale.
Non credo abbia senso arrivare a tali paragoni né tantomeno evocare allegorie così ardite, tuttavia la tragedia (in parte ridimensionata dal salvataggio della struttura) deve far riflettere su che tipo di percorso le società europee abbiano intrapreso negli ultimi decenni.
Mentre il sistema misto cinese continua a produrre performance ragguardevoli e sta lentamente ma inesorabilmente costituendo un polo geopolitico alternativo in grado di attrarre molti paesi emergenti lungo la Nuova Via della Seta e in Africa, l’Europa continua ostinato nel suo ordoliberismo austeritario che sta sempre più svuotando la stato dalle sue funzioni originarie di garante dei diritti, dei servizi, del benessere e del patrimonio artistico e culturale di un popolo. Ridotto a macchina burocratica il cui unico obiettivo è quello di lubrificare gli ingranaggi del libero mercato, lo stato neoliberista è chiamato a comportarsi come una impresa, con i suoi bilanci, i suoi calcoli costi/benefici, con i suoi parametri e la sua ricerca della massima efficienza: ciò che non produce profitto immediato diventa un intoppo. Così, va da sé che la salvaguardia dei beni culturali e naturali è subordinata agli interessi capitalistici in una situazione in cui allo stato è sempre più richiesto di ridurre il suo budget.
Notre Dame non rappresenta il materializzarsi della profezia spengleriana del “tramonto dell’Occidente” ma ci dice molto sul vicolo cieco politico, sociale e culturale in cui l’Europa si sta mettendo. Occorre una trasformazione radicale del modo di pensare la società che rimetta al centro il concetto di bene comune e il principio della salvaguardia del patrimonio artistico, culturale e naturalistico sopra qualsiasi altra considerazione economica. Altrimenti non resta che proseguire sulla strada del lento declino a cui le politiche neoliberiste ci stanno abituando.
Immagine (dettaglio) di Milliped da www.commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.