Riflettendo sulla proposta del ddl Fiano
La tematica del cambiamento climatico inevitabilmente coinvolge le popolazioni dell’intero pianeta ed è l’umanità stessa a caricarsi il peso del problema, pagando direttamente per le proprie scelte.
L’economia capitalista che agisce sempre più a livello globale si muove con i combustibili fossili i quali sono i principali responsabili del riscaldamento globale. La crescita infinita a cui il capitalismo è costretto per mantenersi in vita oltre a pervertire ogni senso del valore conduce a conseguenze irreparabili per l’atmosfera in cui l’essere umano abita e coesiste con altre specie. Lo sconquasso dell’ecosistema dovuto a un riscaldamento climatico che avviene in tempi sempre più accelerati porta già a delle conseguenze preoccupanti, su tutte la gravissima crisi idrica che riguarda sempre più zone del pianeta e non dovrebbe preoccupare solo quando si giunge a condizioni emergenziali. I dati ci ricordano come gran parte del pianeta sia sottoposta a forti problematiche idriche (immagine). Queste vengono innescate da un crescente consumo idrico necessario alle economie di larga scala con le quali il capitalismo continua a generare profitti.
Capire le principali cause del riscaldamento globale diventa cruciale per tentare di invertire una tendenza che inizia a preoccupare non solo più gli esperti, ma anche la popolazione allarmata da fenomeni che iniziano ad avere ricadute pesanti sulla vita quotidiana.
All’incirca 200, tra guardaboschi, ambientalisti e leader indigeni in lotta per l’ambiente, sono stati uccisi nel 2016. Nei primi cinque mesi del 2017, secondo The Guardian, la conta avrebbe già raggiunto la cifra di 98. Molti di questi omicidi avvengono nel Sud del mondo, dove i conflitti ambientali sono ormai una triste realtà perché lo sfruttamento delle risorse naturali da parte di poche multinazionali occidentali è più intenso, molti rimangono ufficialmente senza colpevoli e soprattutto senza mandanti.
A Bougainville, un’isola tra Papua e le Salomone sotto la sovranità di Papua Nuova Guinea, esisteva una ricca miniera di rame (e oro). Nella miniera convergevano interessi Australiani e di Papua, estranei all’isola, e al picco dell’attività estrattiva erano coinvolti lavoratori di Papua e tecnici e operai specializzati australiani. Nel 1988 la pressione degli stranieri sulla piccola isola ed il gravissimo danno ambientale causato dall’estrazione del rame causano lo scoppio di una guerra di secessione destinata a durare un decennio e a lasciare sul campo circa ventimila abitanti di Bougainville, oltre a più di 300 militari e poliziotti di Papua. Nonostante la crudezza della ribellione e della sua repressione, la guerra civile di Bougainville è un conflitto dimenticato, che pochi occidentali conoscono e di cui non si può parlare senza essere bersaglio di battutine e risate. Statisticamente, però, ognuno di noi usa più di 3kg di rame all’anno, un dato in costante crescita.
Estate 2017, una delle più calde mai registrate. L’Italia si trova (con poche eccezioni) a secco. Le piogge invernali e primaverili che normalmente avrebbero dovuto coprire il fabbisogno di acqua italiano sono mancate. Incendi devastanti, appiccati da una coalizione di interessi che va dagli speculatori edilizi ai volontari disonesti, desertificano centinaia di ettari di suolo, distruggendo un patrimonio di biodiversità unico ed esponendoci tutti a danni idrogeologici futuri incalcolabili. È ancora recente la notizia dell’uscita degli USA di Trump dagli accordi di Parigi sul clima. Anche in Italia una parte di popolazione particolarmente suggestionabile (probabilmente gli stessi che pensano che la terra sia piatta) saluta con favore la notizia come una sconfitta del sedicente “complotto del global warming”, inverosimile piano con protagonisti vari volto – nella mente dei complottisti – a distruggere posti di lavoro occidentali a favore di una improbabile “lobby dei verdi”.
In Italia, intanto, il dibattito politico alimentato da media e dubbi rappresentanti istituzionali del popolo italiano verte sul concedere o meno l’attracco a Ong come Medici Senza Frontiere, colpevoli di non aver sottoscritto l’ennesima trovata populistica del ministro Minniti. L’ambiente passa in secondo piano, relegato a qualche articoletto sugli incendi o sul conflitto tra i “piddini” della Regione Lazio e i “grillini” fedeli alla sindaca di Roma sulle sorti dello sfruttamento dell’agonizzante lago di Bracciano.
Riportare integralmente l’ambiente tra le priorità politiche, riconoscendo il peso preponderante che le società occidentali hanno nella distruzione ovunque nel mondo, sarebbe già un passo nella direzione giusta.
Tra i maggiori esperti vi è ormai la convinzione si sia entrati in una nuova era geologica in cui il clima terrestre viene radicalmente modificato dall’azione dell’uomo. Questo potrebbe condurre in tempi brevi a un pianeta mutato radicalmente al punto da non essere più in grado di sostenere forme di vita umana. Infatti, se questo cambiamento climatico ha finora condotto alla distruzione di svariati ecosistemi, non si capisce per quale motivo la distruzione su larga scala delle varie specie non dovrebbe includere l’essere umano. I più fervidi sostenitori delle antitesi a queste tesi ecologiste li troviamo nella destra americana che infatti rifiuta ogni derivazione politica di tali tesi, con la scusa che l’uomo si attribuirebbe eccessivo peso nelle capacità di influire sul clima terrestre.
Questo rifiuto può essere imputato al fondamentalismo religioso americano che numerose volte ha abbandonato la logica, invertendo i criteri di scientificità per approcciarsi agli argomenti. Nel frattempo le conseguenze del riscaldamento globale stanno conducendo ad un inaridimento di aree sempre più estese del globo (immagine), di conseguenza le risorse idriche diventano sempre più un bene soggetto a scarsità e il cui prezzo tende a incrementare. Non è irrealistico ritenere che in un tale contesto le guerre verranno mosse sempre più anche dall’elemento idrico. L’approvvigionamento di una risorsa insostituibile che nel lungo periodo vede incrementare la sua scarsità diventa un’evidente ragione di conflitto tra chi detiene il potere nel mondo. La stessa definizione della risorsa idrica “oro blu” ci dice quanto acquisterà valore, visto il suo crescente consumo in rapporto alla scarsità. Di una cosa possiamo esser certi: il mercato onnidivorante cercherà di impadronirsi sia delle risorse scarse sempre più indispensabili ai bisogni umani che delle energie rinnovabili ed ecosostenibili sulle quali si tenta di sviluppare un altrettanto fruttuoso business. Il consumismo viene già indirizzato in questo senso e, ad esempio, con un massiccio greenwashing, ci viene fatto credere che andando da Eataly ci si sottrae a un sistema economico e sociale che stritola l’ecosistema. Purtroppo non è così facile la soluzione e tentare di disegnare un sistema economico e sociale ecocompatibile è una delle tante sfide che qualsiasi sistema socialista deve affrontare.
Dunque, consapevoli “che noi siamo dominati nei nostri bisogni e desideri, nei nostri pensieri e nell’immagine che abbiamo di noi stessi” dobbiamo cercare una via realmente alternativa al “consumo opulento” (A. Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano 2009, p.17) evitando di lasciarci intrappolare nella manipolazione del capitalismo che punta a sviluppare sempre maggiori bisogni nelle persone per ampliare i settori di profitto. Un’avvertenza importante che Gorz ci ha lasciato è proprio riferita alle “tecnologie chiavistello” che “asserviscono l’utente, ne programmano le operazioni, monopolizzano l’offerta di un prodotto o di un servizio” (Ivi, p.19). Credo che utilizzare una buona dose di scetticismo verso tutte le facili soluzioni propinate dall’economia sostenibile sia un ragionamento non troppo eretico, soprattutto alla luce del conclamato fallimento degli Accordi di Parigi e pur nella consapevolezza della totale assenza di una pars construens per fermare l’eccidio ecologico del capitalismo.
La cosa peggiore sono le strumentalizzazioni. Nonostante questo l’opinione pubblica vive di strumentalizzazioni. Si prenda lo scioglimento della Forestale italiana, accorpata ai Carabinieri: la polemica nasce per via degli incendi estivi 2017, a mesi dall’avvenuta decisione politica.
Per la questione ambientale le cronache regalano continue emergenze, per la gioia di chi ama discutere “a vuoto” sotto gli ombrelloni o davanti ai camini. Se fa troppo freddo si arriva persino a sentire dire che ha ragione Trump nel negare evidenze scientifiche (ma siamo in tempi in cui basta l’1% di ciarlatani accreditati per smentire qualche elemento ascrivibile alla categoria dell’oggettività, altrimenti non si parlerebbe della libertà dell’attuale sistema economico).
Per molti decenni si è accreditata una teoria secondo la quale i Verdi sarebbero stati la forza politica attenta alle tematiche ambientali. Un giorno andrà destrutturata questa narrazione. Nel frattempo non sarebbe complicato analizzare come la contraddizione tra capitale ed ambiente facilmente accompagna la descrizione della centralità dello scontro di interessi tra capitale e lavoro.
Mentre le persone comuni vengono invitate ad usare la bicicletta anziché la macchina (giusto) o a non abusare dell’acqua pubblica (sempre che lo sia) alla privilegiata fascia di detentori del potere vengono garantiti climi tropicali in mezzo al deserto, od altre amenità facilmente perdonabili, secondo le riviste patinate, con qualche pratica filantropica.
Al Gore ha scoperto a sue spese quanto la questione degli orsi polari porti pochi voti tra chi vive gli effetti dello sfruttamento economico. Il problema è rendere comprensibile come il problema del clima riguardi chi non ha le risorse per poterlo ignorare.
Lo stile dell’alimentazione, il sistema di mobilità, quello produttivo: tutto concorre a determinare l’ambiente in cui viviamo.
Consapevolezza, analisi, capacità di mantenere una visione globale del tema: socialismo o barbarie rimane una sintesi alquanto esaustiva, se la si sa correlare ad un’adeguata lettura del presente (anche se proprio su questo sono carenti la sinistra ed i comunisti, almeno in occidente).
La Prima rivoluzione industriale, introducendo il lavoro delle macchine nel ruolo produttivo, ha innescato un mutamento nel rapporto uomo-natura che, con i successivi avanzamenti scientifici, ha rotto il ritmo di lento accrescimento sostenuto fino allora e portato a settuplicare la popolazione mondiale in poco più di due secoli.
Questa rottura si è tradotta in un aumento dei fattori di pressione sull’infrastruttura ambientale e sulla struttura sociale provocando le seguenti contraddizioni:
– consumo di risorse eccessivo: il Giorno del debito ecologico mostra che il pianeta consuma in un anno il 170% di tutte le risorse prodotte;
– spreco: da circa trent’anni la Terra produce ogni anno più cibo del necessario a sostentare la popolazione mondiale (con una crescita nei prodotti da allevamento intensivo dovuta al boom demografico asiatico);
– iniqua distribuzione della ricchezza: secondo Oxfam, le otto persone più ricche controllano la stessa ricchezza nelle mani del 50% più povero della popolazione mondiale;
– infine, il cambiamento climatico, dovuto allo sfruttamento distruttivo delle risorse e all’emissione di gas serra.
Collegata a questi punti vi è, altresì, la presenza massiccia di bisogni fittizi nei Paesi ricchi.
L’annunciato ritiro degli Stati Uniti di Trump dagli accordi di Parigi mostra come le industrie americane abbiano rinserrato la presa sul governo; la fermezza con cui altri colossi estrattivi e industriali – Russia e Cina – hanno difeso gli accordi è un buon segnale, ma non risolve definitivamente lo stress ecologico del pianeta. Emblematico è il caso dell’Africa, in piena esplosione demografica: il progresso scientifico ha ridotto i tassi di mortalità, ma il sottosviluppo economico e sociale mantiene il continente in uno stato di altissima natalità, che aggrava la povertà interna e produce un imponente fenomeno migratorio.
Non è troppo tardi per bloccare l’impatto della distruzione dell’ecosistema globale: le centinaia di esplosioni nucleari dell’era atomica hanno causato un enorme innalzamento della radioattività, che dopo la fine della guerra fredda sta lentamente ma costantemente diminuendo.
Ma soltanto un sistema economico di tipo socialista può rispondere alle criticità di cui la Terra oggi soffre: frenare la folle corsa al profitto e, quindi, ridurre gli sprechi e il consumo di risorse e allocare un’equa distribuzione della ricchezza.
Sul sito web del centro studi della NASA sul cambiamento climatico si legge che per fronteggiare il problema delle trasformazioni climatiche si offrono due sostanziali alternative: la prima e più scontata è quella di mitigare il livello di emissioni di gas serra nell’atmosfera, la seconda è quella di adattarsi agli effetti di un clima che è già sostanzialmente cambiato (riscaldamento globale, scioglimento ghiacciai, innalzamento oceani, ecc.).
Come interpretare questa seconda proposta, quella di adeguarsi ai cambiamenti in atto, che di fatto non è una soluzione vera e propria ma appunto un adattamento a una situazione già esistente? Sicuramente occorre leggere fra le righe il grande e comprensibile scetticismo che attraversa la comunità scientifica e più in generale la società civile riguardo alla possibilità di ridurre i gas serra, principali responsabili del cambiamento climatico. Nonostante la retorica “green” ed “eco”, a una responsabilizzazione individuale non si è aggiunta una responsabilità politica: gli accordi sul clima sono una farsa triste e intanto continua a crescere a ritmi vertiginosi il livello di anidride carbonica nell’atmosfera (vedi grafico sotto). Se ormai si parla con sempre maggiore insistenza di antropocene, termine che indica l’epoca nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche climatiche del pianeta, è anche perché c’è ormai la certezza che il futuro sarà segnato dai disastri ecologici che il sistema capitalista non può fare a meno di generare per sopravvivere. Se anche riducessimo a zero l’emissione di gas serra domani, molti degli effetti dell’inquinamento già prodotto si manifesterebbero comunque nei prossimi decenni, influenzando profondamente l’esistenza delle future generazioni.
Sono sempre più evidenti e tangibili i segnali che indicano che il tentativo di risolvere i problemi climatici e ambientali all’interno di una cornice istituzionale ed economica di tipo capitalistico stia miseramente fallendo. Mettere in discussione la produzione di agenti nocivi e inquinanti, senza interrogare il modo di produzione tout court porta a un vicolo cieco. Quel vicolo cieco in cui ora siamo. Lavorare per ridurre i gas serra non basta, dobbiamo purtroppo iniziare ad adattarci a una situazione che sta sfuggendo di mano al sistema economico globale e sulla quale la sinistra ha attualmente poco margine di azione. Anche nella migliore delle ipotesi, l’Italia si troverà sempre di più in una posizione di grande vulnerabilità rispetto ai nuovi fenomeni climatici. Servirebbero investimenti enormi anche solo per mettere al sicuro le aree soggette a rischio idrogeologico e le città costiere dall’innalzamento dei mari, senza tenere in conto della necessità impellente di rivoluzionare l’industria agricola se non vogliamo che anche il settore alimentare del made in Italy venga sopraffatto dalla siccità e tropicalizzazione del clima. Certo che tali piani ambiziosi richiedono lungimiranza politica e disponibilità finanziaria, risorse che ad oggi risultano estremamente carenti.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.