Si è celebrato il 21 Gennaio il centenario del Partito Comunista d’Italia, con molte le iniziative: alcune erano segnate dalla retorica, altre dal tentativo di sminuire la portata dell’evento ricordato, sostenendo una superiorità del “ben più autorevole” riformismo.
Su queste pagine Dmitrij Palagi si è soffermato sul lavoro di Luciano Canfora, La metamorfosi (l’articolo qui).
Al contrario della critica che fa Dmitrij, molto garbata com’è nel suo stile, ritengo che sia giusto il concetto di parenesi entro cui inserire l’“eresia comunista” nel contesto più ampio della storia del Movimento Operaio: lungi dall’essere arbitrario, va semmai ampliato, per evitare di essere fuorviante, come a me pare succeda nel testo di Canfora, in particolare quando vede, dopo “la svolta” di Togliatti, una ricomposizione socialdemocratica nel/del PCI.
Non è una questione di nomi
Comunisti, socialisti o socialdemocratici: sono stati sinonimi e hanno convissuto tranquillamente nella II° Internazionale. Non solo: le tendenze gradualiste, riformiste o rivoluzionarie sono sempre state presenti in tutte le organizzazioni, prima e dopo le scissioni.
L’origine comune e l’impostazione marx-engelsiana della teoria, con il prodursi dell’associazionismo operaio nel nome di questa teoria, caratterizza, appunto, la II° Internazionale.
Il dramma è la rottura che non avviene su disquisizioni teoriche, a cui pure si rifanno le varie posizioni, ma sulla posizione verso la prima guerra mondiale. Su questo si divaricheranno e poi si contrapporranno le due anime dell’Internazionale.
In questa fase c’è comunque, secondo me, un punto comune: l’incapacità di vedere (e quindi indicare e battersi per) alternative produttive per l’uscita dalla crisi che la borghesia fa precipitare nella guerra. I riformisti, viziati da una lettura di Marx, positivista e deterministica, non vedono alternative al seguire le rispettive borghesie, aderendo nella loro maggioranza alla guerra, decretando la loro irrilevanza storica. La parte rivoluzionare pure, non vedendo alternative, individua nelle rispettive borghesie il nemico principale, rifiutandone la lettura e combattendole.
Qui muore la II° Internazionale e, anche se sopravvivrà formalmente alla III°, non sarà che l’ombra di sé stessa e non avrà più nessun ruolo.
I rivoluzionari, al contrario, avranno un futuro e riusciranno, solo parzialmente però, a far uscire finalmente il proletariato dalla guerra, con la rivoluzione di Ottobre in Russia (con buona pace di Mieli che considera la “vera” rivoluzione quella di febbraio e solo un colpo di Stato quello dei Bolscevichi).
L’internazionale comunista e la violenta reazione borghese
È quindi la rottura sulla guerra l’atto di nascita dell’eresia comunista. In realtà è un atto di sopravvivenza e continuità, necessario e conseguente alla presa d’atto che la maggioranza dei partiti socialisti cedono alle rispettive borghesie, perdendo la propria autonomia e rendendosi incapaci di sviluppare politiche all’altezza dei presupposti marx-engelsiani.
Questo atto di rottura produce anche un elemento nuovo: la Russia sovietica.
Le borghesie, di tutti paesi, si coalizzeranno per cancellare l’inconcepibile sussulto russo e nel contempo definiranno, come riusciranno e come sapranno fare, la pace dopo la fine della guerra.
Da una parte saranno sette anni di interventi, diretti o indiretti, a sostegno dei “bianchi” nella guerra civile, che però non riusciranno a impedire la vittoria dei “rossi”. Dall’altra parte sarà la “pace” di Versailles che, come sappiamo, chiude il primo tempo e prepara il secondo tempo della guerra mondiale, poiché le dinamiche interne di crisi della formazione sociale in essere, restano tutte in piedi e dovranno essere risolte; ma, ancora una volta, la borghesia non vede sviluppi non distruttivi, alternativi alla logica della guerra.
La Russia sovietica, attesa invano la rivoluzione nel resto d’Europa, si definirà come un’entità statale che organizza direttamente l’economia e la società civile; questo è un atto di rottura con le pratiche dell’era borghese, dove l’economia e la società civile dirigono lo Stato (il marxiano comitato d’affari della borghesia). Questo fatto, a mio parere, può essere annoverato tra i prodromi del welfare keynesiano.
Nel contempo, sul piano geopolitico, si affaccia un nuovo attore. La Russia, dopo essere stato oggetto delle aggressioni esterne, poi pedina da giocare nei contrasti intercapitalistici e imperialistici (le borghesie liberali, fino ai rovesci anglofrancesi del ’40, non rinunceranno a lavorare per uno scontro diretto Germania nazista e URSS), avrà ruolo decisivo nel costruire lo schieramento antifascista.
La svolta dell’internazionale comunista
La rottura e la lunga contrapposizione tra le due ex anime della II° Internazionale vedrà:
- i riformisti sempre più subordinati alle rispettive borghesie e spiazzati dal ruolo politico, che esse, concedono ai fascismi;
- i rivoluzionari alle prese con l’isolamento e l’aggressione all’Unione Sovietica, oltre che con la violenza della repressione borghese (in particolare fascista), si identificheranno, parossisticamente, con l’URSS, retroterra sicuro dell’antifascismo internazionale.
Con il V° e VI° Congresso dell’Internazionale Comunista si sviluppano le posizioni sui “social traditori” e poi “social fascisti”, il punto massimo di contrapposizione. Con il VII° Congresso dell’Internazionale nel ’35, considerato il consolidamento dell’URSS, si avvierà una politica di apertura verso le democrazie liberali (appelli all’unità antifascista e sostegno alla democrazia, fino alla difesa della Repubblica Spagnola) e di appello ai socialisti – e non solo – per dare vita ai Fronti Popolari.
Il partito nuovo e Togliatti
La cosiddetta svolta del ’44 di Togliatti, quindi, non è che lo svolgimento pratico e conseguente della politica dell’Internazionale (dove i sovietici e Stalin avevano evidentemente un peso), che peraltro, non a caso, è stata sciolta l’anno precedente, in favore dell’autonomia dei partiti nazionali.
Se quindi si guarda l’insieme della storia del Movimento Operaio di ispirazione marx-engelsiana si può dire, a buon diritto, che qui si riproduce una saldatura (e possiamo chiamarla tranquillamente socialdemocratica) in onore dell’internazionale voluta da Marx e Engels, dopo l’esperienza della prima Associazione Internazionale dei Lavoratori, purché, appunto, a questa aspirazione ci si rifaccia; altrimenti si induce una distorsione che, peraltro, la SPD tedesca si premurò nel 1959 di chiarire: essa, con il pensiero di Marx, non aveva più niente a che spartire.
E oggi?
Da quella svolta togliattiana (se vogliamo chiamarla così) si apre un discorso che pure Canfora affronta, ma che qui deborda troppo, per l’economia di questo articolo.
Sinteticamente. La politica comunista – per quanto rappresenti ancor di più “uno spettro che si aggira per” … il mondo (pensiamo alle lotte di liberazione nazionali, alla Cina, a Cuba, al Vietnam) – sul piano della storia universale, accompagnerà le politiche keynesiane nazionali (quindi generali) di welfare (che non sono una esclusiva socialdemocratica, anzi); politiche che garantiranno l’ulteriore sviluppo delle forze produttive cui la formazione sociale (capitalismo) poteva ancora dare corso.
Esaurita, a metà anni ’70, questa fase vincente del Movimento Operaio (a me sembra inconcepibile parlare di vittoria della borghesia), la sinistra (e quindi i comunisti) non è stata battuta nello scontro di classe: piuttosto si è persa, non ha saputo più come leggere la realtà. Questo dovremmo capire: quando e dove ci siamo persi?
Ci troviamo di fronte, ancora una volta, nella fase di crisi che interessò la II° Internazionale? Ci stiamo muovendo in modo disordinato, senza un principio orientativo? Da una parte i riformisti (?), seguendo le scelte cadaveriche della borghesia (lavorare per la crescita), dall’altro i rivoluzionari (?), che blaterano di processi che non hanno ne capo ne coda?
La domanda a cui bisogna rispondere, rovesciando in negativo l’affermazione marxiana nella prefazione del 1859 a “per la critica dell’economia politica”, è: se questa formazione sociale non è più in grado di garantire ulteriore sviluppo delle forze produttive è nell’ordine possibile delle cose il suo superamento? Anzi, è necessario? In mancanza di ciò avremo “la comune rovina”?
Ancora una volta la pietra miliare è il pensiero di Marx (che non basta invocare), anche se anche oggi, come per la SPD tedesca del 1959, molti non vogliono averci niente a che fare, pur definendosi riformisti.
Immagine: dettaglio da foto di Erich Höhne ed Erich Pohl, da wikimedia.org
Pensionato, una vita nella CGIL, di cui è stato anche nella segreteria regionale, eletto con il Partito della Rifondazione Comunista come consigliere provinciale per due mandati legislativi fino al 2004, successivamente nel Consiglio Comunale di Colle di Val d’Elsa, dove già era stato eletto nel 1980, ha svolto l’incarico di Assessore.