Viviamo all’interno di un gigantesco vuoto di potere in Occidente ed è sempre più difficile girarci attorno, anzi direi che è divenuto ormai impossibile. In Europa si è passati per il declino del socialismo reale e delle socialdemocrazie, mentre negli Stati Uniti si assiste chiaramente all’estremizzazione dello spettro politico.
La crisi strutturale che affligge il capitalismo storico è divenuta sempre più grave anche al centro dell’impero. Così, se nel 2008 la popolazione americana preferì votare per l’ala sinistra del Partito Democratico, oggi, dopo due mandati disastrosi e l’assoluta impossibilità di cambiare votando la sinistra dell’offerta politica, ha preferito optare per il candidato di estrema destra.
Se le prospettive con Obama non erano certo entusiasmanti, poiché si trattava in sostanza di realizzare un programma puramente idealistico: contenere la finanziarizzazione e l’imperialismo. Allora c’è da dire che le prospettive non sono certo ottimali nemmeno oggi, con Trump: se i cambiamenti promessi in campagna elettorale verranno realizzati ci sarà un aumento della conflittualità globale. Se, viceversa, tali cambiamenti non ci saranno l’economia continuerà la sua fase di depressione accompagnando l’impero alla decadenza forse definitiva.
In merito occorre ricordare come la finanziarizzazione non sia in realtà mai terminata e come nuove crisi siano sempre dietro l’angolo dati i tassi di diseguaglianza crescenti. In un contesto simile è evidente che vi sia un grave problema che la politica deve affrontare, pena la delegittimazione e il fallimento dello Stato. Il problema è la presenza di una persistente crisi strutturale in cui sono presenti sia la caduta tendenziale del saggio di profitto sia la sovraccumulazione causata dal capitalismo monopolistico.
I due aspetti sono intimamente legati in una crisi strutturale, poiché se fosse presente solamente la caduta tendenziale del saggio di profitto il capitalismo potrebbe tentare un adattamento infinito, operando liberamente sull’estrazione di plusvalore, invece, la tendenza alla sovraccumulazione costringe il capitalismo a rispettare precisi criteri che rendono intollerabile la spesa per gli uomini, che finiscono per diventare un ostacolo al progresso della produttività del lavoro.
Il cortocircuito determinato dall’aumento della componente costante del capitale che schiaccia il tasso di profitto e della massa di plusvalore crescente finiscono per distruggere il lavoro vivo. Ecco quindi i due fenomeni operare simultaneamente.
Andiamo con ordine. Occorre innanzitutto chiarire preliminarmente cosa si intende con il concetto di potere e con quello di Stato. Se si riconosce che la società, all’interno del modo di produzione capitalistico, è profondamente attraversata da interessi di classe che si esprimono in rapporti di forza, allora il potere sarà “la capacità di una classe sociale di realizzare i suoi interessi e obiettivi specifici”1. L’impostazione ricalca quel “tipo particolare di rapporti sociali che è caratterizzato dal «conflitto», dalla lotta di classe, si riferisce cioè ad un campo all’interno del quale, proprio per l’esistenza delle classi, la capacità dell’una di realizzare con la sua pratica i suoi interessi specifici è in opposizione con la capacità – e gli interessi – delle altre classi. Ciò determina un rapporto specifico di dominazione e di subordinazione”2.
Lo Stato diventa “il centro di esercizio del potere politico”3, ma lo Stato capitalistico acquista una configurazione specifica che ne permette la legittimazione di fronte al popolo. Questa legittimazione lo Stato capitalistico la ottiene nascondendo la conflittualità di classe, e omettendo la “determinazione dei soggetti – fissati in questo Stato come «individui»,«cittadini»,«persone politiche» – in quanto agenti della produzione”4, per cui “l’esame dello Stato moderno che ne consegue, a partire dal problema di una separazione tra lo Stato e la società civile, è ricalcato sullo schema dell’alienazione”5. Con Gramsci, si può quindi definire lo Stato capitalistico come uno “Stato a direzione egemonica di classe”6, in cui si esercita un dominio di classe non solo tramite l’utilizzo della forza, ma con l’ideologia borghese che conquista le masse sottomettendole.
Lo Stato capitalistico esiste quindi come Stato delle classi dominanti che esclude la lotta di classe e si presenta come “uno Stato «di classe» di una società istituzionalmente fissata come non-divisa-in-classi”, cioè come “uno Stato della classe borghese, sottintendendo che tutto il «popolo» fa parte di questa classe”7.
Insomma, la legittimazione dello Stato capitalistico si regge su di un artificio ideologico non da poco. Questa ideologia si trova sempre più in difficoltà di fronte alla crisi egemonica subentrata con l’intensificarsi della crisi strutturale nei primi anni Settanta. Con la crisi, lo Stato fatica sempre più a svolgere il suo ruolo di organizzatore del blocco di potere delle classi dominanti, donando stabilità all’ordine politico borghese.
Poulantzas ne individuava già i primi sintomi nel “policentrismo dei luoghi istituzionali, ossia dei centri dei centri di potere politico” e nella “loro concentrazione nell’esecutivo”8. Così, secondo il teorico greco, si andava incontro ad una “recrudescenza del ruolo politico dell’apparato statale e all’organizzazione dell’egemonia dei monopoli, tramite lo Stato, nell’esecutivo stesso”9.
Oggi, la globalizzazione ha rappresentato un contesto in cui la riproduzione allargata si è spinta oltre ogni limite nell’accumulazione su scala globale, generando una maggiore integrazione della forza lavoro mondiale e ulteriore ineguaglianza. E solo oggi si intravede “il sovraffollamento che genererà l’esaurimento dell’accumulazione”10. È seguendo la scuola delle Annales che teorici come Wallerstein sono giunti a delineare la crisi egemonica del ciclo statunitense. Più precisamente, nel 1967/73 si sarebbe giunti al culmine di due curve cicliche: il ciclo di Kondratieff (rappresentato sostanzialmente da onde sinusoidali di cicli economici della durata di 50-70 anni) e il ciclo egemonico statunitense iniziato con la vittoria nella Seconda Guerra mondiale. Tale giro di boa della storia avrebbe così “rappresentato anche il culmine di una curva ancor più lunga, la curva dell’esistenza di questo sistema storico, che dal 1500 circa arriva a un punto imprecisato del futuro relativamente prossimo”11.
Ebbene, si è liberi di valutare le teorie dalla longue durée come si vuole; certamente ci sono forzature teoriche, ma che oggi ci si trovi sempre più all’interno di questa destrutturazione del mondo politico finora conosciuto è ormai un fatto oggettivo percepito da tutti in Occidente.
Se si cerca di approfondire i significati di questa crisi di egemonia esterna unitamente alla crisi di egemonia interna si possono rintracciare i fenomeni generati delle faglie già individuate negli anni Settanta da studiosi attenti al tema del potere e dello Stato come Poulantzas per l’appunto. Proprio il teorico ateniese recuperando Gramsci e interpretando in chiave critica Althusser si addentra nelle trasformazioni dei poteri e della politica della nuova fase egemonica neoconservatrice di lunga durata che avrebbe messo all’angolo il movimento operaio e il marxismo per un trentennio. Molti temi venivano inquadrati con acume: il neoliberismo e il ritiro, o meglio, la ridefinizione del ruolo dello Stato in economia, la finanziarizzazione come tendenza dell’accumulazione mondiale, il declino della democrazia liberale.
Lo “statalismo autoritario” diventa la formula più semplice per evidenziare le storture della torsione terminale dello Stato capitalistico in cui convergono vari epifenomeni interessanti, come: “la ridislocazione dei poteri istituzionali, con la personalizzazione del potere, il rafforzamento senza precedenti degli apparati esecutivi e il corrispondente indebolimento dei parlamenti, la marginalizzazione del sistema dei partiti e la formazione di un nucleo di partito unico di governo, l’ascesa dei mass-media come apparato egemonico primario, le restrizioni delle libertà e dei diritti, la riorganizzazione delle forme di legittimazione e delle ideologie dominanti”12.
La crisi strutturale e la crisi egemonica statunitense avrebbero quindi un preciso corrispettivo interno in “un declino della democrazia rappresentativa, intesa nel senso classico, senza che ciò implichi una tendenza verso il fascismo”13. In questo senso Poulantzas può ancora aiutarci a leggere il presente, nella misura in cui leggeva in questi epifenomeni il manifestarsi di una “mutazione più generale dello stato”14, che si riorganizzava per riformulare la sua legittimazione in nuove modalità più efficaci. Queste modalità vedevano manifestarsi in misura crescente: la centralizzazione del potere nell’esecutivo, con la confusione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario); la trasfigurazione del sistema politico con il venir meno della funzione di rappresentanza di quei partiti un tempo intermediari tra le masse e l’amministrazione statale; lo “sviluppo di circuiti collaterali all’interno dello stato (nella polizia, nelle Forze Armate ecc.) che sempre più ostentano una parte fondamentale del potere dello stato”15.
Anche in ambito economico lo Stato veniva ad assumere una nuova funzione fondamentale a sostegno dell’accumulazione capitalistica e non poteva che essere così, poiché la caduta tendenziale del saggio di profitto costringeva le strutture del potere a intervenire in maniera nuova e sempre più massiccia.
Così se la classe operaia dei paesi appartenenti al nucleo imperialista subiva una riduzione tendenziale dovuta al primato del lavoro morto sul lavoro vivo, i processi del capitale e del lavoro andavano internazionalizzandosi, con lo sviluppo di paesi capitalistici dipendenti e l’allargamento del divario tra questi e il centro.
Questo ha permesso di accumulare ulteriore capitale, ma anche questo processo non era infinito e l’attuale svolta del nucleo imperialista, se confermata, potrebbe delineare l’apertura di una nuova pericolosa e inedita fase ad elevata conflittualità tra potenze imperialiste.
Lo scontro economico che già si delinea a livello internazionale potrebbe infatti precipitare in men che non si dica in scontro militare, soprattutto se si pensa che l’apparato statale, dopo il giro di boa del 1967/73, sia ormai polarizzato a destra e abbia sviluppato con il militarismo e il neoliberismo forme sempre più brutali di sfruttamento e sopraffazione.
1 N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 124.
2 Ivi, p. 126.
3 Ivi, p. 139.
4 Ivi, p. 149.
5 Ivi, p. 151.
6 Ivi, p. 168.
7 Ivi, p. 238.
8 Ivi, p. 406.
9 Ivi, p. 407.
10 T. K. Hopkins – I. Wallerstein, L’era della transizione. Le traiettorie del sistema-mondo 1945-2025, Asterios, Trieste, 1997, p. 15.
11 Ivi, p. 21.
12 Prefazione di E. Melchionda a N. Poulantzas, Il declino della democrazia, Mimesis, Milano-Udine, 2009, p. 12
13 Ivi, p. 186.
14 Ivi, p. 211.
15 Ivi, p. 223.
Pubblicato per la prima volta il 28 novembre 2016
Nato a Torino il 2 maggio 1989. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla storica rivista del Partito Comunista Italiano “Rinascita” e appassionato di storia del marxismo. Idealmente vicino al marxismo eterodosso e al gramscianesimo.