«Buonasera, sono una Donna Lucertola dai confini del Tempo…»
La cameriera alla porta rimane impassibile.
«… E questa è mia moglie.»
La cameriera strilla terrorizzata.
Questa scenetta nello speciale di Natale 2012 di Doctor Who illustra ironicamente come sia più facile accettare Madame Vastra, una Siluriana dalla pelle verde e squamosa proveniente da remote regioni dell’universo, che l’umana Jenny sposata ad un’altra donna – come sia più facile concepire le squame verdi e i viaggi spaziali che l’amore tra due donne. E non tanto perché si tratta di fantascienza (anzi, la fantascienza vanta una lunga storia di rappresentazione delle diversità e restituzione della complessità) quanto perché Madame Vastra appare completamente diversa, completamente altra, mentre Jenny è proprio come “noi”, come il pubblico… tranne per il fatto che non è eterosessuale.
Far coesistere il fatto che alcune (ma non poi così poche) persone abbiano orientamenti sessuali e identità di genere diversi dalla “norma” e allo stesso tempo che queste siano proprio persone, persone come tutte le altre, come “noi”, soggette agli stessi diritti e agli stessi doveri, sembra ancora troppo difficile. L’immaginario, e con esso le istituzioni che lo rappresentano, finisce per collassare su un lato o sull’altro: sulla negazione dell’esistenza di una diversità o sul rifiuto dello status di persona.
Molto si può dire sulla varietà di significati politici e religiosi con cui questo rifiuto si manifesta e non è scontato enucleare un denominatore comune che non sia tuttavia così generico da risultare ininteressante; si può però forse notare come l’accettazione come pari di persone diverse da “noi” implichi una crisi nell’identità del “noi” ed i presupposti su cui questa è fondata – al punto che sembra essere ancora preferibile il respingimento della persona “diversa” in carne ed ossa rispetto al ripensamento di un presupposto astratto ed evidentemente inadeguato alla realtà.
Nel mese dei Pride, l’opposizione più o meno velata a queste manifestazioni di diversità all’interno dell’umanità ricalca esattamente questo schema. Da un lato la condanna per “innaturalità” e quindi mancata umanità (rispetto ad una “naturalità” culturalmente codificata, ma certamente non ad un dato scientifico empirico), da parte di categorie la cui identità è in parte funzione proprio dell’avversazione del Pride e di ciò che rappresenta (anche se stanno riuscendo a lanciare le stesse accuse al calcio femminile, della cui esistenza non si sono accorte che recentissimamente); dall’altro lato impressionanti sforzi di ignorare la diversità, esigendo che essa sia espressa “sobriamente” – o preferibilmente nascosta.
Nella seconda tipologia ricade la scusa scelta dall’Università di Pisa per negare il patrocinio al Toscana Pride 2019, proprio a Pisa anche in ricordo del primo Pride (in senso stretto) tenutosi in Italia sempre a Pisa nel 1979. Diversamente dalla Scuola Normale e dall’Università di Firenze (attraverso il suo CUG), l’ateneo pisano ha giudicato l’evento troppo «divisivo» – ovvero, nella più generosa interpretazione possibile, troppo eloquente nel mostrare una comunità ancora esclusa da un complesso di diritti sociali e civili e il contrasto tra quella comunità e chi le nega i diritti che le spettano, magari proprio come se un diritto dovesse essere il premio per aver minimizzato la propria visibilità, o come se il diritto fosse più o meno meritato secondo parametri estetici. La divisione esiste e richiede di schierarsi.
Se la sobrietà, la discrezione, il decoro sono le regole per l’assimilazione in un sistema sociale non più sostenibile, tuttavia, va da sé che l’indecorosità, l’irriverenza, l’eccesso – quei tratti per cui i Pride vengono tacciati di “carnevalata” in senso dispregiativo – rivendicano la necessaria sovversione. Quando ad essere negato è il diritto di esistere, la sua prima rivendicazione è la visibilità. Ma l’estetica “carnevalesca”, che da parte dei Pride è positiva è non può essere ritenuta un’offesa, ha anche alle spalle la storia delle lotte del movimento LGBT.
Nella notte tra il 27
e il 28 giugno 1969 la polizia newyorkese faceva irruzione per una retata
in un locale del Greenwich Village, lo Stonewall
Inn in Christopher Street. Diversamente dalle consuete retate, questa
avrebbe scatenato una rivolta in Christopher Street e una rivoluzione nella
popolazione LGBT statunitense e non solo.
Lo Stonewall era una rarità sia come locale apertamente accogliente persone
omosessuali, sia perché popolato dalle
categorie più povere e marginalizzate della minoranza LGBT: transgender,
drag queens, drag kings, senzatetto, lesbiche butch e uomini effeminati, gigolò;
la clientela era anche molto variegata per etnia.
Negli anni del maccartismo,
le minoranze sessuali erano bollate come
“antiamericane” per la loro diversità e quindi pericolose per la sicurezza
nazionale, le persone schedate, le pubblicazioni delle loro organizzazioni
censurate; le amministrazioni locali facevano a gara nelle purghe chiudendo
locali gay-friendly e gettando alla gogna gli avventori.
È del 1952 la classificazione dell’omosessualità
come malattia mentale nel Manuale
Diagnostico e Statistico (DSM) dell’American Psychiatric Association, dove
sarebbe rimasta fino al 1974 malgrado già nel 1956 una ricerca di Evelyn Hooker
mostrasse come il benessere psichico di omosessuali ed eterosessuali fosse del
tutto paragonabile; infatti gli studi omofobici, funzionali alla legittimazione
di politiche discriminatorie, avrebbero avuto ancora lunga fortuna. Utile
ricordare che la storia della liberazione delle minoranze LGBT non segue un
progresso lineare bensì alti e bassi corrispondenti all’oscillare di concezioni
culturali e conseguenti condizioni materiali.
I movimenti omofili, a partire dalla Mattachine Society di Los Angeles e la Daughters Of Bilitis di San Francisco e poi diffusi in vari stati, reagirono organizzando le persone gay e lesbiche in una rete di supporto e di spazi di socialità sicuri. I primi obiettivi di organizzazione politica, istruzione e assistenza legale non mancarono di essere considerati troppo radicali e finirono per essere riconvertiti in ambizioni di assimilazione e rispettabilità, per una strategia di confronto ragionevole con il resto della società, al punto che le manifestazioni di alcuni gruppi locali contro i campi di prigionia cubani o le discriminazioni sul posto di lavoro negli Stati Uniti scandalizzarono parte degli stessi movimenti.
Transgender, travestiti, drag queens, drag kings, coloro che sfidavano le aspettative di genere erano sia una minoranza nella minoranza LGBT, sia la componente più visibile di questa, cosa che ne faceva contemporaneamente il gruppo più debole e il più colpito; la loro inassimilabilità minava anche la prudente strategia di assimilazione complessivamente preferita dal movimento e la sintonia tra le diverse componenti non era sempre scontata.
La concezione degli strumenti di protesta e di azione politica mutò negli anni ’60, tra influenze culturali hippy e movimento contro la guerra in Vietnam, trasformando gradualmente anche l’azione del movimento LGBT e diffondendo le prime rivolte contro gli abusi delle forze dell’ordine.
Harlem e il Greenwich Village ospitavano un’ampia popolazione di «donne dai capelli corti e uomini dai capelli lunghi», come li descrivevano i giornali locali, fin dalla fine della Prima Guerra Mondiale, quando coloro che avevano servito nell’esercito vi avevano trovato quartieri di una grande città alla portata delle loro tasche. Qui nel corso dei decenni si era sviluppata la sottocultura omosessuale, paradossalmente avvantaggiata dal proibizionismo che vietando il consumo di alcolici tanto quanto altri “comportamenti immorali” aveva incoraggiato il carattere LGBT-friendly dei locali clandestini, del resto così numerosi da non poter essere tenuti sotto controllo dalle autorità. La reazione al maccartismo aveva suggellato il carattere di ribellione artistica e non solo del tessuto del Greenwich Village e, quando negli anni ‘60 una nuova ondata di repressione spazzò la città di New York, il persistere dei suoi bar.
Le licenze per la somministrazione di alcolici erano ancora discrezionali ed usate come strumento di controllo sui locali potenzialmente “indecorosi”. Ancora come durante il proibizionismo, a garantire l’equilibrio tra austerità politica ed espansione capitalistica era il crimine organizzato, non perseguito direttamente dal maccartismo e anzi tollerato, che gestiva i bar (non necessariamente trattando bene gli avventori, anzi) e preveniva le retate corrompendo le autorità. La popolazione LGBT, legata a quei bar come spazi relativamente sicuri, era perciò stretta tra il potere mafioso e la repressione del potere costituito.
Secondo lo storico David Carter, tra le cause dell’improvvisa stretta sullo Stonewall ci sarebbe il naufragare di un accorto tra la polizia e la mafia per fare fortuna in borsa ricattando gli avventori dell’ambiente di Wall Street.
[continua nei prossimi giorni]
Immagine di Klaus Berdiin Jensen (dettaglio) da flickr.com
Studia scienze naturali all’Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.