L’ultimo film, I Figli del Fiume Giallo, riassume magistralmente la poetica del regista cinese
Bastano i nove lungometraggi realizzati in oltre venti anni di carriera per annoverare Jia Zhangke fra le figure più rilevanti di sempre del cinema cinese. Dai bozzetti neorealisti di Xiao Wu (1997) e Unknown Pleasures (2002), fino alle epopee postmoderne di Al di là delle Montagne (2015) e I Figli del Fiume Giallo (2018), Jia si è dimostrato il regista della Sesta Generazione più abile nel cogliere le contraddizioni di una Cina in transizione e nell’analizzare e descrivere in maniera asciutta ed impietosa la nuova società cinese, sconvolta dalle riforme economiche degli anni novanta e dall’apertura ai mercati internazionali. Se Zhang Yimou, Chen Kaige e gli altri registi della Quinta generazione polemizzavano sulle fallite promesse di libertà e modernizzazione del comunismo, la critica di Jia Zhangke è al contrario rivolta al degrado sociale, culturale e persino etico che l’introduzione delle logiche capitaliste e la diffusione dei valori occidentali hanno comportato.
Già The World (2004), film con il quale Jia esce dall’underground per entrare nel circuito dei film approvati dallo Stato, mette in scena lo squallore materiale ed esistenziale di una ballerina che lavora all’interno di un parco a tema che riproduce tutto il mondo in miniatura. Emerge l’amara contraddizione fra una vita miserabile fatta di turni di lavoro massacranti in un non-luogo alienante (fra dormitori fatiscenti, speculazioni edilizie e turismo selvaggio) e il nutrirsi di sogni e desideri effimeri tipici di una gioventù globalizzata.
I primi importanti riconoscimenti iniziano ad arrivare con Still Life (2006), Leone d’Oro a Venezia, in cui si narra la struggente ricerca condotta da Han Sanming di sua moglie, che lo ha abbandonato sedici anni prima, portandosi via la figlia. Paesaggi desolati, nature deturpate, giganteschi e anonimi cantieri, titaniche costruzioni in cemento e acciaio, catturate con campi lunghi, cifra stilistica che contraddistingue l’estetica di Jia, fanno da contorno a una storia che ha l’ambizione di portare sullo schermo la brutalità e la spersonalizzazione dei legami affettivi contemporanei. Più ambizioso e forse anche più didascalico nel suo volere mettere in scena la smania di arrivismo e la perdita di riferimenti identitari da parte di una nuova generazione di giovani cinesi è invece Al di là delle montagne (2015) che si conclude con la potentissima scena di un ballo tanto pacchiano quanto disperato sulle note di Go West dei Pet Shop Boys.
Letta in questa prospettiva, non risulta particolarmente difficile comprendere come l’ultima fatica di Jia, I Figli del Fiume Giallo (2018), rappresenti un punto di arrivo nel percorso artistico del regista cinese. Ritroviamo in questa ambiziosa e stupefacente pellicola tutte le scelte estetiche e i messaggi socio-politici a cui Jia ci ha abituati. Abbracciando un arco temporale di diciassette anni, diviso in tre sequenze (2001, 2006 e 2018), Jia mette in scena la storia d’amore fra Qiao (una bravissima Zhao Tao) e Bin (Liao Fan) sullo sfondo di una Cina in una fase di febbrile modernizzazione e di rapidissima trasformazione. Presentata da alcuni per questioni commerciali come una vicenda gangster, dato che Bin è appartenente alla criminalità organizzata del jianghu (una traduzione letterale del titolo originale sarebbe infatti “figli e figlie del jianghu”), il film è piuttosto un’epopea sulla Cina contemporanea che prende le mosse da Datong, città dello Shanxi nel pieno della crisi del settore minerario che attraversa la regione (luogo di nascita dello stesso Jia) a cavallo fra anni novanta e gli inizi del nuovo millennio. L’influenza del cinema di Hong Kong si ritrova nei campi lunghi con cui vengono tratteggiati i fatiscenti quartieri operai e nelle bische clandestine in cui, fra tornei di Mahjong e giochi d’azzardo, si intrattiene una gioventù perduta, figlia di operai ma ormai senza prospettive e futuro. A lottare non è rimasto nessuno, se non l’anziano padre di Qiao che con un sermone radiofonico invita i compagni proletari alla rivolta contro i capitalisti che chiudono le miniere ma che come unica risposta riceve solo le disilluse e ciniche parole della figlia mentre toglie la corrente alla sua radio: “papà, torniamo a casa”.
La vicenda centrale del film si sviluppa attorno al tema del viaggio, intrapreso da Qiao per andare alla ricerca del fidanzato Bin, sparito dopo che lei ha dovuto passare un periodo in carcere per coprirlo. Jia indugia con maestria sui paesaggi deturpati, su stazioni ferroviarie grigie e spente e sui giganteschi cantieri metafora di una Cina in perenne fermento e trasformazione. Si ritrova tutto il lugubre squallore tratteggiato su Still Life, ripreso con meno autocompiacimento ma con altrettanta potenza visiva. Le tre gole sul fiume azzurro riplasmate completamente dall’intervento umano tornano a rappresentare plasticamente lo sforzo sovraumano e prometeico di una Cina alla frenetica rincorsa delle opulente società occidentali. Ma la natura plasmata dall’uomo si fa anche metafora dello spirito umano plasmato dalle forze produttive capitalistiche. Nel suo viaggio dantesco Qiao incontra personaggi spettrali, esseri viscidi e meschini fra cui si possono annoverare ladri, speculatori, millantatori, arrivisti. Con una brutalità e una semplicità sconvolgenti, Jia descrive una società in cui tutto ruota attorno al profitto e in cui le logiche mercantilistiche si insinuano in ogni anfratto della vita collettiva. In un contesto di totale scollatura del legame sociale, anche Qiao è chiamata a usare espedienti, trucchetti e piccoli inganni per salvarsi, lei che non ha soldi e che ha intrapreso un viaggio lunghissimo solo per sentirsi dire di persona da Bin il motivo per cui l’ha lasciata scappando via mentre lei era in carcere per lui.
Pur essendo nati nella stessa città e nello stesso, degradato, contesto sociale, fra loro sorge quel tipo di incomunicabilità totale che si instaura fra chi viene da mondi diversi. Se Qiao è infatti l’ancoraggio a una tradizione ancora viva ma che sta piano piano scomparendo, Bin rappresenta in pieno il nuovo spirito dei tempi, uno spirito pragmatico, individualista, edonista. La sua è un’identità liquida propensa a schivare ogni forma di attaccamento e a vivere nell’indeterminatezza. L’abbandono non può essere spiegato, come se mancassero le categorie linguistiche, il retroterra culturale per poterlo comunicare. L’addio resta qualcosa che tutt’al più può avvenire tramite un freddo e distaccato messaggio su WeChat. La totale mancanza di contatto fisico fra i due durante tutto il film, rende in maniera estremamente vivida questa lontananza irricucibile, che è anche quella della Cina con il suo passato. Significativo da questo punto di vista come l’unico contatto fisico di Qiao avvenga su un treno con uno sconosciuto che millanta di aver messo su un impresa innovativa nell’ambito turistico.
Dalle baracche degli operai di Datong fino agli avveniristici centri finanziari dell’Hubei, dai pacchiani dancefloor di provincia fino ai raffinati ristoranti per nuovi ricchi, dalla continua sovrapposizione fra vecchi rituali scaramantici e stili di vita postmoderni, fra luoghi che non si capisce se siano in rovina o in costruzione, Jia rappresenta in maniera acuta una Cina in crisi di identità.
I Figli del Fiume Giallo rappresenta con ogni probabilità la summa della poetica del regista dello Shanxi, ormai non più solo acuto descrittore della società cinese, ma anche uno dei più abili critici della società consumista. Parlando della sua Cina, Jia parla a tutti noi e a tutto il marciume al quale siamo sempre più assuefatti. La fredda violenza del suo messaggio, che sa alternare registri grotteschi, drammatici e tragicomici in perenne bilico fra sublime e pacchiano, ci invita a riflettere sulle distorsioni e le oppressioni che caratterizzano la nostra epoca.
Immagine di Marco Albanese da www.wikipedia.org
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.