Mentre sui campi della Normandia i leader dell’Occidente ricordavano il 75° anniversario dello sbarco, nel tentativo di rinsaldare i legami atlantici nell’era Trump, a San Pietroburgo si ritrovavano i due vincitori della Seconda guerra mondiale non invitati in Francia, ossia il Presidente russo e quello cinese.
L’intesa Russia-Cina è stata legata, nelle dichiarazioni ufficiali, all’impegno per rafforzare la stabilità internazionale e a un’integrazione economica che possa rendersi sempre più indipendente dal dollaro.
Due giorni dopo gli Stati Uniti di Trump e il Messico di López Obrador hanno siglato in extremis un accordo sull’immigrazione che ha evitato la guerra commerciale, mentre, una settimana prima, il Presidente nordamericano aveva pesantemente ingerito negli affari interni britannici, sostenendo la corsa alla premiership di Boris Johnson, indicando Nigel Farage quale negoziatore con la UE e mostrando la volontà di dare la sanità pubblica del Regno in pasto ai capitalisti d’oltreatlantico.
In questo contesto il vertice russo-cinese acquisisce un aspetto sistemico di contrasto all’imperialismo, economico e non solo (Venezuela), espresso dall’amministrazione di Washington.
Piergiorgio Desantis
Perfino negli Stati Uniti si parla ormai, non solamente di mondo multipolare, ma anche di secolo asiatico (Parag Khanna, Il secolo asiatico?, Fazi editore). Si osserva non solo lo spostamento del PIL da Occidente a Oriente ma anche la compenetrazione di intenti e di interessi nell’area di riferimento. La politica estera dell’amministrazione americana in carica sta cementando ancora di più alleanze in campo commerciale, tecnologico, delle telecomunicazioni, etc tra potenze di primo e di secondo piano della zona. A questo punto, viene da chiedersi quanto potrà andare avanti questo isolamento americano (con l’esclusione di pochi alleati) che, al di là del breve periodo, può essere solamente foriero di crisi interne e internazionali. In tutto ciò continua a essere completamente assente l’Europa vero ectoplasma politico che si aggira senza meta.
Alex Marsaglia
Che gli Stati Uniti siano ai ferri corti in economia non dovrebbe più essere un mistero dopo aver fatto tremare il mondo intero con il tonfo di Lehman Brothers di ormai undici anni fa. La risposta a questo tracollo del principale polo imperialista sta nella crescita delle superpotenze asiatiche che hanno risentito solo marginalmente della crisi economica mondiale e hanno lavorato in questi anni per erodere il ferreo dominio degli Stati Uniti nel mondo. Non è più un mistero nemmeno la politica isolazionista degli Stati Uniti, una politica che storicamente è stata adottata in fasi di estrema debolezza per tentare di ottenere un nuovo slancio.
È tuttavia molto difficile concepire un nuovo slancio per gli Stati Uniti. Anche con la Brexit, finché durerà l’Unione Europea difficilmente ci saranno politiche estremamente favorevoli al gigante malato nel vecchio continente. D’altra parte anche con un ipotetico crollo dell’Unione Europea non è affatto detto che ad avvantaggiarsene non siano i russi. Insomma, l’imperialismo statunitense è un malato terminale che per sopravvivere sceglie il coma nella speranza di risorgere un giorno. La scelta di una nuova guerra tecnologica al gigante Huawei sembra solo l’ennesima provocazione da parte dell’oligarchia economica che detiene il potere nella più antica democrazia del mondo. Un colpo sparato a salve se si pensa alle innumerevoli armi di ricatto che la Cina potrebbe sfoderare verso gli Stati Uniti, ma la Repubblica Popolare sembra decisamente interessata più a costruire nuovi mercati anziché a demolirli. E questa, oltre ad essere una lezione alla cosiddetta democrazia più antica del mondo, è anche una lezione verso chi ha basato il proprio concetto di libertà politica sulla libertà di mercato trovandosi poi costretto dalle circostanze storiche a negarla inevitabilmente.
Jacopo Vannucchi
Per le celebrazioni del 65° anniversario della Vittoria, il 9 maggio 2010, le autorità russe avevano invitato ufficialmente i capi di Stato o di governo non solo delle altre potenze vincitrici ma anche di Paesi sconfitti, come la Germania, o geopoliticamente distanti, come la Polonia e Israele.
Gli inviti furono in parte declinati o derubricati; in seguito, l’esplodere di alcune crisi regionali (le “primavere arabe”, l’Ucraina) determinò la rottura di questo filo.
È perciò tanto più sgradevole l’arroganza con cui i Paesi occidentali escludono oggi la Russia dalla celebrazione dell’apertura del secondo fronte in Europa nel giugno 1944. Secondo la CNN, un medium decisamente non trumpiano, il Presidente Usa ha ricevuto dalle controparti europee «una lezione di storia» sulle «alleanze che hanno mantenuto la pace globale per tre quarti di secolo», costruite attorno all’America «maggiore potenza mondiale e garante della democrazia occidentale» ( leggi qui )
Chissà se in queste “lezioni di storia” viene ricordato come l’Urss fermasse a Stalingrado intere armate tedesche, mentre in Africa i britannici arrancavano contro un pugno di divisioni tedesche e italiane? O che l’Operazione Overlord in Normandia si svolse in contemporanea con l’Operazione Bagration a Est, in una morsa a tenaglia contro il Terzo Reich?
L’incontro Putin-Xi può sembrare il congiungersi di due opposizioni al predominio Usa esercitate finora in modo diverso. Se il fronte cinese è stato soprattutto quello di difendere l’integrazione globale del mercato contro le sirene protezioniste di Trump, Putin al contrario ha sostenuto non pochi movimenti che, almeno a parole, diffondono proposte di nazionalismo economico. D’altro canto, in politica internazionale è stata la Russia a sostenere più fortemente l’offensiva imperialista, con la Repubblica Popolare Cinese a fornire un supporto più silenzioso e dietro le quinte, all’Onu ma non solo (si pensi al ruolo preponderante negli scambi commerciali col Venezuela).
Quali ricadute per l’Europa? Destinata a restare terreno di battaglia fra due blocchi? Il tentativo di Macron di creare un esercito europeo fu oscurato in pochi giorni dal subitaneo esplodere della rivolta dei “gilet gialli”, mentre la Germania è in cerca di una nuova leadership.Gestire
Alessandro Zabban
Per gli USA è sempre valsa la regola che la miglior difesa è l’attacco. Mentre persino il Fondo Monetario Internazionale guarda con preoccupazione alle dinamiche sociali ed economiche statunitensi (crescita del PIL ma aumento della povertà, erosione della mobilità sociale, polarizzazione della ricchezza e aumento del debito pubblico), Trump continua nella sua politica aggressiva nei confronti di mezzo mondo. Dopo aver generato il sistema quadro di una globalizzazione iniqua, feroce, ingiusta e insostenibile, ora gli Stati Uniti iniziano a perdere al loro stesso gioco e provano maldestramente a rovesciare il tavolo. Se le vecchie brame imperialiste restano ancora in auge (Corea del Nord, Venezuela e Iran finiscono a rotazione nel mirino di Trump), lo strumento principale è sempre quello della ritorsione economica. Ma quando hai davanti due superpotenze come Russia e Cina questo gioco appare estremamente rischioso.
La guerra economica americana di stampo neo-protezionista non sembra per ora dare ragione a Trump (anche la vicenda messicana si è conclusa sostanzialmente con un nulla di fatto dopo che le borse di tutto il mondo hanno registrato grosse perdite) ma sta comunque producendo i suoi effetti, per lo più collaterali. Uno dei più interessanti è il progressivo rafforzamento della sinergia politica ed economica russo-cinese, tanto che ormai si può parlare di un vero e proprio centro di potere alternativo alla dominazione statunitense. Attorno a questo polo si stanno progressivamente avvicinando sempre di più paesi di una certa rilevanza storicamente in rotta con l’Impero (Iran) o che hanno trovato un’opportunità di sviluppo nella Nuova Via della Seta (Pakistan). Mentre l’Africa subsahariana sta crescendo a ritmi frenetici grazie all’impulso degli investimenti cinesi, in una prospettiva forse neocoloniale ma molto meno predatoria che in passato, Trump si concede il lusso di minacciare un alleato storico e membro del Nafta come il Messico e di inveire contro l’Unione Europea in merito alla Brexit, tanto da far sussultare persino i servili tecnocrati di Bruxelles. Insomma abbiamo la fotografia di un Trump che aveva promesso l’isolazionismo, ma che per ora rischia di ottenere solo l’isolamento.
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