Autonomia differenziata o egoismo regionale?
Scenari e rischi di un prossimo precipizio
La Lega, fresca vincitrice delle ultime elezioni europee, impone, ormai da tempo, i principali temi su cui verte il dibattito politico italiano. Tra gli altri, il ministro Salvini oggi accelera sulla cosiddetta autonomia differenziata. Per capire di ciò che si tratta, tuttavia, è necessario fare un salto indietro nel tempo e, precisamente, alla riforma del titolo V della Costituzione, varato con legge costituzionale n.3 del 2001 da parte del centrosinistra.
È l’articolo 116 III comma, Cost., che, riformato, attribuisce la possibilità alle regioni a statuto ordinario di richiedere nuove “forme e condizioni particolari di autonomia”. Trattasi di un’assunzione di nuovi poteri in materie assolutamente essenziali; possono venire oggi assegnati alle regioni alcuni tra quelli che prima erano di esclusiva pertinenza statale: abbiamo l’istruzione, la tutela dell’ambiente, la giustizia (limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace). A questi si aggiungono anche tutte le materie in cui era prevista una competenza concorrente tra Stato e Regione, tra le altre: rapporti internazionali e con l’UE, commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro, ricerca scientifica e tecnologica, tutela della salute, energia, previdenza complementare e integrativa, grandi reti di trasporto e navigazione (solo per fare qualche significativo esempio).
Da una parte abbiamo, quindi, una riforma del 2001 in cui, in filigrana, si intravede come l’egemonia leghista venga ormai da lontano (forse anche precedentemente al crollo della Seconda Repubblica) e si sia facilmente imposta come senso comune; a ciò si aggiunga una sostanziale subalternità di pensiero nei confronti di spinte centrifughe e reazionarie. Per contenerle si è prediletto l’utilizzo di scorciatoie per tentare un recupero di consenso effimero e con risultati che definirli disastrosi non è esagerato. Il disastro, tuttavia, non è solo e propriamente politico, perché ha relegato le forze democratiche saldamente all’opposizione per un bel po’ di anni (se non ci saranno grossi cambiamenti), ma è anche un’autentica catastrofe giuridica. Si era già in presenza di una riforma confusa e raffazzonata (i tempi della legislazione e delle riforme mal si coniugano con la fretta delle scadenze elettorali) con la quale i conflitti di poteri tra Stato e Regioni sono all’ordine del giorno (in particolare nelle materie concorrenti ma non solo); con l’aggiunta anche del regionalismo differenziato, tutto ciò non può che preludere ad un ulteriore aggrovigliarsi tra competenze spettanti a enti di medesimo o di diverso livello.
Tuttavia, tutto induce anche a pensare che verrà comunque alla luce una nuova forma ibrida di Stato (ma non ci sarebbe stato bisogno di almeno una riforma organica?) in cui vi saranno almeno tre livelli di regionalismo:
- regioni a statuto ordinario (come da poteri ripartiti da riforma del 2001);
- regioni a statuto speciale;
- regioni a statuto ordinario con autonomia differenziata.
Queste ultime assumeranno poteri così ampi da scavalcare probabilmente anche le penultime.
C’è, quindi, la possibilità concreta di finire in un dirupo ma, mentre cadiamo, è almeno il caso di interrogarsi e di riflettere oltreché di opporsi strenuamente. L’attuazione del comma III dell’art. 116 non è come una maledizione oscura della magia nera di Harry Potter ma tutto prende il via in data 28 febbraio 2018, con le elezioni politiche che si sarebbero svolte appena quattro giorni dopo. Il governo Gentiloni, in piena campagna elettorale, conclude tre accordi preliminari con Veneto, Lombardia e Emilia Romagna per concedere maggiori poteri alle medesime. Questi accordi sono subito epitetati da Gianfranco Viesti, come una forma di secessione dei ricchi[1], formula assai appropriata e subito ripresa da tanti costituzionalisti tra cui anche Massimo Villone. Si fa riferimento, innanzitutto, alla frantumazione, per chi scrive oggettiva, di politiche necessariamente nazionali. A tal proposito, è anche da segnalare che l’autonomia differenziata è stata chiesta, per alcune materie, anche da parte del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca nel febbraio di quest’anno, esplicitando anche le motivazioni della richiesta e la linea perseguita dal suo governo regionale ovvero “difesa dell’unità nazionale, parità di condizioni per tutti i cittadini italiani, livelli di prestazione uguali per tutti[2]”, vincendo, tra l’altro, anche il primo premio per il maggior numero di ossimori in una sola frase.
Vale la pena anche di immaginare un paio di scenari possibili che potranno presentarsi con i poteri aggiuntivi alle regioni che oggi chiedono l’autonomia differenziata. Partendo, ad esempio, dalla materia della tutela e sicurezza del lavoro, l’attribuzione esclusiva regionale può solo far presagire ai futuri livelli differenti nelle diverse regioni (cosa che avrebbe profili nettamente anticostituzionali) ma anche al progressivo, conseguente smontaggio del contratto collettivo nazionale di lavoro come strumento di progresso, di emancipazione e di sviluppo di tutti i lavoratori italiani.
In materia di istruzione, inoltre, si prospetta un’ulteriore differenziazione dei programmi scolastici, delle discipline oggetto di studio ma soprattutto un’iniqua e inefficiente ripartizione di risorse economiche fra le regioni.
Infatti, la finalità manifesta di questa riforma è quella di trattenere la maggior parte delle tasse riscosse in ambito regionale ossia quello che in altri termine si definisce come residuo fiscale. Come dice il professor Viesti, quest’ultimo “è una stima, non una dato oggettivo. Essa viene compiuta sottraendo dalla spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio[3]”. Quindi, oltre a essere un calcolo difficilmente determinabile, si verificherà un ulteriore aggravarsi del divario tra regioni del Nord e regioni del Sud: per ragioni ormai purtroppo consolidate, lo sviluppo economico nazionale si è concentrato soprattutto al Nord. Pertanto, quest’ultimo, con l’introduzione anche del regionalismo differenziato, potrebbe usufruire di ulteriori maggiori disponibilità economiche, lasciando arrancare e arretrare le altre regioni d’Italia. Potrebbe essere quasi inutile ricordare che il relativo benessere di cui gode una parte significativa di persone residenti al Nord siano dovute anche a fenomeni di migrazione interna e esterna di forze umane che partono anche dal Sud Italia (e non solo); ma, tuttavia, chi scrive si domanda anche quale tenuta e equilibrio tra poteri possa avere uno Stato nazionale che si fonda sull’egoismo finanziario e sulla chiusura regionale in materie di rilevante interesse nazionale. Si determina e si allarga ulteriormente uno scenario in cui giovani e non solo avranno quale unico sbocco quello di emigrare altrove. Tutto ciò favorisce e approfondisce la polarizzazione tra regioni che pur fanno parte dello stesso Stato. Si è già scritto che tale innovazione legislativa andrebbe incontro a una grande difficoltà di gestione e di funzionamento, tuttavia, si verificherebbe una polarizzazione non solo tra regioni collocate diversamente a livello geografico, ma si determinerebbe anche una concentrazione di risorse e un aumento delle già ampie diseguaglianze tra persone che vivono nella stessa regione. Ad esempio, con un sistema sanitario non più nazionale ma differenziato che soffre da tempo di falle sempre più evidenti e persino volute, le persone con un tenore economico alto potranno continuare a curarsi anche in strutture private, mentre una percentuale sempre in aumento (l’Istat parla di almeno 4 milioni di persone[4]) rinunceranno alla cure per la propria salute. È ancora una volta il trionfo del modello neoliberista che determina la privatizzazione dei servizi e dei beni pubblici essenziali seguendo l’onda lunga che si origina dagli anni Ottanta del secolo scorso. È un modello che stride e confligge con i principi fondamenti della nostra Costituzione, ma è ancora il modello dominante, purtroppo.
Merita una riflessione anche il procedimento legislativo previsto per l’attribuzione dei poteri aggiuntivi alle regioni ovvero quello di speciali commissioni paritetiche Stato-Regione. Questi organi stabiliscono le competenze e prendono decisioni non solo dal punto di vista normativo ma anche finanziario. A seguito di intese tra i due livelli, queste ultime sono vincolanti per un Parlamento che può solamente respingerle o approvarle con legge ordinaria a maggioranza assoluta. Non è ammessa la possibilità di modificarle o integrarle se non con il consenso delle Regioni interessate e, inoltre, non è ammessa neanche la possibilità di referendum abrogativo. Ancora una volta, quindi, si svuotano con estrema facilità la centralità e i poteri del Parlamento, cosa che, tra l’altro, non è più una novità ma solo una conferma.
Sono evidenti da diversi punti di vista tutti i limiti, le aporie e i contrasti, quasi macroscopici e volutamente manifesti di questa riforma con la nostra Costituzione. Con ogni probabilità la Corte Costituzionale avrà un grandissimo lavoro da fare con questa rilevante modifica dei poteri e diversi rilievi anticostituzionali sortiranno facilmente fuori. Tuttavia, sarebbe necessario per le forze (partiti, sindacati e associazioni) che hanno ancora come riferimento ideale la Costituzione (e che, tuttavia, nel Parlamento e nella società sono in evidente difficoltà) di opporsi al modello delle piccole patrie[5] [6] non solamente attraverso la denuncia di tutti i rischi possibili o con paragoni tra il presente e un passato assai fosco di oltre settant’anni or sono. La denuncia, infatti, è ancora un esercizio valido ma non più sufficiente (vedasi i pessimi risultati alle elezioni europee), ma è necessario anche avere un progetto complessivo di società, di redistribuzione delle risorse e di attuazione della nostra Costituzione. Abbiamo visto che gli interventi sulla Costituzione sono stati vari nel corso del tempo e assai discutibili (si pensi anche ad esempio al pareggio di bilancio rapidissimamente assunto), pertanto, anche per chi si pone come obiettivo il rilancio della stessa e l’attuazione dei principi fondamentali sarebbe necessario esplicare, proporre correzioni e modifiche alle pessime riforme che ha dovuto subire la nostra Carta fondamentale. Non pare essere più il momento in cui si possa difendere l’intoccabilità della Costituzione (che è stata, già da tempo, toccata e taroccata) ma quello di rilanciare, far conoscere e dare battaglia per il progetto complessivo di democrazia, eguaglianza e diritti sociali e civili presente in essa.
[1] G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi?, Laterza, 2019
[2] Italia oggi, Anche la Campania vuole l’autonomia differenziata, 15 febbraio 2019 (vedi qui)
[3] G. Viesti, Ibidem, p.32
[4] La Repubblica, Liste d’attesa e problemi economici quattro milioni di italiani non si curano, 3 marzo 2019
[5] Carlo Galli, Ecco perché le piccole patrie possono distruggere lo Stato, 9 ottobre 2017 (vedi qui)
[6] Marco Bascetta, Il continente delle piccole patrie, Il Manifesto 19 gennaio 2016 (vedi qui)
Immagine da www.nypl.getarchive.net
A volte giurista, a volte demodé, sicuramente un lavoratore, certamente un partigiano.