Si è superata ormai la settimana, dall’ultimo appuntamento elettorale nazionale. In attesa dei ballottaggi si offrono tre possibili livelli di lettura. Quello europeo, con uno sguardo particolare a Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna. Quello nazionale, con un significativo mutamento del rapporto numerico tra 5 Stelle e Lega. Quello locale, con un recupero (non inedito) di un protagonismo dello scontro centrodestra-centrosinistra. Torniamo quindi a parlare di elezioni nella nostra rubrica a più mani.
Piergiorgio Desantis
A distanza di oltre una settimana dalle elezioni europee il quadro politico è allo stesso tempo chiaro e confuso.
È chiaro perché la maggioranza che si creerà a livello europeo è già in fieri e raggruppa, con ogni probabilità, popolari, socialdemocratici e liberali, nonostante l’ascesa della destra cosiddetta sovranista. Ci attendono ancora politiche di austerità, aggravate dall’ingresso in maggioranza dei falchi rigoristi della famiglia dell’Alde che accentueranno ancora di più le restrizioni legate ai parametri di stabilità che tristemente conosciamo. A ciò si aggiunga la nomina del successore di Mario Draghi, ovvero se sarà l’attuale presidente della Deutsche Bundesbank Jens Weidmann, ancor di più avremo a che fare con tempi difficili.
A sinistra, soprattutto in Italia, ancora non si è metabolizzata l’immensa legnata che ha colpito (pur se era prevista) e c’è grande confusione sotto il cielo. Apparte il PD che gioisce per il suo 22%, ovvero per il suo orto minoritario dinanzi alle praterie leghiste, a sinistra ancora non si capisce bene cosa si può fare e quali saranno gli sviluppi. Di certo una lista di sinistra che prende l’1,7% non fa neanche testimonianza ma tristezza.
Dmitrij Palagi
Il voto del 26 maggio ha cambiato molte cose in Italia, soprattutto rispetto al governo. Negli ultimi giorni di campagna elettorale giravano voci di sondaggi (non pubblicabili in Italia nei quindici giorni precedenti al giorno delle elezioni) secondo i quali la Lega sarebbe stata in calo. Così non è andata e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha chiesto ai due soggetti che compongono il governo di chiarire quali sono le intenzioni. La maggioranza del Parlamento rimane “patrimonio” di un Movimento 5 Stelle apparso comunque indebolito, anche se amministrative ed europee sono storicamente un campo in cui la “creatura di Grillo” non esprime il massimo delle sue potenzialità. Il Partito Democratico sembra ostinato a non scomparire, mentre il resto della sinistra italiana si conferma evaporata. Si salva qualche situazione locale, però guardando al Regno Unito di Corbyn, così come ai risultati di socialisti europei e del gruppo alla loro sinistra (GUE/Sinistra Europea), la sensazione è di un vecchio continente dove si vuole superare il sistema di cose presenti all’indietro. Ogni progettualità progressista manca di radicamento, sociale e teorico. Sbaglia chi si immagina una possibile ricostruzione solo dal basso. Sono tempi incerti e difficili. I migliori per dimostrare che non si ha voglia di arrendersi, i peggiori per chi spera di poter battere strade già conosciute.
Jacopo Vannucchi
Il dato più importante, nella nuova composizione del Parlamento Europeo, non è in sé il carattere minoritario dello schieramento sovranista e nazionalista. I gruppi ECR (Fratelli d’Italia, PiS polacco…), ENF (Lega, Le Pen, Alternative für Deutschland…) e EFDD (M5S, Brexit Party) hanno in totale circa il 23% dei seggi. Il Partito nazionale fascista ne aveva circa il 7% quando Mussolini giunse al potere. Ciò che rileva è il fatto che non si raggiunge una maggioranza neppure sommando a questi gruppi estremisti il dato del Partito Popolare Europeo. È dunque sfumato – per ora! – il tentativo di comporre una maggioranza di blocco tra centrodestra, destra e destra estrema. Una maggioranza si raggiungerebbe solo includendo i liberali, prospettiva quantomai peregrina considerando gli orientamenti europeisti di Verhofstadt e Macron.
Il maggiore esponente dell’appeasement popolare verso gli estremisti fu proprio Weber, il capogruppo uscente a cui ora il Capo di Stato francese sembra voler negare la Presidenza della Commissione, alleandosi in questo tentativo al gruppo socialista-democratico.
È sfumata anche l’ipotesi, prettamente numerica e non politica, di una maggioranza dal gruppo liberale a quello della sinistra, passando per socialisti e verdi. Le posizioni delle frange estreme di questo agglomerato non sono compatibili, ma la strada obbligata che si presenta alle forze principali – una coalizione tripartita, forse con l’appoggio dei verdi – presenta ora il rischio di schiacciare le posizioni di una sinistra che è già uscita ridimensionata dal voto. L’impressione è che, ad esempio in Germania Est, non pochi di quei voti siano finiti alla destra estrema. Un capovolgimento che dovrebbe interrogare sulle modalità dell’azione politica e della formazione di una coscienza, se non di classe, almeno popolare.
Per quanto riguarda l’Italia, apparentemente Salvini potrebbe passare all’incasso: far saltare il governo e proporsi per nuove elezioni alla guida di un blocco sovranista stampellato da Fratelli d’Italia e da Giovanni Toti (e, ufficiosamente, da CasaPound). Apparentemente perché l’ipotesi di un accordo PD-M5S per farlo beffardamente passare all’opposizione non è più del tutto derubricabile dopo l’elezione di Zingaretti alla guida dei democratici (en passant, l’unico partito “a sinistra del centro” ad aver passato la soglia di sbarramento). Da tenere d’occhio, sotto questo aspetto, anche le mosse di Fico che potrebbe tentare di spodestare Di Maio.
Ma i gruppi parlamentari PD sono quelli eletti nel 2018 e la linea anti-M5S di Renzi è ancora sufficientemente forte. Anche per Zingaretti sarebbero quindi più utili nuove elezioni, con gruppi parlamentari rinnovati e mani libere per trattative post-voto; se non fosse che il post-voto potrebbe consegnare un Parlamento a schiacciante maggioranza sovranista. Nel gennaio 2022 il Parlamento in carica (questo, se non sarà sciolto; altrimenti il prossimo) dovrà eleggere il nuovo Presidente della Repubblica: un appuntamento estremamente delicato per il quale, vista la bocciatura della riforma Renzi-Boschi e dell’Italicum, basterà il 50%+1. C’è da sperare che al Nazareno lo sappiano e si preoccupino di evitare un settennato in salsa sovranista.
Alessandro Zabban
Le elezioni europee segnano che a una disaffezione per i partiti tradizionali, non si accompagna un reale rifiuto per il modello politico ed economico che questi sostengono e promuovono. La crisi politica ed economica europea che non accenna a fermarsi, non ha portato i suoi cittadini ad esprimere in massa un rifiuto per il modello liberale dei trattati che la costituisce dalle fondamenta. Il successo dei liberali è da questo punto di vista emblematico di un ordine di dominazione all’insegna del totalitarismo mercantilista, appena scalfito da una critica esterna inefficace o messa surrettiziamente a tacere. Ma anche il relativo successo degli autoproclamati “sovranisti” e dei partiti ecologisti rientra nello schema generale di una politica che non vede alternativa al neoliberismo. Da questo punto di vista sono due facce della stessa medaglia: agire su alcuni aspetti (frontiere chiuse da una parte, green economy dall’altra) senza mettere in discussione il sistema complessivo che è però quello che con le sue logiche perverse e predatorie produce tanto i giganteschi fenomeni migratori che la ben più apocalittica distruzione ambientale.
Nel panorama europeo manca in realtà una prospettiva radicalmente altra. Difficile uscire dal realismo capitalista quando ci sei dentro completamente e ne hai interiorizzato schemi e dinamiche. La débâcle della sinistra in Europa non è dovuta certo al presentarsi come totalmente altro, piuttosto al fatto di essere rimasta intrappolata in una contraddizione irrisolvibile, quella di voler essere pragmatici senza poterlo essere. Un esempio è la discussione sull’Europa. Una prospettiva pragmatica suggerisce di volerla cambiare dall’interno perché uscirci di punto in bianco potrebbe avere delle conseguenze catastrofiche (isolamento internazionale, probabili sanzioni economiche, continue ingerenze estere). Ma come cambi concretamente l’Europa se per ridiscutere ogni trattato fondamentale hai bisogno del consenso di tutti i paesi membri? Si tratta della trappola in cui si è infilata Syriza. Uscire dall’Europa era un disastro, rimanerci una lenta agonia. Tertium non datur. Il popolo che non è poi così ignorante, intuisce questo circolo vizioso che non può essere certo risolto con la solita “analisi della sconfitta”.
Immagine da pxhere.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.