«Penso che ciò che sta succedendo ora è che la gente ha voglia di dimenticare. C’è stato il Vietnam, c’è stato il Watergate, c’è stato l’Iran – siamo stati sconfitti, ci hanno fatto pressione e per finire siamo stati umiliati. Penso che la gente abbia bisogno di provare sentimenti positivi nei confronti del loro Paese. Ciò che sta accadendo ora, a mio parere, è che questo bisogno – che è una cosa bella – viene manipolato e sfruttato. Vedi la campagna elettorale di Reagan in TV: “It’s morning in America”, è mattina in America. E ti viene da dire, beh, è mattina a Pittsburgh. Non è mattina sulla 125esima Strada a New York; è mezzanotte, ed è come se ci fosse una luna nefasta in alto nel cielo. Ecco perché quando Reagan ha fatto il mio nome in New Jersey l’ho percepita come un’altra manipolazione, e ho sentito il dovere di dissociarmi dalle parole gentili del presidente»
(Bruce Springsteen, Rolling Stone 1984)
Born in the USA
Bruce Springsteen
* * * * *
Tracklist:
1 Born in the USA
2 Cover Me
3 Darlington County
4 Working On The Highway
5 Downbound Train
6 I’m On Fire
7 No Surrender
8 Bobby Jean
9 I’m Goin’ Down
10 Glory Days
11 Dancing In The Dark
12 My Hometown
Musicisti:
Bruce Springsteen – Voce, chitarra, armonica
Roy Bittan – Piano, cori
Clarence Clemons – Sassofono, percussioni
Danny Federici – Organo, cori
Garry Tallent – Basso, cori
Steve Van Zandt – Chitarra, cori, mandolino
Richie Rosenberg e Ruth Jackson – cori
Max Weinberg – Batteria
Ascolta l’album qui
Premessa
A 5 anni da High Hopes, il 14 Giugno
uscirà Western Stars, album solista del quasi 70enne Bruce
Springsteen. A fine agosto 2019 è prevista l’uscita del film Blinded by the light,
basato sulle canzoni del Boss. Nel 2020 è previsto un ulteriore lavoro con la
E-Street Band che (finalmente) ce lo riporterà in un nuovo tour mondiale.
L’ultimo concerto che ho visto è stato il 10 giugno 2012 a Firenze in una
serata epica dominata da una pioggia torrenziale dove Springsteen ha suonato
per quasi 3 ore e mezzo memorabili.
Nell’attesa torniamo indietro nel tempo per scoprire il disco più noto del
cantante americano, di origini italiane: Born
in the USA.
Come dice Springsteen, “gli anni ’70 sono stati fondamentali. La guerra del Vietnam aveva dato a tutti una coscienza e una partecipazione attiva alla politica. Amavo la musica di Elvis Presley, la forza che sempre mi ha dato James Brown; vedevo e rivedevo Badlands di Terrence Malick; forte è stata l’influenza di Marlon Brando, di John Ford, di Scorsese, degli scrittori prediletti, come Flannery O’Connor del profondo Sud, di James M. Cain, Jim Thompson. E Allen Ginsberg, che iniziai a leggere solo dopo che aveva paragonato alcune mie canzoni ai suoi pensieri.”
Parte da qui Born in the USA. Un album rock graffiante che somiglia, concettualmente, alla canzone di Giorgio Gaber Io non mi sento italiano. Springsteen infatti parla degli effetti della guerra in Vietnam sugli americani, ma il presidente Reagan la usò per fini patriottici limitandosi al titolo del pezzo. Il cantante americano disse che lui si sente americano nel bene e nel male, ma che rifiuta categoricamente la manipolazione fatta dal suo Paese.
Dopo 35 anni, le cose non sono particolarmente cambiate.
Come disse la rivista Rolling Stone
nel 1984, “sebbene guardi a tempi
duri, a piccole persone in piccole città che si ritrovano a scegliere tra
andarsene o essere lasciate indietro, l’album ha uno spirito chiassoso e
indomabile”. E proseguendo: “Sebbene
i personaggi muoiano dal desiderio di ottenere una sorta di ricompensa dal
sogno americano, la voce esuberante di Springsteen e l’ondata della sua musica
li inducono a non arrendersi”.
Non a caso 7 singoli su 12 finirono
nella top 10 americana. Un record condiviso ancora oggi con Michael
Jackson.
Recensione
Dopo avervi descritto album sensazionali come Born
to run, Darkness
on the edge of town e The
River, non potevo non raccontarvi una pietra miliare come Born in the USA. 12 canzoni di rock usato come collante sociale per
unire le persone sia dal punto di vista sociale sia politico.
Il Boss infatti piace trasversalmente: a destra lo seguono perché credono nel
mito americano e Bruce per certi versi lo incarna, a sinistra poi lo amano
ancora di più. Springsteen proviene da una famiglia italo-irlandese del ceto
medio. Con passione e fatica è diventato la voce di riferimento. È un riflesso
della vita che la gente comune non avrà mai, ma i personaggi delle sue canzoni sono proprio gli alienati nell’epoca
post industriale. Anche questo disco ha come protagonisti operai disillusi
che hanno scoperto che la vita non è quella sognata da bambini.
Born in the USA è
un album di forte demarcazione tra i fan: c’è una categoria di persone che lo
odiano in quanto è il vero e proprio boom commerciale del Boss, dall’altra c’è
chi è rimasto folgorato dopo il mitologico concerto a Milano (Stadio San Siro)
del 21 giugno 1985. Non ero nato purtroppo, quindi non posso dire se all’epoca
avevano ragione i primi o i secondi. Però posso dire che è un album importante
che unisce entrambe le posizioni. Sicuramente è un album commerciale, però è
anche musica d’autore di gran livello. Le due linee di pensiero si possono
trovare nell’alternanza di pezzi di entrambi i tipi.
Quello però che voglio sottolineare di Bruce Springsteen è la capacità assoluta
di far bene sia sul versante
solista/acustico, sia come rockstar.
Torniamo qualche anno indietro. Dopo il successo di un disco mitologico come The river (1980), Springsteen scrive Nebraska (1982). Un album con canzoni folk dall’andamento lento che scavano nel profondo. Non è un disco per tutti, insomma. Un disco amaro, pessimista scritto in un periodo di riflessione e di depressione, come raccontato nell’autobiografia Born to Run. Suonato interamente con chitarra acustica e armonica. Mostra l’altra faccia del sogno americano: quella che ti annichilisce e ti butta a terra. Canzoni di denuncia come Johnny 99 e autentiche canzoni classiche come Atlantic City e Reason to believe. Senza dimenticare quel piccolo gioiello che dà il titolo al disco.
Un album doloroso, intimo, profondo che dà voce alle
minoranze: coloro che lottano per arrivare alla fine del mese e che combattono
contro la retorica e il male di vivere. Il regista e attore Sean Penn, che
andava a scuola con la sorella di Springsteen, produsse perfino un film
chiamato Lupo Solitario (1991)
ispirato alla canzone Highway Patrolman. I personaggi, le ambientazioni e lo
stile narrativo sono una trasposizione fedele della canzone, di cui il film
diventa omaggio ed estensione.
Terminato questo difficile momento, però arriva il botto.
Nonostante Bruce Springsteen avesse sempre messo in dubbio e
criticato il sogno americano, si realizzò il paradosso: diventò una rockstar
planetaria. Springsteen mostrò, suo
malgrado, che l’american dream era
possibile. Anche se non lo condivideva. Il ragazzetto del New Jersey
cresciuto in una famiglia di immigrati italo-irlandesi divenne miliardario. Il
4 giugno 1984 usciva Born in the USA,
settimo disco del Boss. Un’opera rock viscerale ad alta velocità che si ascolta
volentieri a volume alto. Sembra esser uscito da un giro in moto ai tempi di Easy Rider.
Numeri da capogiro: 15 milioni di dischi venduti solo negli Stati Uniti,
altrettanti nel resto del mondo. Springsteen battagliò parecchio insieme a Purple Rain di Prince nelle classifiche
di quel periodo.
In Italia più di lui vendette solo True Blue di Madonna (ma lei è una popstar, quindi la missione è più semplice). L’immagine del Boss con i bicipiti in bella vista è una delle icone della florida Mtv degli anni ’80, Senza dimenticare il lato B che campeggia sulla copertina del disco, davanti a una bandiera americana.
Personalmente questo disco lo amo parecchio. È splendido da
sentire allo stadio in mezzo a una selva di volti, gambe e braccia.
Ma attenzione questo disco non è per niente positivo, anzi è pieno zeppo di
contraddizioni, denunce, critiche velate, ma soprattutto è l’album che mette in guardia contro le manipolazioni.
Quella più nota è insita nella titletrack
del disco.
Born in the USA
Doc: Allora, dimmi, ragazzo del futuro… chi è il presidente degli Stati Uniti nel 1985?
Marty: Ronald Reagan.
Doc: Ronald Reagan?! L’attore?! E il vicepresidente chi è? Jerry Lewis?! Suppongo che Marilyn Monroe sia la First Lady! E John Wayne è il ministro della guerra!
Nel 1985 usciva quella pietra miliare del cinema chiamata Ritorno al Futuro. Il dialogo tra Michael J.Fox e Christopher Lloyd, sopra citato, rappresenta l’incredulità americana della scelta del popolo americano di eleggere presidente Ronald Reagan, attore hollywoodiano di film di serie B. Oggi molti politici italiani del centrodestra (tra cui Berlusconi) vorrebbero introdurre la “Flat Tax”, basandosi sull’amministrazione Reagan di quegli anni. Un provvedimento che pare non solo anacronistico, ma anche utilizzabile per togliere libertà alle persone usando il mito dell’abbassamento delle tasse come specchietto per le allodole.
Il perché di questa citazione la capirete tra poco. Questo film usava il rock ‘n roll come collegamento tra due periodi storici: gli anni ’50 e gli anni ’80. Numerosi sono gli artisti negli anni Ottanta che guardano alla decade di trent’anni prima con nostalgia e voglia di riscoperta delle fondamenta di una musica puramente americana. Tra questi c’è Bruce Springsteen che più volte ha dichiarato che Chuck Berry era tra i padri fondatori del rock (ricordate la memorabile scena in cui Marty suona nel 1955 Johnny B Goode, in un periodo dove la canzone non era ancora stata scritta?).
Molti non sanno che Born in the USA fu scritta nel 1981 per la colonna sonora di un film di Paul Schrader (sceneggiatore di Taxi Driver) che poi venne modificato. Poi quando il cineasta riuscì ad andare sul set nel 1987, Bruce gli scrisse Light of day per il film omonimo (con protagonista Michael J Fox di Ritorno al Futuro). Nel 1982 il Boss con la sua E-Street Band alzò il ritmo, tralasciando questa versione acustica che doveva finire in Nebraska. Divenne una hit planetaria due anni dopo. Tratta degli effetti della guerra del Vietnam sugli statunitensi. Il titolo trae in inganno sembrando un pezzo patriottico e nazionalista. Tuttavia questa interpretazione è totalmente errata.
Il presidente repubblicano Reagan volle utilizzare la canzone per la campagna elettorale fermandosi al titolo. Springsteen rifiutò: non solo perché è democratico, ma perché era frainteso il senso dell’intero album. Infatti era una canzone contro la manipolazione e contro determinate politiche (che verranno trattate dettagliatamente nel magnifico The ghost of Tom Joad nel 1995). E Reagan fu uno degli artefici. Ma ancora oggi il senso di questa canzone è travisato dai più: molti lo ritengono ancora un pezzo nazionalista ed imperialista a stelle e strisce. Erano i tempi di Rambo, per intendersi. Infatti Springsteen saliva sul palco con i bicipiti gonfi, la bandana in testa proprio per sfottere la cultura americana dell’epoca. Diventò un idolo in tutto il mondo grazie proprio a quest’equivoco. Anche se ancora oggi alcuni sporcano l’immagine di Springsteen definendolo emblema del rock reaganiano. Reagan fece la gaffe e involontariamente fece pubblicità, trainando l’uscita del disco.
Nello spettacolo teatrale Springsteen on Boadway, il cantante ha raccontato la vera storia
del pezzo (la
trovate qui). Nel 1980 si fermò con un amico a fare benzina. In una sorta
di autogrill trovò un volume chiamato Nato
il 4 luglio di un certo Ron Kovic. Un reduce della guerra in Vietnam.
Leggendo il libro, Springsteen rimase folgorato.
Ma Born
in the USA è soprattutto un tributo agli amici musicisti della rockstar che
combatterono in Vietnam, che poi non tornarono. Sembra di rivedere Il cacciatore di Michael Cimino.
In generale la canzone parla di persone di umili origini, di
“carne da macello” mandata in guerra e
persone lasciate sole una volta ritornate in patria. Questa gente imparava
la morte e l’amore, la sconfitta e l’inutilità della guerra. Se tornava a casa,
però, ad attenderla c’era solo la disoccupazione, il disinteresse per il suo
servizio alla Patria, le promesse mancate dei datori di lavoro, l’impotenza
delle associazioni di veterani. La sconfitta. Pura. Dura. Senza riscatto. Vi
siete dimenticati di me, di farmi parte del vostro sogno collettivo: eppure
sono nato negli Stati Uniti. È un grido in faccia quella canzone. Un
pugno dritto e massiccio sul naso.
La canzone divenne famosa in tutto il mondo grazie al lavoro superbo della E-Street Band: su tutti spiccano la
batteria martellante di Max Weinberg
e le tastiere di Roy Bittan. Il
sound anni ’80 perfetto unito a un pezzo antimilitarista che in tanti hanno
sottovalutato. Consiglio l’ascolto di questa versione live. La
vera immagine di Springsteen non è quella della rockstar con i bicipiti gonfi,
ma quella di un’artista a 360° impegnato politicamente. Peter Bogdanovich usò varie
canzoni del Boss nel film Mask – Dietro
la maschera (1985): Badlands, Thunder Road, The Promised Land, The River
e Born in the USA. La hit venne usata
anche da Michael Moore in Operazione
Canadian Bacon.
Cover me
Il brano in origine era destinato ad essere cantato da Donna Summer, ma il
manager John Landau convinse Springsteen ad inciderlo. Il suono è molto country
e come sound sembra uscire dal Sud degli Stati Uniti. Una canzone da saloon dei
vecchi film western che parla del potere salvifico dell’amore. Ovviamente non è
l’unica. Il narratore cerca di sfuggire dalla frenesia della vita, buttandosi
in una relazione con una donna.
Darlington county
Anche questa segue il filone della traccia precedente. È una ballata ispirata
dal nome della contea nel Sud Carolina. Nata a fine anni 70 durante la
registrazione di Darkness on the edge of
town, ecco il pezzo classico da vita quotidiana. Quello che ti dà la
carica, orecchiabile, a tempo medio. Assomiglia vagamente ai pezzi di John
Fogerty dei Creedence Clearwater Revival.
La canzone narra la storia di due amici in cerca di lavoro che partono da New
York diretti verso la Carolina del Sud. Ascoltano rock a tutto volume, poi
lungo il tragitto cercano di rimorchiare una ragazza. Uno dei due però viene
arrestato (non viene spiegato il perché), l’altro trova conforto in Dio.
La canzone è stata per diversi anni una presa di giro: i due ragazzi raccontano
alla ragazza che sono proprietari delle Torri del World Trade Center. Una balla
colossale. Dopo il 2001, il pezzo è stato cantato in vari concerti con grande
rispetto per gli avvenimenti dell’11 settembre. Springsteen ha spiegato che
l’album The Rising ha cercato di
colmare il vuoto dello shock
dell’attentato e che Darlington
County non vuole in nessun modo offendere nessuno.
Working on the highway
Ai tempi delle registrazioni di Nebraska, Springsteen scrisse una
canzone: Child Bride. Una ballata folk
ispirata dal film di Malick, La rabbia
giovane. Con la differenza che in questa hit il protagonista finisce in
carcere per aver portato via con sé la fidanzata minorenne. Non era la nipote
di Mubarak, tranquilli.Bruce non era convinto della canzone e la rifece più volte. Poi il sound
folk cambiò e divenne più pop rock. Il testo si concentra nella prima parte sul
lavoro in autostrada di un operaio attratto da una sposa bambina. Solo alla
fine si capisce che è ai lavori forzati.Probabilmente è la conseguenza
della vecchia canzone, ma Springsteen non ha mai chiarito la questione.La parte musicale sembra ispirarsi molto alle musiche anni 60 di Chuck
Berry, omaggiato in tantissimi concerti del Boss. Ma c’è anche molto Elvis
Presley. Ascoltate Mystery Train e
fatemi sapere.
Downbound train
In Italia intere generazioni della classe media negli anni 70,
soprattutto di sinistra, sono cresciute con La
locomotiva di Francesco Guccini. Il pezzo rappresentava la lotta di classe
e la lotta per la giustizia sociale. Questa canzone del Boss è un pezzo diverso
per tematiche, molto cinematografico, basato sui temi cardine della poetica del
cantante del New Jersey, ma per certi versi è l’altra faccia dell’amarezza del
ceto medio.Questo “treno che porta giù” springsteeniano è un pezzo sulla disillusione, sui momenti difficili. “Mi licenziarono giù alla falegnameria, il
nostro amore si deteriorò”. Quest’uomo della classe operaia aveva cambiato
3 lavori, poi la rabbia lo aveva portato a farsi arrestare.Mary e Joe (i nomi sono presi da The
River e Downbound Train) si sono
conosciuti quando erano poco più che dei ragazzini; si sono innamorati e hanno
avuto un figlio. L’innocenza e la spensieratezza hanno abbandonato la coppia
piuttosto in fretta, lasciando il campo a quelle difficoltà che un destino che
pesa come una maledizione gli ha messo di fronte. I due ragazzi sono stati
presi alla sprovvista dall’amarezza della vita: pensavano infatti di essere
immuni alle traversie che le altre coppie devono affrontare e che spesso sono
la causa di una sofferta rottura.
In Downbound Train ritroviamo Joe
ormai da solo che riflette su come la sua vita gli stia sfuggendo di mano
avendo ormai perso tutto ciò che aveva. Il nostro protagonista non si dà pace,
durante il sonno gli sembra di poter ribaciare Mary e una notte sente
addirittura la sua voce che lo chiama attraverso il bosco. Il buio avvolge Joe
e mentre questi cade piangendo in ginocchio, in lontananza risuona il fischio
di una locomotiva. Quella che Joe aveva scambiato per una luce in fondo al
tunnel (casualmente il disco successivo del Boss si chiamerà Tunnel Of Love che preannuncia la fine
del primo matrimonio di Springsteen) era solo un treno che gli arriva dritto in
faccia, calpestando ciò che resta dei suoi ricordi e delle sue speranze e lo
trasporta verso il basso, sempre di più.
I’m on fire
Dopo un pezzo riflessivo, ecco quello di rottura. Una “istant song” perfetta,
coinvolgente e ormai entrata nell’immaginario collettivo che prende spunto da Love me tender di Elvis Presley. La
combinazione di chitarra, batteria e synth raggiunge alte vette.
Chiaramente si parla di un’attrazione sessuale di un meccanico verso una
ragazza già fidanzata. L’ossessione verso questa donna è reale che sfocia quasi
in tensione. Nel videoclip è lo stesso Springsteen a fare l’attore. La cosa
suggerisce che questa istant song sia autobiografica. Dopo tutto chi è che non
ha mai provato qualcosa di simile?
Nel cinema la canzone è stata utilizzata da In
Country di Norman Jevinson (1989), in Ciao
Julia, sono Kevin, in Bedtime stories
e The hunter con Willem Dafoe. Il
pezzo è stato rovinato in 50 sfumature di
grigio. In Italia Nanni Moretti ha utilizzato la canzone per la colonna
sonora di Palombella rossa. Springsteen
concesse i diritti al regista italiano perché lo divertiva il contesto della
storia. Peccato che la pellicola trattava la crisi e la conseguente caduta
della sinistra italiana, incapace di capire i bisogni degli italiani. Nella scena in questione
Nanni Moretti chiede “quando entro?” In
mezzo ai litigi, un ragazzo dalla panchina mette I’m on fire e tutti si fermano ad ascoltare il pezzo del Boss,
prima di tornare in piscina. Come se fosse l’inno nazionale.
No surrender
Cosa sarebbe la E-Street Band senza
l’apporto di Steve Van Zandt? La risposta è in questa canzone.
Springsteen ironizza su un periodo di contrasti che sancì la rottura con il suo
amico chitarrista “Little Steven”. Il ritmo è alto e implacabile. Sicuramente
uno dei pezzi più belli e goderecci del disco. Steve allora partì per un’esperienza
solista (ricordate la hit
Bitter Fruit?) perché non
condivideva la linea del Boss. Dopo una decina di anni, nel 1995, però Van
Zandt tornò alla base e capì che aveva fatto un errore.
Bruce Springsteen non voleva mettere la canzone nel disco, ma fu proprio il suo
amico a volerlo. Contiene elementi fondamentali: il valore dell’amicizia vera e
il potere della musica rock sulla vita di un individuo. Secondo Springsteen
molte persone durante l’istruzione rimangono indietro per tanti motivi. Il rock
and roll ha liberato la sua coscienza. Infatti la frase ad effetto che sento
più mia è sicuramente: “We learned more
from a three-minute record / Baby,
than we ever learned in school.” (“Abbiamo imparato di più da una canzone
di 3 minuti, rispetto a quello che abbiamo imparato a scuola.”)
La musica è come la strada e si fa
scuola di vita. Dal punto di vista artistico, questa canzone è da ricordare
per la performance alla batteria di Max Weinberg che regala potenza inaudita e
sostanza. La canzone fu utilizzata da John Kerry nel 2004 per la campagna
elettorale dei democratici.
Bobby Jean
Ancora Steve Van Zandt è protagonista in questo pezzo. Prima di abbandonare la
band nel 1984, ecco che Bruce lo saluta con affetto. Il motivo dello scontro è
che Van Zandt non capiva la voglia di
Bruce di diventare rockstar. Secondo lui poteva vendere milioni di copie lo
stesso, vivendo più tranquillo. L’attrito fu soprattutto tra Steve e il
produttore del disco, Landau, che vedeva la possibilità di accrescere la fama
del Boss.
Bobby Jean è questo e molto di più. Un’amicizia
giovanile vera e sentita. Non a caso nei crediti del disco, Van Zandt appare
come coproduttore. Nonostante non avesse partecipato alle registrazioni, il suo
contributo fu fondamentale. Bobby Jean
è una storia on the road tra un ragazzo e una ragazza. Sempre in quello stretto
confine tra amicizia e amore reciproco.
I’m going down
Ha rischiato di non far parte del disco, ma poi è stata preferita a Pink Cadillac. La canzone ha un ritmo
martellante, orecchiabile e ripetuto che sembra attingere da Johnny Cash. Il
testo è ironico e disilluso, ma facilmente riscontrabile nella vita di tutti i
giorni.
Tema: la relazione di coppia. Svolgimento: “I’m
going down down down” (con l’ausilio del sax di “Big Man”).
Il protagonista si lamenta di come la passione con il tempo si affievolisce.
Poi arriva la freddezza e l’ostilità reciproca. Una sorta di Kramer contro Kramer in musica. Il punto
di vista è chiaramente maschile, quello femminile richiama le frasi sprezzanti.
Anche se non ci prove certe, la canzone anticipò la crisi del primo matrimonio
con Julianne Phillips. Cosa documentata nel disco Tunnel of love del 1987.
Glory days
Ecco il prototipo del pezzo perfetto con sound anni ’80. Un disco di vita
quotidiana trascinante, godereccio e non eroico. La canzone richiama l’incontro
con un compagno di scuola, Joe DePugh, promessa del baseball. La chiacchierata
ricordò a Springsteen il film Stardust
Memories di Woody Allen. Il protagonista, divenuto famoso, incontra un
compagno di scuola che fa il tassista. Ma c’è anche l’amico chitarrista Steve
Van Zandt che ritorna e che suona il mandolino. Si rievocano giorni di gloria
trascorsi intensamente, divertendosi.
La storia narrata è quella del maschio e della femmina più belli del liceo che
rivedono quando era giovani e corteggiatissimi. Il narratore invece getta un
doppio sguardo: da un lato si sente divertito, da un altro li vede con pietà.
Il tono è gioioso, ma anche malinconico perché ricorda un passato lontano. Il
ritmo è trascinante, contagioso. Mettetela in auto e capirete. Tuttavia
l’ultima strofa è stata cancellata prima di essere incisa. Purtroppo viene da
dire, perché amplificava la malinconia: parlava del padre di Springsteen che
veniva licenziato e non riusciva a trovare lavoro. Altro che glory days…
Dancing in the dark
Il singolo apripista che lanciò il Boss
nell’Olimpo. Un’altra canzone perfetta che andava più verso il pop che
verso il rock. Riducendo l’assolo di sax di “Big Man” e accelerando il
sintetizzatore anni ‘80 di Roy Bittan, la canzone divenne un connubio tra pop e
techno. Una canzone da ballare, senza freni ed esitazioni. Un compromesso tra
dance e rock. Il videoclip, diretto dal mitico Brian De Palma (Gli Intoccabili, Carlito’s Way), fece il resto.
Prima del tour, registrarono in studio un’esecuzione della canzone. Springsteen
invita sul palco una giovane Courtney Cox (ricordate FRIENDS?) e la musica non si ferma più. I ragazzini imitavano il
Boss a ballare.
Tuttavia molti fan sostengono che la canzone non esprima il vero Springsteen.
Era solo un’operazione commerciale. Tuttavia il video risultava molto patinato e strideva con l’immagine dei
dischi precedenti. Nel cinema questa canzone è stata utilizzata in Promised Land di Gus Van Sant, in Come un tuono di Derek Cianfrance, Scappa scappa… poi ti prendo del 1988 e
in Once Upon a Time, fantasy sulla
cultura filippina del 1987.
My hometown
La chiusura del disco spetta alla canzone
più autobiografica. Un padre di 35 anni nota che il suo quartiere è
cambiato in peggio: è cambiato il paesaggio, le persone e le loro abitudini. È
obbligato a trasferirsi per trovare lavoro, pur essendo riluttante. Springsteen
rivede sé da bambino, da adolescente, ma anche in un incidente a sfondo
razziale che accadde vicino a casa sua, a Freehold nel New Jersey. Ma
soprattutto rivede suo padre.
Una ballata a tempo medio dall’arrangiamento semplice. Una canzone con cui è
facile immedesimarsi visto che parla di episodi della vita di ognuno di noi.
Il pezzo è stato utilizzato da Michael
Moore nel suo primo documentario Roger
and me (1989). In questo caso il giovane documentarista voleva
intervistare il capo della General Motors, Roger B. Smith, per chiedergli il
motivo della chiusura della fabbrica di Flint, in Michigan. Guarda caso, tale
cittadina è il paese natale di Moore. Il regista mostra nel documentario
l’impossibilità di avere un colloquio con Smith, ritenuto il responsabile del
licenziamento di 30.000 lavoratori. Moore usa il pretesto di questa intervista
impossibile per raccontare le storie degli operai, delle famiglie e della
miseria nella sua città.
Ovviamente il regista, ancora semi-sconosciuto, non riuscirà a parlare con
Roger, ma riuscirà con efficacia a raccontare le disastrose conseguenze della
chiusura dello stabilimento sulla sua città e la sua gente. Con questo
disarmante documentario, pieno di satira, Moore racconta un’America nascosta ai
più, quella in cui i presidenti delle grandi multinazionali, gli stessi che
appaiono in televisione sempre sorridenti e affabili, non mantengono affatto le
loro promesse e continuano a fare affari e ad arricchirsi noncuranti delle conseguenze
delle loro azioni sui propri dipendenti.
Visti i temi, Springsteen concesse a Michael Moore i diritti della canzone.
Fonti:
Onda Rock, Virgin Radio, Le canzoni di Bruce Springsteen di Paolo Giovanazzi,
Rockol, Debaser, La Stampa, “Tutto sul Boss” a cura di Jazz Music Circus, Like
a vision – Bruce Springsteen e il cinema, lascimmiapensa.com
Oltre a quelli già linkati, pezzi consigliati per la comprensione dell’articolo:
Springsteen on broadway
L’autobiografia Born to Run
High Hopes
Immagine © Columbia (dettaglio) da commons.wikimedia.org
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.