Capitalisti, socialisti e populisti nel Partito democratico
Lo spazio ideologico occupato negli Stati Uniti dal Partito democratico, nonché la sua propria articolazione interna, è stato recentemente definito come un triangolo avente come vertici della base i due poli di socialismo e capitalismo e come vertice opposto il populismo.1
La schematizzazione è certo un po’ troppo semplificata, ma costituisce altrettanto sicuramente un buon punto di partenza per orientarsi tra le diverse gradazioni dello spettro del partito.
I candidati alle primarie democratiche hanno ormai superato la ventina, ma, quando questo schema è stato proposto (inizio febbraio), quelli che vi furono posizionati erano circa la metà. I più vicini ai vertici, ossia gli esponenti considerati i rappresentanti più puri di ciascuna delle tre tendenze, furono il senatore per il Vermont Bernie Sanders (socialismo), l’ex sindaco repubblicano di New York Michael Bloomberg (capitalismo) e il senatore per l’Ohio Sherrod Brown (populismo). Balza all’occhio che due di questi tre (Brown e Bloomberg) hanno poi concluso le loro riflessioni decidendo di non candidarsi. Annunciarono le loro intenzioni a due giorni di distanza l’uno dall’altro, il che fu interpretato dagli analisti più o meno come “Bloomberg e Brown non si candidano, quindi Biden lo farà”.2
Biden è considerato un candidato formidabile per tre motivi: è estremamente conosciuto (dopotutto ha fatto il vice di Obama per otto anni), altrettanto estremamente popolare3, e si ritiene possa recuperare gli elettori ex democratici che hanno votato Trump nel 2016 – cioè sostanzialmente la classe operaia del Midwest, da cui in parte proviene lo stesso Biden (è nato in una zona industriale della Pennsylvania, pur avendo vissuto fin da bambino nel Delaware).
La tesi dei commentatori, quindi, era che Biden avrebbe sottratto a entrambi i due candidati il loro zoccolo duro di riferimento: a Bloomberg, i moderati; a Brown, gli operai, e i “populisti”, intendendo con questo termine quegli elettori statalisti in politica economica e sociale ma conservatori sui diritti civili e l’ambiente.4
Tale tesi, sommariamente corretta nell’indicare in Biden il motivo delle due mancate candidature, risulta però riduttiva sul caso Brown. Il profilo politico del senatore dell’Ohio è stata definita, nel medesimo pezzo citato, «una sorta di liberal di sinistra dentro un guscio moderato», e altrove è stato fatto presente che Brown avrebbe potuto competere per il consenso sia dei baby-boomers moderati e conservatori sia dell’ala sinistra del partito.5
Un criterio forse troppo naïf dal punto di vista politologico, ma a mio avviso di eccezionale efficace, è quello che divide il bacino degli elettori democratici secondo il loro alcolico di riferimento: si individuano quindi una “via del vino”, composta dai ceti borghesi istruiti e liberali delle zone costiere (ad esempio New York, Washington, San Francisco, Seattle…), e una “via della birra” consistente nei ceti operai delle città industriali e nelle campagne – i cosiddetti “fly-over states”, gli stati su cui si sorvola spostandosi in aereo tra una metropoli e l’altra.6
Gli elettori della birra hanno una costante: i candidati da loro sostenuti (la Clinton nel 2008, Sanders nel 2016) hanno perso le ultime elezioni primarie, sintomo di uno spostamento a sinistra del Partito democratico soprattutto in tema di diritti civili. Queste sconfitte non sono state senza conseguenze: sempre meno rappresentati tra i democratici, si sono spostati sull’altro partito.
Le avanzate di Trump in territorio democratico nel 2016 erano state anticipate da alcuni risultati imprevisti già alle mid-term del 2014 (ad esempio il seggio del Senato in Iowa), all’epoca derubricati a “maledizione del sesto anno”; l’argomento che alle mid-term solitamente vince l’opposizione può essere fatto valere anche per la storica débâcle democratica del 2010, che polverizzò la rappresentanza “populista” tra i democratici. Ma persino la rielezione di Obama nel 2012 conteneva, a ben vedere, un significativo campanello d’allarme: per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un Presidente veniva rieletto con un numero di grandi elettori e una percentuale di voti popolari minori rispetto alla prima elezione.
Una delle più ricorrenti critiche, se non accuse, mosse a Obama è storicamente stata quella di essere “troppo cool”, ossia troppo intellettualmente distaccato e troppo circondato da un’aura di icona di tendenza per poter essere realmente vicino agli elettori.7 Si capisce che l’accusa fosse talvolta interessata e provenisse da chi non era in grado di fare tendenza, come McCain8 o Karl Rove9.
E tuttavia, un’autocritica sul tema è giunta ultimamente da Obama stesso, seppure non in forma diretta. Secondo un recente libro, nelle settimane di transizione presidenziale dopo la vittoria di Trump il Presidente uscente si sarebbe più volte interrogato con i suoi collaboratori se la sua amministrazione non avesse spinto troppo a sinistra.10
Biden potrebbe essere un rimedio a questa falla: da un lato, è stato vice di Obama e ha avuto con lui una relazione di stretta collaborazione davvero insolita in un binomio presidenziale, che non insolitamente viene attraversato da frizioni; dall’altro lato, è stato complementare ad Obama: un bianco anziano della classe operaia irlandese accanto a un giovane afro-americano figlio di due studenti di antropologia all’Università di Honolulu.
Tuttavia, il fatto che la candidatura di Biden si presenti come una sussunzione del polo “populista” (Brown) e di quello capitalista (Bloomberg), ha due gravi rischi. Il primo, di approfondire ancor più la faglia con il polo socialista di Sanders (e di deputate recalcitranti come Ocasio-Cortez, Omar e Tlaib); il secondo, di annullare ancora una volta le proposte “populiste” à la Brown all’interno di un contenitore moderato. Ad esempio, attacchi a Biden non si sono fatti attendere dalla sua concorrente Elizabeth Warren, senatrice per il Massachusetts, che sul tema delle regolamentazioni finanziarie duella con lui da vent’anni11 (le relazioni personali tra i due sembrano più distese, se è vero come pare che nel 2016 lui l’avrebbe voluta come candidata vicepresidente12).
A dire il vero, nonostante le etichette, sembra che negli Stati Uniti la vera proposta socialista sia il “populismo” di Brown, che ha fatto della “dignità del lavoro” il nucleo concettuale della propria azione politica; mentre il vero populismo sia il cosiddetto socialismo di Sanders – mi riferisco in questo caso non ai populismi di destra o trumpisti, ma al populismo della sinistra statunitense di fine Ottocento.13
Ufficialmente Brown ha dichiarato di essere stato convinto a non candidarsi, a seguito di un tour di ascolto negli Stati Uniti (e specialmente nei primi stati in cui si vota per le primarie…), dall’acquisita convinzione che il partito sia «più focalizzato sul lavoro e sui lavoratori rispetto al 2016» (anno in cui, peraltro, egli aveva sostenuto la Clinton e non Sanders), e che in queste condizioni egli preferisce continuare a lavorare nel Senato.14
Il focus di molti candidati sembra, per la verità, essere quello della identity politics in difesa delle minoranze (donne, LGBT, persone di colore, immigrati, carcerati, studenti…) che secondo una lettura ha provocato la sconfitta della Clinton.15 È possibile che Brown speri che la pressione dei due principali inseguitori di Biden – Sanders e Warren – spinga l’ex vicepresidente ad adottare posizioni più progressiste sui temi economici.
Libertari e moderati (?) contro Trump
Le implicazioni dell’orientamento dei democratici vengono meglio comprese se lette in parallelo con l’attuale situazione nell’altro partito.
Una recente ricognizione dello stato interno dei repubblicani li ha divisi in cinque categorie sulla base del grado di vicinanza al Presidente: trumpisti, sostenitori di Trump, conservatori critici di Trump, moderati critici di Trump, anti-Trump.16 Questa prospettiva ha il merito di mostrare come i trumpisti veri e propri risultino nel Partito repubblicano una minoranza estremista, e che il corpaccione del partito sia più che altro costituito da “sostenitori” di Trump: una destra cinica che accetta la legittimazione del fascismo e lo sfregio delle istituzioni fintanto che Trump garantisce una politica fiscale di favore per i grandi patrimoni e la nomina di giudici conservatori nei tribunali federali.
Esistono tuttavia alcuni punti critici. Primo fra tutti quello di riunire in un unico gruppo gli “anti-Trump”, che dal punto di vista ideologico sono molto differenziati: ci sono neoconservatori come Kristol, conservatori tradizionali come Sasse, moderati come Hogan e Baker, moderato-conservatori come Kasich. Ma non meno problematica è la classificazione di alcuni “critici di Trump” come conservatori o come moderati. Quelli identificati come “conservatori” (il deputato Amash, i senatori Paul e Lee) sono in realtà schiettamente libertari.
È vero che il libertarismo, ossia l’intento di ridurre il più possibile le aree di competenza dello Stato federale, ha diversi punti in comune con il paleoconservatorismo (l’enfasi sui diritti degli stati, l’isolazionismo in politica estera, una concezione assoluta della libertà dell’individuo come antidoto anche violento – il diritto a portare armi – contro la tirannia…).
Ma le definizioni hanno un loro significato, e le ricognizioni empiriche dimostrano che tra le aree ideologiche interne ai repubblicani, quella più decisamente critica di Trump è proprio quella libertaria –ad esempio, il deputato più in rotta con Trump, deceduto da poco, è stato il paleolibertario Walter Jones, l’unico repubblicano a trovarsi più spesso all’opposizione che in linea con la Casa Bianca.17 Specularmente, tra i “moderati”, viene classificato l’ex candidato presidenziale Mitt Romney, ora senatore per lo Utah, che non è un centrista, ma non essendo libertario non può essere inserito tra i “conservatori”.
Personalmente trovo più utile definire il Partito repubblicano come un agglomerato di tre aree: i moderati, che sono pochi, dispersi, poco organizzati e necessariamente limitati nella loro azione da una base sempre meno centrista; i libertari, organizzati, ma poco numerosi e scarsamente influenti nell’elaborazione politica del partito; la destra, molto organizzata e molto numerosa ma divisa al proprio interno sommariamente in tre correnti: la destra religiosa, i paleoconservatori, i neoconservatori.
Trump sembra aver cercato di costruire una coalizione tra paleocon e neocon, cercando l’appoggio inoltre della destra cristiana (ad esempio con i temi della restrizione dell’aborto e dell’insegnamento scolastico della Bibbia) e in parte anche dei moderati (con iniziative legislative bipartisan come la riforma penale o la legge per l’agricoltura).
L’unico candidato alle primarie contro Trump al momento è Bill Weld18, e le caratteristiche del personaggio rendono questa unicità davvero significativa sotto l’aspetto sociale e politico. Weld è stato Governatore del Massachusetts negli anni Novanta e appartiene all’élite patrizia che ha storicamente fondato la comunità anglosassone nel New England: la sua famiglia, ad esempio, fornisce studenti a Harvard fin dal 1650. Nel 2016 Weld passò al Partito libertario che lo candidò alla Vicepresidenza; è rientrato recentemente tra i repubblicani proprio per sfidare Trump.
Weld, quindi, rappresenta nettamente l’élite. Durante il governatorato, il Presidente del Senato statale (un democratico) lo punzecchiò ricordando che antenati di Weld erano sulla nave Mayflower che nel 1620 portò i primi coloni in Massachusetts – volendo alludere, dietro un apparente tratto di onore, appunto al suo elitismo oligarchico. La replica di Weld è rimasta celebre: «A dire il vero non erano sul Mayflower. Avevano mandato avanti i servi perché gli preparassero il cottage».
Le sue convinzioni libertarie costituiscono l’esatto contrario di quelle degli elettori populisti: quanto questi ultimi sono favorevoli all’intervento pubblico in economia e welfare (almeno in un’ottica nativista e xenofoba) e tradizionalisti sui diritti civili, tanto i libertari chiedono l’applicazione del laissez-faire nell’economia come nella vita privata.
Accanto alla candidatura di Weld, di recente un altro repubblicano-libertario ha clamorosamente rotto con Trump: il deputato per il Michigan Justin Amash – di cui si è chiacchierato un passaggio al Partito libertario con conseguente candidatura alla Presidenza nel 202019 – ha dichiarato, nel corso della diatriba susseguente alla pubblicazione del rapporto Mueller, che Trump ha compiuto atti passibili di impeachment.20
Trattandosi del primo esponente repubblicano a compiere questo passo, la cosa è stata letta da alcuni come un momento di svolta: ad esempio, i democratici più agguerriti hanno fatto presente alla speaker Pelosi che è stata raggiunta una delle condizioni da lei stabilite perché possa dare l’ok ad avviare la procedura di impeachment, ossia un consenso bipartisan sulla condotta del Presidente. Le cose non stanno così, perché con bipartisanship la Pelosi si riferiva evidentemente al sostegno di almeno venti dei cinquantatré senatori repubblicani, necessario per arrivare a una condanna da parte del Senato, e non certo a un singolo ininfluente deputato21 – peraltro già largamente estraniato dal suo gruppo parlamentare.22
Quale sostegno vi è a queste posizioni nel Partito repubblicano? Al momento Weld è benvisto solo da Phil Scott, Governatore repubblicano del Vermont, che può essere definito come il più progressista tra i cinquanta stati (tra le altre cose, elegge Sanders al Congresso dal 1990). Scott al momento gode di una certa popolarità perché, in netto contrasto con le crociate antiaborto condotte dal suo partito, si è rifiutato di porre il veto su una legge approvata dalle Camere statali, in mani democratiche, che riconosce e garantisce il diritto della donna a decidere della propria gravidanza.23 Ha anche un’altra distinzione, che condivide con altri colleghi fortemente critici di Trump, ossia Charlie Baker del Massachusetts e Larry Hogan del Maryland: è un governatore repubblicano molto popolare in uno stato saldamente democratico.24 Tutti e tre sono moderati e non lesinano frecciate al Presidente (a novembre scorso, durante il dibattito con lo sfidante democratico, Baker definì Trump in tre parole “oltraggioso, vergognoso, divisivo”25).
Commentando la candidatura Weld, Scott ha dichiarato: «Lo preferisco a Trump? Certo… [ma] mi piace Larry Hogan, Charlie Baker forse si candiderà».26 Proprio Hogan potrebbe essere l’alternativa moderata a Trump, dopo un recente discorso di insediamento al governatorato in cui ha ricordato, oltre a due repubblicani disprezzati da Trump (McCain e Bush padre), il proprio padre, Lawrence Hogan, che nel 1974 fu l’unico deputato repubblicano a sostenere tutti i capi di imputazione contro Nixon.27
La candidatura Weld punta non certo a vincere, ma a ottenere un buon risultato nel New Hampshire, il secondo stato nel calendario delle primarie e confinante col nativo Massachusetts. Come si è visto, però, è una candidatura che mette Trump in una buona posizione per ripetere, ingigantendolo, il copione con cui stroncò la figura di Jeb Bush nella seconda metà del 2015: dipingendo i propri avversari come privilegiati dediti a curare gli interessi non del popolo ma dei loro finanziatori.28
D’altro canto, una duplice candidatura di Weld e Hogan spezzerebbe il voto anti-Trump nelle primarie, impedendo di fatto il manifestarsi di una coagulata opposizione interna al partito repubblicano.
Pistole fumanti e patate bollenti
Certamente la chiave per comprendere l’evoluzione della ricandidatura di Trump sta in come si svolgerà il dibattito sull’impeachment. Nonostante un gradimento popolare positivo riguardo la gestione dell’economia, che sotto il parametro occupazionale è al massimo da mezzo secolo29, il consenso di Trump resta basso e, soprattutto, più della metà degli elettori sembra decisamente intenzionata a votare contro di lui.30
L’unica speranza per la rielezione sembra quella di giocare la stessa carta che ha consentito di mantenere il controllo del Senato alle mid-term del 2018: mobilitare massicciamente la propria base e contare sulla disproporzionalità tra voti elettorali e popolazione che avvantaggia i partiti insediati nelle aree rurali (cioè, oggi, i repubblicani). Nancy Pelosi non intende porre Trump sotto impeachment non solo perché ritiene che potrebbe renderlo una vittima e alienare ai democratici il consenso degli elettori indipendenti e moderati, ma anche perché il sospetto è che Trump voglia essere messo sotto impeachment – una condanna da parte del Senato è profondamente improbabile.31
Lo scenario potrebbe cambiare se emergessero prove irrefutabili di una condotta criminosa da parte del Presidente: in quel caso, però, per le speranze dei democratici è bene che lo scandalo esploda a non molta distanza dalle elezioni. Nell’unico precedente paragonabile, quello di Nixon, il Presidente per evitare l’umiliazione di una condanna si dimise ad agosto 1974; i democratici stravinsero le elezioni parlamentari di novembre 1974 ma vinsero solo con stretto margine le presidenziali di novembre 1976.
Durante lo svolgimento dell’indagine Mueller l’elettorato americano ha inequivocabilmente mostrato di volere un forte controllo parlamentare nei confronti di Trump: i risultati delle consultazioni locali nel 2017 e 2018, nonché delle mid-term, sono stati pesantemente sbilanciati a favore del partito di opposizione.32 Al momento, invece, non vi è alcuna traccia che questo orientamento persista: l’impressione è che le preferenze dell’elettorato, una volta riconsegnata la Camera ai democratici, si siano resettate al livello standard.
Trump già una volta ha vinto le elezioni pur perdendo il voto popolare e pur essendo il più impopolare tra i due candidati (nonché il più impopolare della storia documentata33). Per questa ragione è essenziale che i democratici non sopravvalutino l’interesse popolare per una pura e semplice rimozione del Presidente in carica. Nixon si dimise dopo la scoperta della “pistola fumante”: la registrazione delle conversazioni sullo Watergate tenutesi nello Studio Ovale. Occhio a non scambiare per pistola fumante una semplice patata bollente: il rischio di scottarsi inopinatamente è forte.
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Per maggiori dettagli rimando al mio https://www.ilbecco.it/tracce-dellopposizione-democratica-a-trump/ di fine gennaio 2019 e a una mia prima analisi della vittoria di Trump di novembre 2016 (https://archivio.ilbecco.it/politica/internazionale/item/3361-trump-su-chi-ha-costruito-la-vittoria.html). ↑
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Mi ero occupato delle differenze tra Sanders e Trump nel corso delle primarie 2016 https://archivio.ilbecco.it/politica/internazionale/item/2995-sanders-e-trump-due-outsider-agli-antipodi.html ↑
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Immagine di Jack (dettaglio) da commons.wikimedia.org
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.