“Quando ero giovane credevo in tre cose. Il Marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite.” (Sergio Leone)
Partiamo dalla fine. Il 30 Aprile 1989 moriva a Roma uno dei più grandi registi della storia del nostro cinema. Stava lavorando a un film epico sulla battaglia di Stalingrado, che fu decisiva perché cambiò le sorti della Seconda Guerra Mondiale. Un kolossal mastodontico, secondo chi stava lavorando con il grande regista. Invece morì d’infarto prima di iniziare le riprese. Il film poi venne riadattato divenendo “Il nemico alle porte” del francese Jean Jacques Annaud (con Ed Harris e Jude Law). Le cause di quest’infarto si possono attribuire a una lunga causa con il produttore israeliano Arnon Milchan (nel film C’era una volta in America è l’autista di Noodles/Robert De Niro). Visto che la durata del film in questione era di 4 ore e mezzo, fu chiesto a Leone di tagliare il film e di ridurlo per il mercato americano. Leone rispose picche, visto che erano tredici anni che lavorava alacremente con il suo team. Effettivamente il film non poteva essere tagliato. Milchan fece di testa sua, lo fece rimontare a persone di fiducia. Risultato? Un flop fragoroso. La gente non ci capì niente. Il film era stato tagliato di oltre 2 ore! Un dolore immenso per Leone, una “vera devastazione” come racconta la famiglia. Un tradimento che non venne mai perdonato al produttore.
Ma torniamo indietro. Schermo nero. Flashback. Sergio Leone nacque il 3 gennaio 1929 a Roma. Figlio di Vincenzo Leone (regista e attore originario della provincia di Avellino), noto con il nome d’arte di Roberto Roberti, e dell’attrice Bice Waleran, romana di origini austriache. Il cinema lo aveva nel sangue. Già da qui si può capire che Sergio ereditava un carattere forte e particolare. Infatti molti a suo tempo lo accusarono di essere un violento, soprattutto nella messa in scena. Leone era marxista, amava l’emozione (notare i suoi insistiti primi piani sugli occhi), la solitudine e la vera amicizia come John Ford (“Ombre rosse”), era un infaticabile e concreto sognatore. Aveva un rispetto enorme per il pubblico. Odiava l’avidità, la retorica e la crudezza. Il cinema era grande, era mitico. Oggi uno come lui avrebbe sofferto. Tant’è che negli anni ’80 si era accorto che qualcosa stava cambiando in peggio. “Mi sembra che oggi il cinema rischi una vera e propria regressione, trasformandosi in un intrattenimento puramente infantile.” Per dirla come Clint, Dio non è con noi perché anche lui odia gli imbecilli.
Ci aveva dato. Tant’è che, della stessa scuola di pensiero, c’è il regista messicano Inarritu (autore di Redivivo e Birdman): “I cinecomics sono veleno, un genocidio culturale che tartassa il pubblico di esplosioni e cazzate simili. Non penso siano un prodotto da buttare, anch’io a volte mi diverto a guardarli, sono semplici e con i pop-corn ci stanno benissimo. Il problema è quando fingono di avere una qualche profondità. È una cosa che odio, perché non corrisponde a quei personaggi. Il pubblico è ormai sovraesposto a storie che non hanno nulla a che vedere con l’esistenza di un essere umano. E poi, supereroi… Già solo la parola “eroe” mi annoia. Ma cosa vuol dire? L’idea di supereroe è un concetto falso ed equivoco. Se osservi bene questo tipo di film, la mentalità di fondo si basa su gente ricca, potente, che fa del bene e uccide il cattivo. Filosoficamente, non mi piace. Sono film che non dicono nulla, come scatole che contengono altre scatole e così via, senza lasciarti nessun senso di verità”.
Sergio Leone in realtà aveva messo in primo piano la bellezza, il cinema. Era considerato un eretico, un rivoluzionario vero. Ricordate cosa diceva della rivoluzione in “Giù la testa”? Faceva paura perché odiava le gabbie e frantumò ogni cliché con la critica e il suo pubblico. Ma ovviamente non andava d’accordo con la maggioranza dei produttori. Da giovane adorava i film di Lubitsch e Chaplin. Voleva lasciare allo spettatore stati d’animo, impressioni, cose da ritrovare nella vita di ogni giorno. La sua cura per i dettagli era maniacale e ogni storia era raccontata con la massima definizione ed esigeva il meglio da ogni settore (musica, scenografia, attori, fotografia, scrittura e quant’altro). Come il “Monco” di Per un pugno di dollari sosteneva che se vedevi le cose dall’alto, ti facevano meno effetto. Ecco perché vi scrivo questo pezzo: il cinema di Leone è e sarà sempre attuale.
Su una targa vicino a Trastevere, che segnala dove ha vissuto, c’è scritto: «Il mio modo di vedere le cose talvolta è ingenuo, un po’ infantile, ma sincero. Come i bambini della scalinata di Viale Glorioso». In questa frase c’è tanto del suo cinema: si possono rivedere C’era una volta in America, Per un pugno di dollari e Giù la testa in un colpo solo. Perché Leone nell’ambiente cinematografico ci stette fin dall’età di 18 anni quando fece la comparsa nel capolavoro di De Sica, “Ladri di biciclette” (è il primo a destra).
Tra gli anni ’40 e i ’50, fece di tutto: dalla comparsa all’aiuto regista a Cinecittà. Nel frattempo iniziò a scrivere e a prendere spunto dai grandi registi. La sua occasione arrivò nel 1961 con “Il colosso di Rodi”, film peplum a basso budget. Tuttavia negli anni Sessanta questo genere si stava estinguendo. Leone allora ne inventò uno nuovo: naturalmente è lo “spaghetti western”. Il suo modello fu “La sfida del samurai” di Akira Kurosawa. Nel 1964 arriva nelle sale “Per un pugno di dollari”. Leone fu accusato di plagio dal maestro giapponese, che vinse la causa ottenendo come risarcimento i diritti esclusivi di distribuzione di Per un pugno di dollari in Giappone, Corea del Sud e Taiwan, nonché il 15% dello sfruttamento commerciale in tutto il mondo. Il film rivelò il talento di un altro mito: l’americano Clint Eastwood, oggi attore e maestro del cinema internazionale. L’influenza di Leone si avverte anche nei suoi ultimi capolavori. Il regista romano lo scoprì nella serie “Rawhide” dove faceva il cowboy. Costava poco ed aveva una faccia perfetta per quel film. Inizialmente Clint non era entusiasta di andare a girare in Europa, ma fu convinto dal copione che strizzava l’occhio a Kurosawa. Fu sul set di questo film che Leone coniò con una celebre massima il motivo della sua scelta: “Clint Eastwood mi piace perché è un attore che ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza cappello”. Oltre a lui c’era l’immenso talento di Gianmaria Volontè, il miglior attore italiano dell’epoca. Alla fotografia il contributo del maestro Tonino Delli Colli. Per le musiche Leone si affidò all’amico e compagno di scuola Ennio Morricone (che lo aveva aiutato anche con il “Colosso di Rodi”). Il successo di questo film fu internazionale e lo fece diventare una star in tutto il mondo.
Negli anni 60 arrivarono Per qualche dollaro in più (a Volontè e Eastwood si aggiunse Lee Van Cleef) e Il buono, il brutto e il cattivo (con Eastwood, Van Cleef e Eli Wallach). Quest’ultimo folgorò un futuro regista come Quentin Tarantino, ma anche lo scrittore Stephen King. Nell’introduzione all’edizione del 2003 de La Torre Nera, scrisse: «Nel 1970 […], in una sala cinematografica quasi deserta, vidi un film diretto da Sergio Leone. Si intitolava “Il buono, il brutto, il cattivo” e prima ancora di essere arrivato a metà capii che quello che volevo scrivere era un romanzo che contenesse il senso della ricerca e la magia di Tolkien, ma avesse come scenario il West quasi assurdamente maestoso di Leone. […] “Il buono, il brutto, il cattivo” è un film epico che rivaleggia con “Ben Hur”». La trilogia del dollaro era compiuta. Nel 1968 partì un’altra trilogia mitologica del grande Leone: quella del tempo.
Fu “C’era una volta il west” ad inaugurarla. Era l’unico western di questo filone. Fino a qui tutte queste storie guardavano verso il West, verso l’America, mostrandoci luoghi riconoscibili, ma simbolici. I protagonisti erano eroi solitari e immaginari in cui il pubblico si identificava. Erano amati e conosciuti da tutti noi, proprio perché ammantati di quella misteriosa oscurità che Leone aveva infuso nelle loro vite inventate, consapevole del fatto che il cinema era solo una visione. Poi ad inizio anni 70 le cose cambiano: ecco Giù la testa ed infine nel 1984 l’indimenticabile C’era una volta in America (ispirato dal romanzo “A mano armata” di Harry Grey). Nel mezzo tra i due progetti, produce per l’aiuto regista Tonino Valerii il western “Il mio nome è nessuno” con Terence Hill e Henry Fonda. Si prende perfino il lusso di rifiutare la regia de “Il Padrino” che poi andrà a Francis Ford Coppola. Le durate della “trilogia del tempo” sono dilatate. Leone vuol farci sentire il peso del passare del tempo. Si parla di amicizie, di rivoluzioni, di tradimenti. Il regista romano è più cinico, ma anche più realista.
Dopo la conclusione di questa sfida, negli anni ’80 lanciò nel mondo del cinema Carlo Verdone. Leone produsse “Un sacco bello” (1980), lasciando al giovane la regia in quanto i personaggi erano suoi fino al midollo. Alla sua morte il cinema intero, e chi da lui imparò, gli rese un forte omaggio: Clint Eastwood prima degli altri, poi Quentin Tarantino, Stanley Kubrick e Robert Zemeckis. Si spense così quello straordinario narratore di dimensioni epiche ammirato in tutto il mondo, ma purtroppo troppo a lungo denigrato in patria. Ma non solo gli italiani non lo avevano capito: i giapponesi lo ritennero uno scopiazzatore (per la causa con Kurosawa), gli americani invece erano invidiosi perché era stato un italiano a far capire a loro cos’era il mito del West. Da Spielberg a Scorsese, da Carpenter a Tarantino, da Zemeckis a DePalma tutti studiarono fotogramma per fotogramma i western di Leone, rimanendo affascinati da quella narrazione per ellissi e da quei primissimi piani esasperati, bilanciati da campi lunghissimi che trasmettevano l’idea della frontiera. Ma il merito più grande di Sergio Leone è stato quello di saper dire cose molto profonde in un modo estremamente semplice; il suo cinema parla un linguaggio universale e accessibile a tutti, apprezzato più dalla gente comune che dai critici cinematografici.
Siccome della prima categoria faccio parte anch’io, posso dire che la filmografia di Leone mi rivelò tutto il mio amore per il cinema. In particolar modo “C’era una volta in America”. Quando andai a Bologna alla “prima” della versione restaurata, sentii in maniera profonda il legame tra me e il cinema. Ancora oggi il modo di fare cinema di Leone lo sento particolarmente mio perché rappresenta le varie tappe della vita: nascita, crescita, amicizie, tradimenti, età adulta, cinismo, vecchiaia. E nel mezzo naturalmente ci sono i treni, che rappresentano il progresso, e quel dolly di C’era una volta il west che si alza improvvisamente e ci mostra come il tempo ci ha cambiato.
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Filmografia di Sergio Leone
• Il colosso di Rodi (1961)
• Per un pugno di dollari (1964)
• Per qualche dollaro in più (1965)
• Il buono, il brutto, il cattivo (1966)
• C’era una volta il West (1968)
• Giù la testa (1971)
• C’era una volta in America (1984)
Fonti: Wikipedia, My Movies, Storia dei film, “I migliori della nostra vita – C’era una volta in America” di Ilaria Feole
Immagine da www.wikipedia.org
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.