Nel “cortile di casa” degli USA va in scena un tentativo di colpo di stato in Venezuela. Nonostante il fallimento dell’operazione, è necessario riflettere sulla politica estera USA e sui suoi risvolti. Questa settimana il Dieci Mani se ne occupa.
Piergiorgio Desantis
Tempi duri per i progressisti latinoamericani al governo (pochi ormai) che sono invisi all’amministrazione americana in carica. A quanto pare, con il ritiro progressivo da Afghanistan e Iraq, Trump ha già avviato (ormai è evidente) un neoprotagonismo americano nel continente. Oltre al problema di legalità internazionale (diritto internazione grande assente in tutto ciò) si assiste a una strategia di balcanizzazione concentrata ora sul Venezuela (domani chissà) con tentativi assai maldestri (prima il riconoscimento del presidente del parlamento Guaidò, poi una scombiccherata sortita finalizzata al rovesciamento del governo venezuelano). Ancora non si possono prevedere tempi e modalità di soluzione del conflitto in atto in Venezuela ma i ceti popolari venezuelani sono la vera vittima anche a causa delle sanzioni che difatto paralizzano l’economia statale fondata sull’esportazione del petrolio. Ci si sarebbe aspettato, dopo la serie di insuccessi inanellati, un maggiore tatto degli Usa in politica estera. “La storia insegna ma non ha scolari”, tuttavia in questo caso, potremmo osare modificare il celebre passaggio gramsciano con un “la storia non insegna a chi non vuol apprendere”.
Alex Marsaglia
Il Venezuela bolivariano continua a resistere stoicamente all’attacco imperialista statunitense. L’ultimo tentativo di Guaidó si è rivelato l’ennesimo buco nell’acqua, immediatamente il popolo ha risposto per difendere il legittimo presidente dall’attacco dell’autoproclamato. Anche questa volta non sono mancate le reazioni delle potenze mondiali sul tentato Golpe. Mentre gli Stati Uniti agiscono sempre di più alla luce del sole, affermando esplicitamente per bocca di Pompeo che “un intervento militare è possibile. Se sarà necessario, sarà quello che gli Stati Uniti faranno”, la Russia resta la più ferma nella difesa del Venezuela. Lavrov ha infatti rammentato come “l’ingerenza di Washington negli affari del Venezuela è una flagrante violazione del diritto internazionale” e che “solo il popolo venezuelano ha il diritto di decidere il proprio destino”. Sul campo le forze sono sempre più divise e disposte a tutto pur di prevalere.
La destabilizzazione statunitense si sta tramutando per l’ennesima volta, dopo la Libia e la Siria, nel caos e nella guerra civile più brutale. Il Colpo di Stato eterodiretto dall’imperialismo statunitense è fallito, ma la sua forza nel Paese non è da sottovalutare né in termini di propaganda né in quelli della forza militare. Anche in Siria non è mai riuscita la delegittimazione del Presidente in carica, ma il Paese è comunque stato smembrato tramite l’utilizzo del terrorismo e dell’islamismo radicale. Questo strumento in Venezuela difficilmente sarà utilizzabile, ma la vicinanza con l’alleato brasiliano Bolsonaro il cui Golpe è già riuscito assicura agli Stati Uniti un appoggio fondamentale per infiltrare e destabilizzare l’ultimo bastione socialista rimasto in America Latina.
Dmitrij Palagi
Mi ricordo di aver scritto un articolo da adolescente sull’ipocrisia di una politica italiana (eravamo sotto un governo Berlusconi) pronta a denunciare la dittatura in Venezuela, mentre ignorava i problemi democratici interni. A distanza di quasi due decenni l’America Latina continua a far dormire sonni tormentati al fronte progressista europeo. La mobilitazione globale alle soglie del XXI secolo ha avuto una traduzione concreta nel continente a sud degli Stati Uniti, mentre in Europa ha provato a partire, per poi spengersi senza appello. Solo il Brasile sembrava riuscire a riunire le diverse anime della sinistra occidentale, mentre Maduro continua a essere interpretato come un “cattivo”, sulla scia di Chavez. Dato il vento globale di spinta a destra i timori non si spengono. La fiamma di Cuba non sappiamo per quanto possa resistere isolata. Sicuramente serve una mobilitazione internazionale all’altezza della fase. Per ora non c’è, ma in ogni paese lo sguardo globale non può venire meno. Aiuterà anche a capire quali sono le differenze ancora valide tra destra e sinistra.
Jacopo Vannucchi
La prima impressione che si può ricevere seguendo le notizie dal Venezuela sui media allineati a Washington è quella di uno sbalorditivo surrealismo. Il capo autoproclamato dell’opposizione, che tra l’altro si è pure autoproclamato Presidente e come tale è riconosciuto da quasi tutto lo schieramento Usa, fa un appello accorato ai militari a rovesciare il governo. Alcuni pochi lo seguono, il golpe fallisce. Dopodiché ’aspirante usurpatore continua in tutta tranquillità a seminare il disordine.
Non c’è male come standard di una pericolosa dittatura quale il governo Maduro viene dipinto, visto che noi in Italia, poveracci, siamo abituati a considerare dittatura quella che nel 1926 linciò a morte il quindicenne Anteo Zamboni.
Ma se si astrae da questo sbigottimento appare chiara una verità che perfino giornali saldamente capitalisti manifestano, seppure in controluce. Per esempio, il Post ha ripreso un articolo del New York Times in cui si opina che Guaidó abbia fallito il golpe perché non è riuscito a farlo ritenere inevitabile (qui).
Forse è più semplice pensare che il golpe sia fallito perché non era inevitabile, e non lo era perché il governo venezuelano non è un pugno di oppressori che tiranneggia il resto del Paese, e neppure una cricca oligarchica con ramificate clientele che restano però una minoranza della società. Al contrario, le continue manifestazioni di piazza mostrano che la rivoluzione bolivariana gode ancora di un consenso radicato e combattivo.
Ciò che semmai si può temere sono due altri fenomeni: il continuo logoramento dell’economia nazionale e il rischio di guerra civile. Sul primo punto, la Cina può ancora aiutare molto il governo di Caracas, e probabilmente sarà anche più bendisposta a farlo dopo l’aumento dei dazi annunciato da Trump domenica sera. Peggiori le previsioni sul secondo punto: l’esercito resta leale al chavismo, ma agli Stati Uniti non mancano certo mezzi e capacità per addestrare e finanziare guerriglie locali.
Alessandro Zabban
Se esaminiamo in maniera fredda e oggettiva i grandi eventi internazionali degli ultimi due decenni possiamo vedere con chiarezza come quasi tutti i tentativi di destabilizzazione, ingerenza straniera e violazioni del diritto internazionale hanno avuto come protagonista un paese membro della Nato, con in testa ovviamente gli Stati Uniti. Chi si affretta a definire l’alleanza strategica fra Russia e Cina come un polo imperialista dovrebbe quantomeno considerare che Mosca e Pechino hanno per ora più che altro dovuto reagire (spesso anche in maniera molto blanda) alle feroci aggressioni occidentali. Eppure, nonostante la lunga serie di massacri, stermini, orrori di cui l’occidente si è reso responsabile negli ultimi anni (non che prima andasse meglio), sembra che lo strapotere statunitense e della Nato sia in lento ma costante declino. Se la guerra in Siria è un po’ l’emblema dei recenti fallimenti americani, è pur vero che un animale ferito (nell’orgoglio) reagisce mordendo. Trump da quando si è insediato ha, in maniera confusionaria ma feroce, cercato di colpire qualsiasi paese inviso all’amministrazione americana. Si è partiti con la Corea del Nord, presto accantonata per passare alla guerra commerciale con la Cina, alle sanzioni all’Iran e al tentativo di rovesciare Maduro.
La strategia americana in questo senso non si discosta dalla tipica metodologia imperialista da loro stessi coniata (imporre sanzioni economiche per creare una crisi economica, bollare il governo legittimamente eletto come non democratico, mostrare all’opinione pubblica immagini mistificate di un popolo che viene represso e affamato, finanziarie gruppi di opposizione e assoldare contractor per spargere il terrore e il caos nel paese in modo che un intervento militare a fini umanitari e per la democrazia sia legittimato). Le difficoltà di attuazione completa della strategia in Venezuela si devono però scontrare con un popolo che nonostante le sofferenze economiche non sembra supportare in nessun modo l’opposizione golpista (gli appelli alla mobilitazione di Guidó sono caduti quasi completamente nel vuoto) e un esercito che per lo più sta appoggiando in maniera decisa il legittimo presidente Maduro. C’è da dire che persino una buona parte dell’opposizione critica duramente i metodi violenti e terroristici di Guidó e soci di prendere il potere, scavalcando a sinistra quasi tutti i partiti “progressisti” occidentali che, imbevuti di una narrazione mediatica tossica all’inverosimile, vorrebbero deposto Maduro con le buone o con le cattive.
Per ora i tentativi americani di attuare un golpe morbido sono falliti. A questo punto però c’è da aspettarsi che Trump e i suoi scagnozzi alzino il tiro per arrivare in fretta a ottenere quel dividendo politico che ricercano da tempo (le elezioni si avvicinano). Se altri mezzucci criminali non riusciranno, Trump si troverà davanti al crocevia di un intervento militare diretto, che ha l’Iraq come terrificante precedente, oppure dover desistere dalle sue mire imperialiste. Inutile dire che questa decisione dipenderà anche dalla fermezza con cui Cina e Russia, pensando ai loro interessi di lungo termine, si opporranno all’ennesimo tentativo di disintegrare un popolo e un paese per il mero profitto dei soliti noti.
Immagine di Fibonacci Blue da Flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.