Possono alcuni pezzi di corteccia di betulla dirci qualcosa sulla memoria? E un laghetto, cosa significa per la storia? E per il dolore personale? Solo alcuni degli interrogativi che attraversano Scorze, un brevissimo testo (pubblicato in Italia da Nottetempo) in cui lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman ritorna sul tema della memoria della Shoah. Pagine che seguono quelle di Immagini malgrado tutto (Raffaello Cortina Editore), libro che univa parti diverse (ma in sé assolutamente unitario), un primo testo in cui l’autore affrontava in maniera molto originale il tema dell’immagine in rapporto alla memoria e alla realtà storica della Shoah a partire dalle quattro fotografie scattate da membri del Sonderkommando e sopravvissute ad Auschwitz, e una seconda parte che rendeva conto delle polemiche ad esso legate, ribadendo un filo rosso teorico che resta centrale anche in Scorze: contro chi vorrebbe ritirarsi nel mutismo di una storia che si suppone conclusa, la necessità di immaginare anche ciò che sembra più propriamente inimmaginabile, di cogliere il lavoro dell’immagine al centro e prima della memoria.
Scorze nasce da un viaggio dello storico al complesso museale di Auschwitz-Birkenau, una narrazione per immagini a tratti dolorosamente personale che è anche però una riflessione estremamente puntuale e di grande forza, che sembra mappare il margine del rimosso oscuro della cultura europea del secondo dopoguerra. Il complesso Auschwitz-Birkenau, ci narra Didi-Huberman, è un luogo compreso nella materialità di una storicità stratificata, da interrogare con uno sguardo «archeologico»1. Luogo di barbarie, poi luogo della memoria, “museo di Stato”, luogo di cultura: nell’Auschwitz musealizzata attraversata dallo storico-fotografo convivono un brutale passato che si vorrebbe muto significante ed un presente che si immagina come monopolista del significato.
Così i cartelli con teschio e tibie incrociate Hochspannung! Lebensgefahr! (“alta tensione, pericolo di morte”, NdA) scrostati dal tempo affiancano cartelli di oggi che vietano ai visitatori abiti succinti e hamburgers, in un continuo contrasto tra temporalità differenti fino alla vertigine. «È una sensazione penosa vedere i blocchi del campo – dal 13 al 21 – trasformati in “padiglioni nazionali” come alla Biennale di Venezia», scrive lo storico, ammutolito di fronte ad una Auschwitz come luogo reale che sembra cedere il passo ad un luogo altro, «destinato a ricordarsi di Auschwitz», con i resti del campo di sterminio che lasciano il posto al museo, o alla presunta necessità di semplificare e addolcire la storia per poterla comunicare.
Se divulgare la memoria della Shoah è necessario, bisogna a maggior ragione fare attenzione a come quelle vicende vengono comunicate. Se, inoltre, lo sguardo dello storico deve continuare a interrogare il “fatto di Auschwitz”, senza ridursi a commentare ciò che già è stato detto, deve trovare dei materiali che ancora non siano stati significati. È questo il nocciolo del discorso di Didi-Huberman, di una problematizzazione che trova una risposta parziale volgendosi a quelle superfici apparentemente anonime, che ancora ci possono parlare in un linguaggio non codificato dalle forme retoriche della grande macchina della musealizzazione e della memoria; a Birkenau, luogo che – scrive lo storico – oggi è più un sito archeologico che un museo2.
Sono i pavimenti di cemento che i nazisti in fuga non si sono ricordati di demolire e che il dispositivo museale non sa valorizzare, le squallide strutture che rivelano nei loro particolari costruttivi una «crudele povertà […] [una] logica da stalla»3 che sembra richiamare quella dei “carri bestiame” che trasportavano i deportati verso la morte in una similitudine di spazi infernali, ma anche i fiori che ora crescono inquietantemente rigogliosi proprio là dove un tempo erano i fossati in cui venivano bruciati i corpi, o un quieto lago intriso di ceneri, o ancora le Birken, le betulle che pullulano attorno a Birkenau, inquadrate ancora esili nelle fotografie sovraesposte e mosse catturate dai membri del Sonderkommando, immagini che sono nel loro mero esistere cortecce su cui la storia è stata incisa dall’improvvisa resistenza di un gruppo di prigionieri. Alberi ora spessi e antichi, tra gli ultimi viventi ad aver assistito a quella dimensione infernale.
Risalire dalle profondità alla superficie, quindi, ad un’interrogazione storico-culturale che non consideri la «cultura come ciliegina sulla torta della storia», ma come «luogo di conflitti nel quale la storia stessa assume forma»4. Scrive Didi-Huberman: «camminare oggi a Birkenau, vuol dire muoversi in un paesaggio pacifico che è stato orientato in modo discreto – marcato da scritte, spiegazioni, documentato insomma – dagli storici di questo “luogo della memoria”. E poiché la terrificante storia di cui questo luogo è stato il teatro è una storia passata, si vorrebbe credere a quello che si vede di primo acchito, cioè che la morte se n’è andata via, che i morti non ci sono più. Ma, a poco a poco, si scopre tutto il contrario. La distruzione degli esseri non significa che siano andati altrove»5.
Immagini, superfici, appelli a prolegomeni ad un’interrogazione non solo sul passato, ma sul passato che vive nel presente; scorze attraverso le quali qualcosa del passato sembra irrompere senza mediazioni nel presente, per consegnarci l’immagine agghiacciante di un luogo come insieme di resti più o meno conservati, più o meno musealizzati o abbandonati, di «apparati concepiti in modo preciso per uccidere ognuno separatamente, e tutti insieme» e delle loro vittime, che nella sua materialità «ancora vive del gran lavoro della morte»6. Un’immagine agghiacciante, si è detto; ma forse necessaria, per passare dalla condizione di utenti di una certa cultura della memoria ad un concreto lavoro di resistenza.
Georges Didi-Huberman, Scorze, Nottetempo, Roma 2014. 10€
- Georges Didi-Huberman, Scorze, Nottetempo, Roma 2014, pp. 65-68 ↑
- Ibid. p. 27 ↑
- Ibid. p. 37 ↑
- Ibid p. 20 ↑
- Ibid. p. 62 ↑
- Ibid. pp. 62-63 ↑
Immagine “283” scattata clandestinamente da membri del Sonderkommando (dettaglio), da commons.wikimedia.org
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.