Burioni che deride gli “antivaccinisti”, Mentana che sbeffeggia i “webeti”, Maisto che ridicolizza le “mamme pancine” fino al social media manager dell’INPS che schernisce, fra lo stizzito e il borioso, chi chiede assistenza in merito al reddito di cittadinanza. Il momento magico dei “blastatori seriali” è lo specchio di una società profondamente polarizzata, dove le forti disuguaglianze economiche vanno di pari passo con l’acuirsi del divario educativo e culturale. Ma il fatto che le due dimensioni, quella economica e quella culturale, procedano in parallelo, non è affatto un caso. La logica che le pervade è infatti la medesima. Come in ambito economico il regime di concorrenza spietata obbliga l’individuo, in un contesto di smantellamento dello Stato sociale, a farsi carico del rischio e dei fallimenti, così anche la questione della conoscenza e dell’accesso alla cultura viene completamente privatizzata. Non più un problema collettivo ma un banale fallimento individuale. È ormai comunemente accettata l’idea che l’ignoranza sia il solo frutto di una scelta del singolo che, come tale, può essere legittimamente derisa.
Molti di questi personaggi che popolano il web e che si sono creati una fama di giustizieri virtuali affermano che l’ignoranza è contagiosa e che per evitare il suo dilagare occorre opporvisi con fermezza e con durezza. Ma chi è legittimato a fare ciò? Chi si deve assumere il compito di contrastare l’ignoranza? Abbandonarsi al fatalismo naturalista (“la gente sceglie di essere ignorante, non c’è niente da fare”) o appaltare il problema a qualche “blastatore seriale” non sembrano esattamente soluzioni soddisfacenti. Non è un problema di stile o di modalità. Non abbiamo bisogno di altri Burioni o Mentana più edulcorati, gentili, argomentativi e comprensivi. Quello che serve è ribaltare la prospettiva e decostruire la concezione ideologica dominante che riduce i problemi sociali a semplici scelte individuali. Se la cultura e la conoscenza sono prodotti dalla e nella società, allora è impossibile negare una componente sociale anche all’ignoranza. La qualità dei programmi di intrattenimento che ci vengono offerti, il rapporto stretto fra cultura di massa e mercato, le distorsioni delle narrazioni massmediatiche dovrebbero quantomeno portare a riflettere sul problema di come il sapere e dunque anche l’ignoranza siano socialmente costruite nelle società attuali.
Nel mondo greco, ci ricorda Hannah Arendt, chi non partecipava agli affari della polis era per definizione un idiota (idiotes = persona privata). Se per secoli una rigida gerarchia sociale ha rappresentato un ostacolo formale che ha impedito alle persone comuni di poter essere considerate cittadini a tutti gli effetti, la modernità ha eliminato progressivamente buona parte delle barriere formali nell’acquisizione del sapere e nell’accesso alla cultura. Ma anche nella società fluida di oggi non mancano gli ostacoli. Non solo l’estrazione sociale continua a svolgere un ruolo decisivo nelle possibilità concrete di accedere a risorse culturali e a un’istruzione di qualità, ma esistono anche una serie di meccanismi latenti che più che impedire, disincentivano fortemente una acquisizione autonoma e consapevole della cultura e del sapere.
Sebbene questo problema non possa essere ridotto a una sola dimensione, credo che un aspetto decisivo per comprendere come al giorno d’oggi la dicotomia sapere/ignoranza venga prodotta e riprodotta socialmente sia analizzare le trasformazioni economiche che hanno investito le società e gli Stati negli ultimi quarant’anni.(1)
L’avanzata della logica neoliberista nella gestione della sfera statale ha provocato uno scivolamento semantico radicale. Si è passati, nel giro di pochi decenni, dalla figura del cittadino, a cui erano associati precisi diritti e doveri, a quella del cliente/consumatore che usufruisce dei servizi erogati dallo Stato, pensato a sua volta come impresa volta alla massimizzazione degli utili. In questo contesto, la relazione che legava Stato e cittadino a una serie di vincoli e di libertà si è progressivamente esaurita e trasformata in una serie di rapporti contrattuali ed economici. Il risultato è che le istituzioni pubbliche non sono più chiamate a una missione di progressivo inserimento delle masse nello Stato tramite l’educazione (vista come strumento per sfuggire alla miseria e alla marginalità), ma solo ad erogare un servizio il più possibile efficiente (secondo la sola logica del rapporto qualità/costo e senza riferimento al bene comune) laddove il privato non voglia o non possa intervenire. Da parte sua, il cittadino non è più chiamato al mettere in pratica una cittadinanza attiva e consapevole. Come affermano gli studiosi francesi P. Dardot e C. Laval:
«il decadimento di qualsiasi fiducia nelle virtù civiche ha senza dubbio degli effetti performativi sulla maniera dei nuovi cittadini-consumatori di considerare il loro personale contributo alle spese collettive e il “ritorno” che ne ricevono a titolo individuale. Essi non sono più chiamati a giudicare le istituzioni e le politiche dal punto di vista dell’interesse della comunità, ma in funzione del solo interesse personale. È la definizione stessa del soggetto politico a essere mutata radicalmente». (2)
Il vecchio patto sociale che legava cittadino e Stato si è rotto a favore di un rapporto di mercato quasi esclusivamente utilitaristico. L’individuo non esercita più la sua cittadinanza informandosi, interessandosi, partecipando. Quello che è richiesto alla persona per essere riconosciuto come membro competente della società e integrato nel tessuto sociale non ha a che fare con l’esercizio di una coscienza critica, con il costruire un proprio percorso di crescita intellettuale autonomo. In una società in cui le logiche di mercato hanno colonizzato tutte le sfere della vita, il cittadino è sempre più ridotto alla dimensione di homo oeconomicus, imprenditore di se stesso, alla ricerca della massima utilità. Uno Stato che si ritira sempre più dalle sue tradizionali funzioni di garante della sicurezza sociale obbliga il soggetto a un continuo calcolo di massimizzazione delle proprie performance, del proprio corpo, del proprio tempo, della propria vita. Esattamente come un impresa, la vita individuale diventa un continuo calcolo costi benefici e ogni situazione un rischio e un’opportunità di guadagno, in una giungla in cui vige una silenziosa ma violentissima guerra di tutti contro tutti. Gli “ignoranti” contro cui si scagliano i “blastatori” non sono necessariamente dei marginali, dei reietti della società o in una situazione di particolare indigenza, ma è il mercato, anziché lo Stato a farsi ormai carico della loro socializzazione e integrazione nello spazio collettivo.
In una situazione del genere, in cui ogni istante e ogni frangente sono preziosi per rimanere a galla nell’ambito di una concorrenza generalizzata e totalizzante, principi come quello di cittadinanza attiva, informazione consapevole, coscienza critica, sono necessariamente ritenuti come superflui o come un lusso che si possono permettere pochi addetti ai lavori e persone di estrazione sociale alta. Chi dice che oggi l’ignoranza è una mera scelta, non solo non considera che esistono condizioni di partenza oggettivamente diverse, ancora estremamente rilevanti in un epoca di crescita vertiginosa delle disuguaglianze (3), di crescente marginalità sociale e in cui l’ascensore sociale è sempre più bloccato (4), ma non tiene nemmeno in conto il fatto che è proprio la scelta in sé che è, purtroppo, viziata da elementi strutturali latenti.
Se l’istruzione è vista solo come un investimento, se studiare significa solo essere più “impiegabili”, se la cultura è ridotta a una serie di skills e di competenze pratiche da acquisire per poter entrare nel mercato del lavoro, come si può pensare che la maggior parte delle persone siano interessate a ricercare informazioni approfondite, a fare uno sforzo interpretativo e analitico, anche solo a verificare le notizie che ascoltano e leggono? La distruzione dello spirito critico, sacrificato sull’altare delle soft skills, sulle competenze pratiche da acquisire per essere appetibili sul mercato del lavoro, hanno subordinato il sapere al mercato e alla logica imprenditoriale e hanno reso le persone sempre meno immuni alle cosiddette fake news, alle ricette semplicistiche, alle sparate decontestualizzate. Questo orientamento ottusamente pragmatista utile solo a creare individui modellati sul modello dell’impresa flessibile neoliberista, ma totalmente inadeguato a preparare cittadini consapevoli, ha reso il motto “con la cultura non si mangia” parte integrante del dispositivo culturale dominante.
In un contesto in cui le scienze umane e sociali vengono sempre più denigrate, in cui la cultura non è vista come fonte di arricchimento “spirituale” e come utile per accrescere la propria autonomia e indipendenza, ma solo come un capitale da investire nel mercato del lavoro, non ci si dovrebbe stupire dell’ignoranza dilagante, della mancanza di senso civico, del successo del complottismo e della diffusione su vasta scala delle fake news più becere. Non è uno scandalo che l’ordine neoliberale produca i suoi saperi e il suo know-how necessari a riprodurre le sue logiche interne di funzionamento. Il problema è però quando il pubblico anziché porsi in una prospettiva di contenimento delle logiche capitalistiche alla sola sfera economica, le sposa interamente e sottomette cultura ed istruzione alla logica del profitto, dell’efficienza e alle esigenze dei mercati e delle istituzioni economiche. Un sistema educativo e culturale di questo tipo risulta inevitabilmente impoverito e ciò a sua volta non può non avere ricadute dirette sull’individuo, sulla sua capacità di comprendere, analizzare, riflettere, rielaborare. Viviamo in un orizzonte culturale estremamente ristretto e angusto. Possiamo scegliere di reagire “blastando” il singolo oppure iniziare a comprendere che c’è un problema più profondo che obbliga a ripensare al modo in cui il sapere è prodotto e diffuso in società.
- Un argomento del genere meriterebbe una trattazione ben più esaustiva e multidimensionale di quella che è possibile proporre in questo articolo che, per limiti dell’Autore, ha il solo scopo di provare a mettere in luce come le logiche neoliberiste applicate all’educazione e alla conoscenza abbiano contribuito a creare le condizioni per la povertà culturale di oggi, nella personale convinzione che il neoliberismo non possa essere concepito solo come un modo di pensare la gestione economica ma come un’ideologia totalizzante che si pone l’obiettivo di cambiare la società e l’individuo.
- Dardot P. , Laval C. : La Nuova Ragione del Mondo (DeriveApprodi, Roma, 2013), p. 413.
- Per una trattazione più dettagliata: https://archivio.ilbecco.it/cultura/saperi/umanistica-e-sociale/item/2242-oblio-della-giustizia-sociale-e-sinistra-del-merito.html
- Vedi https://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-12-17/perche-l-ascensore-sociale-e-bloccato-185207.shtml?uuid=AEHj9Q1G
Immagine di Frederick Burr Opper (dettaglio) da en.wikipedia.org
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.