Intervista a cura di Elvis Zoppolato
Ogni volta che parliamo di loro come un qualcosa di totalmente altro da noi, o semplicemente ogni volta che parliamo di loro e di noi con tutta la sicurezza di chi sa perfettamente dove sta la linea di demarcazione tra i due, stiamo costruendo il muro. Il nostro modo di parlare rivela il nostro modo di pensare, senza che ce ne rendiamo conto. Quando noi parliamo non esprimiamo solamente i nostri pensieri, o meglio, crediamo di farlo, ma le espressioni che usiamo sono parte di un contesto culturale molto più ampio, in cui ci troviamo immersi e di cui non abbiamo il pieno controllo. Insomma, molte delle espressioni che usiamo spesso e volentieri dicono più della nostra società che di noi stessi. E questa dicotomia, noi e loro, dice molto sulla questione immigrazione e su come la stiamo affrontando, cioè male. Abbiamo creato un muro in Europa, un muro che ci impedisce di guardare oltre e dietro il quale ci rinchiudiamo sempre più nella nostra misera verità: noi, siamo nel giusto.
La verità è che noi non siamo ancora stati in grado di trovare una soluzione, e il muro è ogni giorno più alto. Loro sono diventati il capro espiatorio dei problemi dell’Europa, per alcuni; le vittime indifese della feccia razzista bianca, per altri. La destra ha finalmente trovato il vero responsabile dei problemi dell’Italia; la sinistra, invece, un pretesto per sottolineare la propria superiorità morale. Ma la soluzione vera, ancora non la stiamo cercando. Perché chiudere tutti i porti e lasciare che si arrangino, significa ignorare il problema. Accoglierli tutti ed eliminare le frontiere, ignorare la realtà. In entrambi i casi, ad uscirne vincitori siamo noi: perché salviamo la patria dallo straniero, perché è finalmente chiaro a tutti che siamo i migliori.
Ci sono molti modi di affrontare il problema, e uno e di questi è senza dubbio cercare di capire chi sono loro. Solo a partire da questa conoscenza sarà poi possibile fare un discorso sulla tolleranza e sull’integrazione che sappia essere realistico.
Alì Ehsani era un bambino di otto anni quando, tornando a casa da scuola, un giorno trovò la sua casa completamente distrutta e ridotta in macerie. Siamo a Kabul, capitale dell’Afghanistan, dove c’è la guerra, ed è appena esplosa una bomba in casa di Alì: i suoi genitori si trovano dentro e sono morti entrambi.
Alì ha un fratello, Mohammed, ai tempi diciottenne, che per fortuna è un ragazzo estremamente maturo per la sua età e sa perfettamente cosa deve fare in quella situazione: bisogna andare in Italia ed ottenere i documenti. Una fuga dall’Afghanistan durata cinque anni, durante i quali è successo di tutto e durante i quali Alì si è trovato di nuovo di fronte a una spaccatura radicale nella propria vita: uno di quei momenti che durano un attimo e ti segnano per il resto dei tuoi giorni. Il fratello di Alì muore in mare, di notte, durante il percorso che dalla Turchia avrebbe dovuto portarlo in Grecia. Stava cercando di raggiungere le sponde della Grecia in gommone perché costa poco: il suo obiettivo era lavorare lì un po’, tornare indietro e prendere suo fratello con i soldi necessari per compiere lo stesso tragitto ma in modo più sicuro, ovvero in traghetto.
Di questo e di molto altro ancora ci parla lo scrittore afghano nei suoi due libri finora pubblicati: “Stanotte guardiamo le stelle” e “I bambini hanno grandi sogni” (entrambi editi da La Feltrinelli).
Di recente ho avuto la possibilità di incontrare Alì Ehsani (oggi 30 anni) a Roma, dove attualmente vive e lavora come insegnante, dopo essersi laureato in Giurisprudenza.
Alì, il tuo secondo libro parla di quello che ti è successo da quando sei in arrivato Italia. Quindi, com’è stato il tuo arrivo in Italia?
Difficile. Uno pensa che appena arrivi in Italia sarà tutto più facile, che appena sei arrivato puoi dire “ecco, finalmente ho raggiunto il mio obiettivo, ora sarà tutto più semplice, ora posso realizzare i miei sogni”. Invece non è così. Io spesso dico “sopravvivere fisicamente è facile, è sopravvivere moralmente che è difficile”. Pensa a tutte le persone che vivono nei paesi in guerra: fisicamente, in un modo o nell’altro, ce la fai a sopravvivere, ma moralmente no, la guerra ti uccide.
I tuoi libri parlano della storia di un bambino: non tanto di un afghano, di un africano, di un immigrato o di una persona di colore, quanto di un bambino. A volte sono proprio gli innocenti a pagare per le colpe degli altri, perché?
Spesso sono le persone più deboli a pagare le conseguenze. I più forti e i più ricchi sono al sicuro. Pensa a ciò che riguarda i documenti: se uno dell’Arabia Saudita o degli Emirati Arabi vuole prendere un visto, in qualsiasi paese glielo danno subito, perché lui è potente e ha il denaro. Invece a una persona che ha bisogno di una protezione civile o di una protezione umanitaria non glielo daranno mai. Anche se sta per morire: lo lasciano lì a morire perché non ha nulla. Nel mondo conta solo il denaro. La differenza tra ricchi e poveri la puoi vedere anche qui, in Italia, e io l’ho vista con i miei occhi. Penso alla presentazione del mio libro: l’ho presentato in tutta Italia, ma quando vado in Puglia, dove la gente generalmente è più povera rispetto al Nord, mi rendo conto che le persone capiscono molto di più la sofferenza di una persona. C’era una ragazza che addirittura piangeva, e mi ha detto: “all’inizio a me non piaceva leggere, ma da quando ho letto il tuo libro mi sono innamorata della lettura. Io, prima, vedevo i migranti con occhi diversi, con occhi sospettosi, ma il tuo libro mi ha fatto cambiare punto di vista sulle cose. Ho acquisito una consapevolezza diversa: mi sono resa conto che prima di giudicare una persona bisogna conoscere la sua storia”. E questo dobbiamo tenerlo sempre presente, ognuno di noi ha una storia, anche quelli che si trovano sul gommone in mezzo al mare. Sono la politica e i dati a dire che quelli sono migranti, ma dietro lo status che viene loro affibbiato ci sono delle persone, con un’identità ben definita e con una storia che nessuno di noi può conoscere. Bisogna conoscere quella storia, prima di poter giudicare una persona.
La tua fuga dall’Afghanistan verso l’Italia è durata cinque anni. Quali sono stati i momenti più duri?
Beh, senza dubbio, la morte di mio fratello, quando stavo in Turchia. Avevo undici anni, e continuavo a pensare: “non ce la faccio, il mio futuro è distrutto”. Ero proprio depresso: “prima c’era mio fratello, ma adesso chi si prende cura di me?”. Fortunatamente la famiglia turca da cui stavo mi è sempre stata vicino e mi ha dato il coraggio per andare avanti.
Il secondo, quando da Patrasso non riuscivo ad arrivare in Italia: ogni giorno mi infilavo sotto un camion e puntualmente mi tiravano fuori. Un giorno riuscii ad arrivare fino ad Ancona, solo che venni scoperto e rispedito indietro. Lì avevo perso tutte le mie speranze di nuovo, tutti i miei piani mi sembravano falliti, ero stanchissimo e mi sembrava impossibile continuare ad andare avanti in quel modo.
Poi, infine, quando ho raggiunto Roma credevo che da quel momento in poi sarebbe stato tutto più facile ma invece è stata durissima. Davvero molti momenti difficili, una volta ho addirittura cercato di suicidarmi. Dopo tutte le sofferenze che avevo vissuto, dopo tutta la fatica che avevo fatto per cercare un posto dove studiare e fare una vita dignitosa, credevo finalmente di avercela fatta. Invece, anche qui a Roma, al centro di accoglienza, ho visto delle cose terribili. Io vedevo proprio Mafia Capitale, nel 2003, al centro d’accoglienza. Si arricchivano solamente loro, sulle spalle dei più poveri. Però non ho mollato, sono riuscito ad andare avanti, soprattutto grazie alla figura di un professore, che mi portava sempre in gita con gli italiani. Vedendo voi, la vostra amicizia (totalmente diversa dalla nostra nei centri di accoglienza) e il vostro spirito di condivisione, ho incontrato la figura di Cristo: è così che ho incontrato la fede. La fede mi ha dato la forza di andare avanti nella vita.
Cosa ne pensi della situazione attuale, a proposito dell’immigrazione?
Ti faccio un esempio: io sono stato ad Auschwitz, nel campo di concentramento. Quando sono arrivato in Italia avevo 13 anni, e per ottenere un documento ho sofferto davvero tanto. L’ultimo giorno sono stato alla Commissione Centrale di Roma, e le autorità dovevano decidere se potevo rimanere o meno. In quel momento stavo nel corridoio, ero agitato ed andavo avanti e indietro continuamente. Dopo due anni che studiavo per imparare la lingua italiana e che cercavo di integrarmi nella vostra cultura, guardavo quella stanza e ogni secondo guardavo quella porta chiedendomi: “quando si apre? Quando si apre?”.
Il punto è che quando si aprirà quella porta, mi diranno di entrare e sarà lì che si deciderà il mio futuro: se posso rimanere in Italia o se me ne devo andare. Dopo due anni che studiavo l’italiano, se mi dicevano: “non puoi stare”, dove sarei andato?
Lì capii che la nostra vita dipende da un’altra persona, e tuttora mi chiedo perché questo debba accadere. Gli uomini dovrebbero essere liberi, non dovrebbero dipendere da qualcun altro. Da un qualcun altro che decide: “tu oggi puoi mangiare, tu oggi non puoi mangiare. Oggi decido io che puoi rimanere, oggi decido io che non puoi rimanere. Oggi decido io se puoi vivere, oggi decido io se non puoi vivere”. Come durante una guerra: alla fine decidono sempre i potenti se vogliono fare pace o meno.
Ad Auschwitz, durante la Seconda Guerra Mondiale, le persone venivano divise in due file: quelle anziane dovevano andare nelle camere a gas e morire, quelle giovani dovevano andare a lavorare e rimanere in vita. Quando andai a visitare il campo di concentramento, realizzai che a me era successa la stessa cosa: loro hanno deciso che potevo rimanere, loro avrebbero deciso che dovevo andarmene. Come se fosse: tu devi morire, tu puoi vivere.
Immagine dalla pagina Facebook di Alì Ehsani
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