A vent’anni dalla privatizzazione del servizio idrico integrato in gran parte della penisola, è possibile trarre un sintetico bilancio di una delle più contestate riforme messe in atto dai governi, di centrodestra e centrosinistra, che si sono succeduti in questo lasso di tempo. Una riforma che, fra le tante, ha permesso alle s.p.a. pubblico-private dell’acqua un guadagno netto annuale del 7% sul capitale investito, a prescindere dal bilancio delle singole società.
Premesso che in Italia non è ancora riconosciuto per legge il diritto al quantitativo minimo vitale di 50 litri al giorno, in questi mesi è arrivata la bocciatura della Commissione UE per aver disatteso gli obblighi sulla qualità delle acque in relazione al consumo umano. Inoltre lo scorso anno la Corte di Giustizia di Lussemburgo ha condannato l’Italia a pagare una multa di 25 milioni, e una penalità di oltre 30 milioni per ciascun semestre di ritardo per la completa messa a norma, a causa del mancato rispetto delle norme comunitarie in materia di depurazione e trattamento delle acque reflue.
Nel mentre, dopo decenni di privatizzazioni in tutto il mondo, negli ultimi anni i casi di ripubblicizzazione hanno riguardato ben 37 paesi e tante città e comunità, circa 130 solo in Europa, tornate indietro di fronte al fallimento delle gestioni privatistiche. L’effetto diretto del mancato miglioramento dei servizi, e di tariffe che, lungi dall’essersi abbassate, hanno pesato sempre di più sui bilanci familiari. Al tempo stesso in Italia le reti idriche hanno continuato ad avere una dispersione media del 40% circa, e non sono state prese misure per l’uso razionale dell’acqua, soprattutto in agricoltura e nell’industria.
Dopo il vittorioso referendum del 2011 sull’acqua pubblica, che ha cancellato la vecchia normativa, in Italia solo la città di Napoli ha intrapreso con successo la via della ripubblicizzazione del servizio. Nel resto del Paese si è andato avanti come se nulla fosse, complice l’inerzia dei governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.
Solo in questi giorni è iniziata in Parlamento la discussione sulla pdl “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipata del ciclo integrale delle acque” con prima firmataria Federica Daga del M5S. Una discussione subito bloccata dalla Lega, che aveva votato la normativa abrogata dal referendum, e che è sostanzialmente contraria al processo di ripubblicizzazione.
Da non trascurare poi la massa degli emendamenti, ben 240, arrivati da destra e anche dal PD, tesi a depotenziare i punti qualificanti della legge. Punti che invece hanno caratterizzato l’attività, dal 2007 ad oggi, del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua, e che nel complesso guardano alla tutela di un bene fondamentale, sottraendolo alle regole del profitto, e prevedendo una gestione che tenga conto del suo ciclo naturale. Una visione comunista, almeno agli occhi di mezzo governo e di gran parte delle opposizioni.
Apparso su Reds – Lavoro e società Filcams Cgil, n. 4, aprile 2019
Immagine di René Ciampa (dettaglio) da pixabay.com
Giornalista de il manifesto, responsabile della pagina regionale toscana del quotidiano comunista, purtroppo oggi chiusa. Direttore di numerosi progetti editoriali locali, fra cui Il Becco.