A Empoli, presso l’Agenzia dello Sviluppo Empolese Valdelsa (ASEV), si sta svolgendo una serie di incontri sul tema dell’immigrazione che ha il grande merito di decostruire non solo il linguaggio che abitualmente usiamo quando ci riferiamo agli stranieri che arrivano o che sono già presenti sul territorio, ma anche le cornici di pensiero, l’habitus mentale e la rappresentazione socialmente costruita con cui ci approcciamo al tema dell’immigrazione e a tutto quel che ne può derivare.
La serie di incontri – avviata venerdì 8 febbraio – , dal titolo “Sapere le migrazioni. Decostruire il razzismo”, è stata organizzata da “StraniAmenti”, associazione di promozione sociale attiva dal luglio 2012, costituita soprattutto da persone che hanno condiviso l’esperienza di volontariato di “Africa insieme” dal 1989 e poi, dal 1999, i progetti pubblici dell’Agenzia per lo Sviluppo Empolese Valdelsa e del Centro Interculturale.
Quando si parla di migrazioni, di stranieri, si fa ricorso a un immaginario e a un linguaggio che, anche a causa delle casse di risonanza della televisione, della stampa e della retorica e propaganda politiche, è inquinato da stereotipi infondati che agiscono quasi automaticamente sul nostro modo di percepire il fenomeno migratorio, senza renderci conto che si tratta di costruzioni sociali che agiscono sul nostro pensiero critico e sulla capacità di riconoscimento della realtà, anche laddove è validata da statistiche e tentativi di decostruzioni scientifiche del senso comune che si limita ad additare lo straniero come potenziale pericolo per la propria sicurezza e per la propria possibilità di avere un lavoro (“gli immigrati rubano e violentano le “nostre” donne”; “gli immigrati rubano il lavoro”, “gli immigrati vengono qui per delinquere” etc, etc..). Purtroppo anche i governi di centro-sinistra hanno contribuito a consolidare e a radicare la costruzione sociale dello straniero favorendo l’equazione tra il tema della sicurezza e l’immigrazione e a costruire l’idea di un’integrazione intesa solo come obbligo, da parte degli immigrati, di adattarsi a quelli che consideriamo “nostri valori”, di “diventare come noi”.
Se apriamo un qualsiasi dizionario di scienze sociali, scopriamo, tra l’altro, che il termine “integrazione” si riferisce a una “società che ricompone a un livello più complesso i suoi settori, e perciò lei, la società si integra: L’integrazione sociale è uno stato della società in cui tutte le sue parti sono saldamente collegate tra loro e formano una totalità delimitata rispetto all’esterno. Parti della società sono i singoli individui […], le famiglie, i ceti, i gruppi, le classi, gli strati, le unioni e i partiti […]. Questa totalità sociale e dinamica, processuale, attraversa diversi ‘stati’, cioè condizioni, influenzate da diversi fattori storici e sociali. È perciò una stortura dire che un individuo «si integra» o, peggio, «si deve integrare» nella società: significa solo che si deve adattare, non che c’è una realtà dinamica e in movimento con cui relazionarsi”1.
L’integrazione è divenuta perciò parola accolta nel vocabolario dell’accoglienza e della “benevolenza” verso gli immigrati, ma nasconde in realtà un retroscena fortemente negativo e assimilativo: se lo straniero vuole integrarsi deve essere come noi, deve conformarsi a quello in cui crediamo (che poi a cosa crediamo?), alle nostre abitudini, ai nostri, appunto fantomatici valori. Integrazione significa perciò, nel suo sottotesto, assimilazione forzata, conformismo, infantilizzazione dello straniero, percepito come un bambino che deve essere educato al rispetto della società di accoglienza, e suo disciplinamento entro griglie di azione, gesti, pensieri, che noi imponiamo affinché possa essere degno di accedere a un’integrazione che siamo noi a concedere o meno.
Quello di cui si dovrebbe parlare, o meglio, quello che le politiche dovrebbero mettere in atto, sono delle strategie per favorire un reale inserimento sociale dello straniero, agevolando i suoi percorsi di ricerca di un lavoro e favorendo la sua possibilità di intrattenere rapporti umani, relazioni sociali con cittadini autoctoni. Solo attraverso un reciproco confronto non assimilante, né imposto, né forzato, ma dialettico e spontaneo (se esistono reali possibilità affinché questa spontaneità possa esser favorita), si può creare una reale inclusione, un reale intreccio di relazioni. Come si può pretendere integrazione, quando, soprattutto per quanto riguarda i richiedenti asilo e i detentori della protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria, vengono “reclusi” in centri di accoglienza straordinaria (i famosi CAS) spesso isolati rispetto al tessuto cittadino, con regole ferree che limitano uscite, entrate e ricevimento di ospiti e che dunque ostacolano fortemente i processi di inserimento (e anche questa parola non è delle più adeguate) sociale del migrante e la sua possibilità di costruire una vita intessuta di relazioni umane, di realizzare una propria stabilità economica e, non meno importante, anche psicologica ed esistenziale? Nel “Manuale per l’operatore critico” si parla, riferendosi a queste strutture di accoglienza, come di “istituzioni totali”, riprendendo l’espressione dal sociologo Erving Goffman secondo cui queste strutture funzionano spesso come luoghi di contenimento e segregazione (quali le reali istituzioni totali come il carcere o gli istituti psichiatrici), “luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso formalmente amministrato” (Goffman, 1968).
Disciplinamento e amministrazione verticale, segregazione, isolamento rispetto allo spazio esterno in cui poter tessere legami e costruire relazioni sociali, espropriazione della sovranità sulla propria vita (a sua volta degradata a parentesi sospesa in un’infinita attesa di una risposta da parte delle Commissioni territoriali), vulnerabilità e infantilizzazione del migrante, ridotto a una sorta di regressione forzata all’infanzia, condizionano possibili comportamenti considerati “aggressivi” o poco collaborativi, spesso ricondotti a una presunta cultura di appartenenza, (cultura che viene fatta erroneamente corrispondere a qualcosa di innato e naturale, come quando facciamo discorsi stereotipati dicendo che, ad esempio “i nigeriani sono poco disciplinati per cultura”, “i cinesi si isolano perché è la loro cultura”..ecc). Etichettare determinati comportamenti come violenti o riconducibili a una presunta cultura significa non tener conto del contesto in cui questi comportamenti si generano. Il contesto condiziona sempre quello che facciamo, il nostro modo di agire e di comportarci, come si evince bene dal famoso esperimento2 sulla simulazione, da parte di alcuni studenti universitari, dei ruoli di carcerieri e carcerati nella prigione di Stanford, promosso da un’equipe di ricercatori che faceva capo a Philip George Zimbardo, docente di psicologia presso la Stanford University. I richiedenti asilo si trovano in un contesto che li espropria della propria dignità di persone umane, li estranea dallo spazio esterno e li vede ridotti a bambini da educare e disciplinare: “i richiedenti asilo vivono una sorta di regressione forzata all’infanzia […]. Lo straniero come un adolescente non è autonomo nella gestione della sua vita, ma si prepara a diventarlo […] tutto il suo processo di maturazione, la complessità delle scelte che ne ha fatto un uomo o una donna, o un adolescente presto cresciuto, tanto da affrontare prove durissime pur di realizzare il suo progetto migratorio, viene disconosciuto dalle barriere fra il dentro e il fuori del Centro. […] Deve fare uno sforzo per ridurre a parentesi una condizione esistenziale che gli detta quotidianamente cosa fare e cosa non fare, lo disciplina, attraverso la promessa di privilegi e restrizioni […] Precarietà giuridica, stato di dipendenza e regressione all’infanzia sono dunque elementi strutturali della condizioni del richiedente asilo”3.
Con questo non vogliamo condannare centri virtuosi che fanno bene il proprio lavoro, ma porre l’accento sul fatto che il sistema stesso di accoglienza dei migranti per sua natura, a cominciare dall’istituzionalizzazione e dalla lontananza, nel maggiore dei casi, dai centri abitati, può aggiungere ulteriori sofferenze in chi già ha dovuto subire gravi danni fisici e psicologici e che si trova a dover vivere una vita “limbica”, una vita che non è propriamente vita se non uno spartiacque tra un prima – spesso traumatico – e la speranza di un dopo che sia diverso dalla parentesi, dal limbo che vivono nel centro, che non può, per forza di cose, somigliare minimamente a un tipo di esistenza degna di esser considerata tale. “L’istituzionalizzazione genera sofferenze psicologiche sia negli ospiti che negli operatori: molti episodi di disadattamento e di violenza che si verificano nei centri, erroneamente attribuiti alla ‘cultura’ dei richiedenti asilo, alla nazionalità o a qualche loro caratteristica intrinseca, sono un semplice effetto perverso dell’istituzione e delle sue dinamiche. […] la vita isolata e amministrata da altri è esattamente il contrario del principio ispiratore della buona accoglienza: ospitare i richiedenti asilo significa prima di tutto incoraggiare la loro autonomia e il loro inserimento nella vita sociale. Accoglierli significa metterli in condizione di poter presto camminare sulle loro gambe, trovando un lavoro, un reddito e un alloggio proprio: l’ospitalità pubblica, o comunque assistita, deve essere per definizione temporanea, e deve essere strutturata per promuovere ‘l’empowerment’, cioè l’autonomia degli ospiti”4.
Gli immigrati, non solo quelli che risiedono nei centri, ma anche quelli che ogni giorno devono lottare contro discriminazioni o che si vedono emarginati e guardati con diffidenza e sospetto da una larga fetta della popolazione,vivono in un’attesa che pare eterna (per chi attende la risposta riguardo al proprio status) o in un continuo dovere di dimostrare di poter risiedere nel paese in cui vivono e lavorano (per rinnovare il permesso di soggiorno, per richiedere la cittadinanza, per fare il ricongiungimento familiare ecc), trovandosi così a vivere una condizione di sospensione, di precarietà e burocratizzazione, in una situazione che, prendendo a prestito le parole di Abdelmalek Sayad, sociologo franco-algerino e assistente di Pierre Bourdieu (da cui ha tratto ispirazione per la concettualizzazione di alcuni fenomeni e per l’elaborazione socio-filosofica) , sconfina in una “doppia assenza”: il migrante resta così intrappolato, sospeso, schiacciato dal paradosso emarginante del “provvisorio che dura”. Trasposta nell’ordine spaziale, tale condizione si traduce in una doppia assenza: essere solo parzialmente assenti là dove si è assenti – assenti dalla famiglia, dal villaggio, dal paese – e, nello stesso tempo, non essere totalmente presenti là dove si è presenti – per le molte forme di esclusione di cui si è vittime nel paese di arrivo. Una miscela di contraddizioni che può diventare lacerante e che viene vissuta dai più spossessati come “un inferno ricoperto da un lenzuolo o, in apparenza, da un tappeto immobile fatto di tristezza, di angoscia e di sofferenza”5.
Per quanto riguarda il retorico richiamo ai “valori”, che abbiamo richiamato precedentemente, basti ricordare la “Carta dei valori” emessa dal governo Amato, un riassunto raffazzonato di alcuni principi della Costituzione – trasferiti nel termine valori – cui gli stranieri, se vogliono essere accolti e se vogliono integrarsi, dovrebbero rispettare. Il senso di una simile integrazione, e la parola stessa, risultano quanto mai ipocriti e subdoli, sia per la connotazione passiva del termine (lo straniero deve integrarsi, come se non sussistesse, semmai, un processo in atto, di reciproco confronto e di reciproco cambiamento ogni volta che avviene una interazione, ogni volta che si innesca una relazione), sia per questo obbligo, non dovuto, a un fantomatico rispetto dei valori.
Quali valori? Quali sono i nostri valori? Siamo sicuri che i valori cui si richiamano, ad esempio, i mafiosi o i corrotti, gli evasori, i politici che sbandierano e fomentano odio razziale, siano valori che lo straniero dovrebbe fare propri? La Costituzione non parla mai di valori, forse proprio perché i padri costituenti ben sapevano che in nome dei valori il nazi-fascismo si era potuto dotare di una legittimazione valoriale, di un apparato e una narrazione altamente simbolici e fortemente attrattivi. Persino il giurista tedesco Carl Schmitt – che nel maggio del 1933 aderì al partito nazista – , dopo la fine della guerra, preso da una forte smania di pace, aveva dichiarato nella sua relazione durante un convegno – finita in un breve scritto, “La tirannia dei valori” – che “in nome dei valori si fucila la gente”. La Costituzione parla di principi, dispone delle regole che dovrebbero applicarsi nella società di riferimento e che ogni cittadino dovrebbe rispettare, anche lo straniero, ma non occorre stilare una carta affinché lui segua delle regole che sono sancite per chiunque viva su quel territorio, che come tutti, ha appunto una Costituzione che esplica regole, diritti e principi. Come si legge nel bel dizionario del “Lessico del razzismo democratico” di Giuseppe Faso, emanare una “carta dei valori” da imporre agli immigrati, in particolare facendo riferimento a quelli musulmani, fin dal suo“preambolo in cui si riconducono le radici dei principi di libertà e giustizia al cristianesimo e all’ebraismo […] si fa piazza pulita del contributo di pensiero, di azione e di sangue di elementi culturalmente atei, illuministi, socialisti, e si rimuove la ricchezza di apporti e stimoli che ci è derivata dalla cultura araba e musulmana, senza i quali sarebbe poco immaginabile il sistema culturale e la spiritualità stessa del versante nord del mediterraneo. A che può servire tale forzatura, se non a escludere dal riconoscimento il mondo di provenienza degli immigrati musulmani? Questo mancato riconoscimento li costruisce come altri, abissalmente lontani da un noi idealizzato e falsificato, e ancestralmente legati ad abitudini violente. […]”6.
Non esistono valori a cui bisogna costringere qualcuno ad adattarsi, perché i valori sono soggettivi, cambiano da individuo a individuo e pertanto sono negoziabili, mentre un principio, un diritto deve essere valido per tutti, non è contrattabile: il diritto all’eguaglianza non è un valore, ma, appunto, un diritto, un principio che deve valere per tutti. Sul principio di eguaglianza non si può essere d’accordo o in disaccordo, su un qualunque valore invece sì, vi è un relativismo di fondo che rende possibile il confronto e il conflitto che, inteso nel senso positivo, apre ai punti di vista e alle diverse prospettive, alle differenti visioni sul mondo. Relativismo che non deve esserci quando viene invece stabilito un diritto, che, per se stesso è universale, o altrimenti non è. Proprio come il diritto a emigrare, come spiega bene Luigi Ferrajoli in un articolo, il quale “fu teorizzato dalla filosofia politica occidentale alle origini dell’età moderna.
Ben prima del diritto alla vita formulato nel Seicento da Thomas Hobbes, il diritto di emigrare fu configurato dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis svolte nel 1539 all’Università di Salamanca, come un diritto naturale universale. […] Kant, a sua volta, enunciò ancor più esplicitamente non solo il «diritto di emigrare», ma anche il diritto di immigrare, che formulò come «terzo articolo definitivo per la pace perpetua» identificandolo con il principio di «una universale ospitalità». E l’articolo 4 dell’ Acte constitutionnel allegato alla Costituzione francese del 1793 stabilì che «Ogni straniero di età superiore a ventuno anni che, domiciliato in Francia da un anno, viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi una cittadina francese, o adotti un bambino, o mantenga un vecchio, è ammesso all’esercizio dei diritti del cittadino».
Il diritto di migrare fu all’inizio viziato dal suo carattere asimmetrico dato che, benché universale, era di fatto ad uso esclusivo degli occidentali ma, da allora, esso è rimasto un principio elementare del diritto internazionale consuetudinario, fino alla sua già ricordata consacrazione nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Fino a che l’asimmetria non si è ribaltata. Oggi sono le popolazioni fino a ieri colonizzate che fuggono dalla miseria provocata dalle nostre politiche.
E allora l’esercizio del diritto di emigrare è stato trasformato in delitto”7. Durante gli incontri è stata decostruita anche la retorica, proveniente non solo dai movimenti e partiti nazionalisti, ma anche dal linguaggio comune e quotidiano, che si nutre della retorica del “nostro territorio”. Giustamente si è fatto notare che un territorio non può essere ascritto a una proprietà personale, in quanto è suolo, spazio pubblico, e pertanto, è di tutti e di nessuno. Non c’è una casa loro e una casa nostra quando si parla di paesi, di territori, perché questi non sono proprietà di nessuno, non sono proprietà private e ciascuno ha il diritto di calpestare, risiedere, vivere, camminare su uno spazio pubblico e che dovrebbe essere aperto a tutti. Ma oltre al linguaggio, durante gli incontri all’ASEV sono stati decostruiti anche costruzioni sociali del razzismo e quei binomi di cui si alimentano stampa e politica, come quello tra immigrazione e criminalità e tra immigrazione e “furto” del lavoro. Nel secondo incontro infatti, ad esempio, quello che veniva efficacemente decostruito da Sergio Bontempelli (Africa Insieme) e Giuseppe Faso (StraniAmenti), era il presunto legame tra immigrazione e criminalità.
Quest’ultima di per sé è non misurabile, ci si può basare solo sul numero delle denunce che nella maggior parte dei casi restano senza l’identificazione del colpevole, soltanto il 5% degli autori delle denunce per scippi e furti sono stati individuati e all’interno di questa misera percentuale solo uno su tre – meno del 2% dei furti denunciati – è straniero, ma quanto basta per far risuonare mezza stampa italiana che “uno su tre reati è commesso da stranieri”, senza definire mai la percentuale da cui quell’ “uno su tre” è tratta. Inoltre le denunce non dipendono solo dall’attività di denuncia, ma anche da quella delle forze dell’ordine. Negli Stati Uniti esiste quello che viene chiamato “Ethnic profiling”che si riferisce al peso decisivo di fattori ritenuti “etnici” e “razziali” nel determinare l’azione da parte delle forze dell’ordine nei confronti di un individuo o di un determinato gruppo “etnico” di individui, spesso condizionate, a loro volta da stereotipi razziali che ad esempio, motivano l’equazione secondo la quale i tunisini sono tutti spacciatori e dunque più “fermabili” di altri, o che fa delle donne Rom delle ladre di bambini. Questi profili vengono elaborati su determinate categorizzazioni di gruppi etnici e guidano spesso i controlli e i fermi delle agenzie di polizia. Controlli mirati perciò solo su base etnica e, oserei dire, profondamente razzista. Le Brigate Rosse negli anni ’70 avevano studiato bene l’etnometodologia e dunque sapevano come sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine seguendo determinate linee guida su abbigliamento, capigliatura e comportamenti da tenere (un uomo in giacca e cravatta, bianco, senza barba lunga, con una valigetta e una macchina pulita e costosa risulta molto meno controllabile rispetto, ad esempio, a un uomo di pelle nera o arabo, magari con la barba lunga, gli abiti dismessi e una macchina usata o in cattive condizioni). Anche quando ci vengono sparate alcune statistiche sulla presunta criminalità degli stranieri dobbiamo stare bene attenti a leggere la cornice in cui queste statistiche si inseriscono e capire che i dati con cui veniamo irretiti, sono totalmente parziali e spesso funzionali alla veicolazione di un preciso messaggio politico e sociale.
Detto questo, per quanto riguarda soprattutto i reati minori, come ad esempio lo spaccio, come accennavamo prima, è spesso il contesto e la mancanza di reali possibilità di inserimento lavorativo e sociale che generano determinati comportamenti criminosi. La prima esclusione comincia proprio con la marginalizzazione di individui o gruppi di individui, che, spesso, non vedendosi corrispondere delle possibilità concrete per trovare un lavoro e radicarsi nella vita sociale e nella comunità di un paese, si vedono costretti, a volte, a cadere nella malavita o nella micro-criminalità, essendo molto spesso più vulnerabili e ricattabili: “in alcuni paesi, per esempio, le aziende e le amministrazioni pubbliche si rifiutano di assumere persone che appartengono a minoranze etniche o religiose (un fenomeno che, del resto, esiste anche in Europa); spesso, i governi non tutelano le minoranze contro queste forme di discriminazione […] Come scrive Jerome Valluy «il processo di persecuzione comincia spesso con sanzioni o forme di esclusione di tipo economico, prima di passare ad altri registri di violenza simbolica, materiale o fisica».8”
1 Accogliere rifugiati e richiedenti asilo. Manuale dell’operatore critico, a cura di G. Faso e S. Bontempelli, Briciole – semestrale del CESVOT (Centro Servizi Volontariato Toscana), n° 47, ottobre 2017, p. 79.
2 https://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_carcerario_di_Stanford.
3 Accogliere rifugiati e richiedenti asilo, op. cit., pp. 48-49.
4 Ivi, p. 37.
5 A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. (Prefazione di P. Bourdieu. Edizione italiana a cura di S. Palidda), Cortina, Milano, 2002, p.193.
6 G. Faso, Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono, DeriveApprodi, Roma 2010, pp. 135-136.
7 https://volerelaluna.it/migrazioni/2018/10/26/la-storia-dellumanita-e-il-diritto-di-migrare/.
8 Accogliere rifugiati e richiedenti asilo, op. cit., p 15.
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Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.