Il lavoro è da sempre un punto fondamentale di identificazione e realizzazione degli individui, oltre ad essere il fulcro centrale della sopravvivenza nelle società occidentali. Nonostante le sue trasformazioni esso continua a essere la base della nostra società, un dogma della nostra esistenza; la centralità del lavoro nelle nostre vite contrasta però con la denigrazione e la mortificazione del lavoro salariato e tutelato.
La nostra società promuove una forma di feroce competizione darwinaniana tra i lavoratori, una lotta tra poveri in un mondo in cui la domanda di lavoro (in genere di bassa qualità) è estremamente inferiore al numero dei potenziali lavoratori. Invece di pensare a una redistribuzione (sintetizzando in uno slogan un po’ riduttivo: lavorare meno/lavorare tutti) e a una “stabilizzazione” del lavoro si tende però ad accusare l’individuo di non essere abbastanza, e si pretende dal lavoratore l’eccellenza.
Questa narrazione del lavoro di eco calvinista ha ricadute psicologiche, sociali e politiche che investe in prima persona chi è escluso (o temporaneamente escluso) dal mondo del lavoro: chi rimane indietro viene definito e si percepisce come un perdente. Se non lavori è colpa tua, non hai lavorato abbastanza sodo, per cui se non riesci ad essere ricco l’unico da biasimare sei tu. Se non hai un lavoro è perché non lo hai cercato con impegno, sei pigro e ti fa comodo stare sul divano tutto il giorno.
Questo succede perché viviamo in un mondo che è di fatto contro l’individuo: la disoccupazione, come la precarietà è strutturale all’interno della nostra società attuale, ma la responsabilità dello status di disoccupato o di lavoratore intermittente viene ricondotta al singolo, non a fattori politico-sociali; si preferisce pensare più al miglioramento della singola “risorsa umana” che a una riforma vera e propria del sistema.
E così misure di tutela quali il reddito di cittadinanza vengono considerate dai politici (sia quelli che lo criticano, come il PD, sia chi lo ha attuato, ossia l’M5S) come misure per “fannulloni”, per poveri “inaffidabili” (che devono essere controllati, altrimenti sperperano tutto in alcol e gioco d’azzardo), che non sono in grado di badare a loro stessi. Critiche simili, che accusano i marginali del mondo del lavoro di “fancazzismo” si sono ripetute anche nei governi del recente passato: i giovani che non riescono ad entrare in modo stabile nel mondo del lavoro sono dei “bamboccioni”, giovani choosy; definizioni queste che denotano una incapacità di capire la società attuale con le sue disuguaglianze, anche solo a distanza di una generazione.
Questo è solo un aspetto dell’etichettamento che subiscono i fantomatici Millennials che si approcciano al mondo del lavoro carichi di aspettative impossibili da raggiungere. D’altronde, nell’età del neo-liberismo imperante, la disoccupazione diffusa, l’insicurezza lavorativa e la precarietà hanno pesanti ricadute non solo sull’economia e sulla struttura sociale, ma anche sullo status e sulla sfera psicologica degli individui:
“Il mondo del lavoro attualmente offre poco, ma esige comunque molto in cambio. Quel che bisogna chiarire è che una condizione di precariato lavorativo non rende instabile solo la situazione economica, ma mina anche lo stato psicologico delle persone. Perché non possono emanciparsi dalla famiglia di origine e costruire una propria realtà, ma si ritrovano a vivere forzatamente in una sorta di ‘adolescenza sospesa’. I giovani si trovano a volte in condizioni comparabili all’indigenza, con conseguenti frustrazione e perdita dell’identità sociale; quasi sempre, quando hanno un lavoro, sono comunque sottopagati. Tutto ciò crea incertezza anche a livello delle proprie capacità e competenze, abbassando la stima di sé”1
Ma non sono solo i giovani a soffrirne: chi si trova senza lavoro o ad alternare lavori precari dopo una certa età senza possibilità di prospettiva inizia ad affrontare l’”ageism”; basta guardare le offerte dei centri per l’impiego per accorgersi come la maggior parte degli annunci in quanto indirizzati ai giovani (più sfruttabili e convenienti, grazie ai programmi di tirocini e gli apprendistato). Il protrarsi della non indipendenza economica, l’impossibilità di ottenere contratti decenti porta le persone a disagi psicologici anche gravi, e in alcuni casi anche a livello di salute fisica: molti si ritrovano a dover sopportare lavori estremamente pesanti fino a età avanzate, al fine di sopravvivere ed evitare l’indigenza e la precarietà.
Che siano giovani, giovani adulti o “vecchi”, tutte le potenziali “risorse umane” devono quindi trovare il loro percorso per poter entrare / rientrare mondo del lavoro, adattandosi a un sistema che gli rema contro già dalla partenza. E poco importa se questo si deve spostare di chilometri per lavorare, se le condizioni di lavoro sono al limite dello sfruttamento, o se si deve rinunciare alle proprie aspirazioni, cambiare campo lavorativo dopo anni di esperienza / studi in un determinato settore: l’individuo deve essere adattabile, non deve avere riferimenti spaziali, familiari o di carriera. Deve essere flessibile per essere occupabile.
L’adattabilità è fondamentale: l’individuo deve essere sempre pronto ad addomesticarsi alle circostanze, perché il problema non è mai ciò che lo circonda, la responsabilità dei suoi errori la deve sempre cercare in sé stesso. Questo poiché il discorso neoliberista non chiama mai in causa condizioni strutturali, ma fa riferimento solo ed esclusivamente al singolo ed alle sue responsabilità.
In un mondo che cambia, il rischio è quello di divenire “obsoleto” proprio come un macchinario industriale superato o un software non aggiornato. L’individuo è perciò chiamato a formarsi continuamente per potersi adattare ai capricci del mercato del lavoro. Il potenziale lavoratore deve infatti seguire la logica del lifelong learning; anche nei casi in cui esso sia estremamente formato (lauree, master, dottorato etc.), le sue abilità non saranno mai abbastanza per il mercato del lavoro. La logica delle competenze alimenta un circolo vizioso senza soluzione di continuità per cui l’individuo non è e non sarà mai abbastanza, qualsiasi cosa faccia e farà. La forza lavoro è mero capitale umano, che deve migliorarsi in continuazione al fine di essere perfettamente vendibile per il mondo del lavoro.
L’individuo deve “costruirsi” attorno al suo lavoro, migliorare non solo le sue abilità tecniche e/o specialistiche, ma anche le sue soft skills: la risorsa deve avere capacità di relazionarsi con gli altri, essere creativo, critico (ma non troppo), resiliente, con capacità di leadership e di problem solving. Le capacità relazionali e soggettive diventano criteri prioritari per selezionare il personale. Se non avete abbastanza competenze per poter rientrare nel mondo del lavoro non preoccupatevi, corsi per disoccupati o sessioni di aggiornamento aziendale vi aiuteranno a scoprire voi stessi e le vostre abilità, al fine di metterle a disposizione del capitale.
Il termine resilienza, che è diventata la parola più usata dai Meme motivazionali e dai manager, è emblematico per comprendere questa mentalità: parola importata dalle scienze dure, è stata utilizzata dalla psicologia per enfatizzare la capacità del singolo di superare con positività gli eventi traumatici.
Termini come questo, applicati al management, diventano parte della retorica liberista che tende ad enfatizzare l’idea che l’individuo sia il solo responsabile di se stesso e non debba dipendere da un sistema di welfare state. L’uomo deve essere resiliente, quindi deve essere capace di resistere e assorbire gli urti e i problemi dell’esistenza, senza rompersi. Deve accettare i problemi e le difficoltà, avere la capacità di rialzarsi da solo, di ri-organizzare perennemente la propria esistenza.
Lo stesso comunicato stampa dell’ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna citato poc’anzi in quest’articolo sottolinea come la risposta al disagio individuale deve essere trovata nella capacità di resilienza del singolo:
“Nonostante questo contesto di instabilità, molte persone possono comunque reagire all’incertezza cercando di gestire autonomamente la situazione di crisi, utilizzando al meglio le proprie competenze, conoscenze, abilità relazionali, cercando anche appoggio quando necessario. La capacità di far fronte in maniera positiva alla precarietà, di riorganizzarsi quando ci si trova in difficoltà, riporta al concetto psicologico di resilienza.”
La resilienza permette di adattarti al precariato. E riuscire ad adattarsi con successo è la principale strategia dell’ideologia manageriale, poiché la plasticità e la flessibilità nel mondo del lavoro aumentano la performance del singolo; inoltre, se il singolo è in grado di adattarsi a tutto, sopporta e interiorizza sempre nuovi modi di lavorare. Maggiore è l’adattabilità del lavoratore, e minore saranno gli impulsi conflittuali. Accettando questa mentalità il lavoratore arriva gradualmente ad accettare qualunque cosa, rischiando di incorporare le narrazioni che giustificano lo sfruttamento (o l’auto-sfruttamento) e mortificano la professionalità del lavoratore: per fare esperienza, per formarti, per ottenere visibilità accetti lavori gratuiti o sottopagati e nella speranza di un rinnovo del tuo contratto accetti straordinari su straordinari.
1 Comunicato stampa ordine degli psicologi Emilia Romagna “L’adolescenza sospesa dei giovani d’oggi. L’Ordine degli Psicologi ER sulla condizione di precariato lavorativo ed esistenziale” (vedi qui)
Immagine liberamente tratta da www.flickr.com
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.