«Forse il fatto più rivoluzionario della nostra coscienza del XX secolo […] è la distruzione di ogni equilibrio tra la teodicea implicita ed esplicita del pensiero occidentale e le forme che la sofferenza e il suo male attingono nello svolgimento stesso di questo secolo. […] Morte di martiri, morte data nell’incessante distruzione di questa dignità di martiri da parte dei boia, distruzione il cui atto finale si compie oggi nella contestazione postuma di di questo stesso fatto del martirio da parte dei pretesi “revisori della storia”. Dolore nella sua malignità pura, sofferenza per nulla. […] Ma questa fine della teodicea che si impone davanti alla prova smisurata del secolo non rivela forse, nello stesso tempo, in maniera più generale, il carattere ingiustificabile della sofferenza nell’altro uomo, lo scandalo che deriverebbe da me che giustifico la sofferenza del mio prossimo? Così che il fenomeno stesso della sofferenza nella sua inutilità è, per principio, il dolore d’altri. Per la sensibilità etica – che si conferma, nell’inumanità del nostro tempo, contro questa inumanità – la giustificazione del dolore del prossimo è certamente la sorgente di ogni immoralità.»
(Emmanuel Levinas, La sofferenza inutile, in Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro1)
Emmanuel Levinas, nato a Kaunas, in Lituania, nel gennaio 1906 e morto a Parigi il dicembre 1995, è stato certamente un gigante della filosofia contemporanea. Eppure, paradossalmente, una figura laterale alle grandi correnti che hanno fatto la storia maggiore di quella porzione proteiforme di pensiero occidentale che viene comunemente chiamata filosofia Continentale.
Formato dalla fenomenologia, appassionato cultore di studi ebraici, Levinas si trova al giorno d’oggi in genere relegato a poche pagine nelle storie dell’etica o a poche righe nei manuali di storia della filosofia contemporanea, perlopiù come proponente di una variante del personalismo particolarmente concentrata sull’Altro2, o di un umanitarismo talmente rigido da condannarsi all’utopia. E la riflessione di Levinas è in effetti una materia indocile, a partire da una scelta linguistica che recupera dal vocabolario teologico e che non si offre ad una lettura disattenta, a tratti ostile alla stessa costruzione disciplinare occidentale, passando per una concettualizzazione serrata e spesso spiazzante.
Ma proprio dal confronto con le principali correnti di pensiero sue coeve, all’interno della storia più ampia del XX secolo, si può forse capire meglio la modalità dell’essere marginale di Levinas, ovvero il suo non aver mai rinunciato a giungere alle conclusioni ultime e all’impegno di un pensiero che è già responsabilità, che lo ha per tutta la vita collocato nella posizione di voce critica ed esigente: mentre le filosofie strutturaliste e poststrutturaliste si articolavano in una critica “da sinistra” allo «stato di cose presente», e mentre le variazioni heideggeriane convergevano in un attacco “da destra” alla società della tecnica e dell’inautenticità, Levinas rovesciava il quadro stesso della filosofia “illuminata” occidentale, criticandone duramente la pretesa di tutto comprendere e tutto ridurre, ponendo l’etica – e non l’ontologia – come filosofia prima, e proclamando al tempo stesso la fine di ogni teodicea. Non è qui possibile, per ovvie ragioni, ripercorrere nell’interezza l’etica levinasiana, di per sé articolata e complessa, ma a quest’ultima questione è forse utile accennare rapidamente.
Teodicea è tradizionalmente quella parte di teologia filosofica che si occupa del problema del male (come può esistere il male nella creazione divina? Perché Dio permette il male? In che modo Dio è buono? Eccetera…); in Levinas, teodicea è qualunque costruzione del pensiero che tenti di spiegare il male3, e quindi offrirgli in un certo senso una giustificazione razionale, consolatoria. Ebbene, è la storia del Novecento – secondo Levinas – e più precisamente la barbarie dei nazisti e dei loro complici, a sancire inappellabilmente la fine della teodicea; di fronte ai campi di sterminio ogni tentativo di spiegare e comprendere il male non solo si mostrerebbe in tutta la sua pochezza, ma sarebbe di fatto una inaccettabile giustificazione dell’ingiustificabile.
Levinas non offre quindi una politica4, forse anche perché non si rende disponibile ad alleviare alla politica e per la politica il peso della riflessione etica, né a fornire l’ennesima giustificazione alla presunta autonomia della pratica politica. Ciò che resta all’uomo di fronte al disumano, ciò che lo deve impegnare, per Levinas, è la pura e semplice opposizione.
Un pensiero che non volesse essere teodicea sarebbe quindi – seguendo questa linea di ragionamento – condannato al mutismo, di fronte a fenomeni storici devastanti come i totalitarismi novecenteschi? Ci si troverebbe forse al cospetto di uno scacco definitivo dell’impresa conoscitiva, ultima vittima della distruttività umana?
Sì e no. Da un lato ogni comprensione, nel senso di costruzione razionale volta a inserire il fatto di questa malignità abietta come effetto di cause, si scontrerebbe contro i limiti della teodicea; d’altro canto, a mio parere, un tipo di conoscenza del male rimane per Levinas possibile, sempre che non si confondano categorie critiche, causalità ricostruite a livello di storia e in breve la struttura del discorso razionale con la realtà ontologica dei fatti, riconoscendo una distanza incolmabile tra una sofferenza che deve rimanere inutile ed il discorso del filosofo. Soprattutto, questa conoscenza potrebbe essere accettabile, in termini di adeguatezza all’”oggetto” conosciuto ed eticamente, se e solo se non finisse per frapporsi tra l’essere umano ed il terrore che deve provare di fronte alla «malignità pura».
[Continua nei prossimi giorni]
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Emmanuel Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998. Tr. it. di Emilio Baccarini ↑
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Come, ad esempio, nell’efficace sintesi dell’etica levinasiana di Luca Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica, Carocci, Roma 2006, pp. 166-176 ↑
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Cfr. Michael L. Morgan, The Cambridge Introduction to Emmanuel Levinas, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2011, pp. 31-34 e pp. 195-201 ↑
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Sui rapporti tra la vita di Levinas e le questioni politiche del suo tempo, vd. Ibid. ↑
Immagine: Kurt Schwitters, Construction for Noble Ladies (dettaglio)
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.