Crisi in Corea del Nord: opinioni a confronto
L’intensificazione del programma nucleare militare nordcoreano ha causato un rapido aumento della tensione nell’area. Tale tensione si somma a quella già esistente tra Cina e Stati Uniti, al revanscismo del governo di Tokyo, alle crisi politiche in Corea del Sud e nello stesso Giappone e all’incertezza circa la nuova (?) politica estera di Washington nel prospettare uno scenario di instabilità intorno alla penisola. Dopo un primo improvviso sbilanciamento in favore della “opzione militare” la diplomazia statunitense starebbe valutando una più vasta gamma di alternative, forse anche soffrendo un “buyer’s remorse” sulla scelta di denunziare l’accordo sul nucleare iraniano, scelta che ha rafforzato le posizioni estremiste di Kamenei.
Mentre Pyongyang continua a raffinare la propria tecnologia nucleare, il contesto circostante appare criticamente frantumato e incapace di trovare una linea comune per affrontare il problema. L’unica condizione in grado di fermare l’escalation del riarmo – copiose sanzioni cinesi contro il piccolo e agguerrito vicino – sembra davvero remota: a meno di forti contropartite, è da escludere che Pechino risolva i problemi di Trump e consegni la penisola al governo del Sud, magari rischiando di farne una Libia sui generis.
L’inasprimento della situazione coreana e il crescere della tensione con gli Stati Uniti si inserisce nel filone neoconservatore americano di prevenzione alle prerogative dei Rough States.
Tra questi troviamo Paesi ormai falliti e smembrati dalla guerra. È ovvio che alla luce di un’esperienza simile la Corea del Nord abbia come unica scelta, dettata da basilari ragioni di sopravvivenza, potenziare il proprio apparato militare. Purtroppo però, senza l’appoggio di una grande potenza amica (la Cina o la Russia), la sua posizione non può che essere destinata a peggiorare, poiché si innescherebbe inevitabilmente la strategia dell’accerchiamento e dell’isolamento dai propri alleati che ha preceduto gli ultimi fatali attacchi imperialisti a Libia e Siria.
La presidenza Trump si sta caratterizzando per un’intelligente accelerazione della aggressiva politica statunitense sul versante asiatico: da un attacco diretto alla Cina (ancora insostenibile) si è passati agli scontri con la Corea del Nord. L’omicidio di Kim Jong-nam che in Occidente è passato come una congiura di palazzo del regime socialista, si è invece rivelato come una mossa contraria agli interessi nordcoreani, poiché la Malesia ha esplicitamente rifiutato di restituire il corpo alla Corea del Nord evitando accuratamente ogni indagine imparziale sul caso.
Insomma, l’imperialismo statunitense ha nel proprio bersaglio il capofila dei Rough States, uno degli ultimi Paesi socialisti del mondo e sarebbe una strategia alquanto miope da parte delle potenze dei Paesi emergenti lasciarli nuovamente da soli.
Si dovrebbe sempre partire da una verifica delle conoscenze e degli elementi di cui si dispone per una valutazione. Nel caso della Corea del Nord ci sarebbe da ammettere un livello di ignoranza diffuso, costruito tra le battute su Razzi e le foto di Kim Jong-un.
La “generazione Erasmus” è cresciuta convinta di avere il diritto di trovare un Mc Donald’s in ogni principale città del mondo, di bersi una Coca Cola ovunque si trovi nel globo e al contempo lamentarsi del risotto ai porri che rischia di mangiare il proprio figlio a scuola. Chi è diverso e non si omologa deve avere qualcosa da nascondere, deve temere la libertà a noi tanto cara. Gli interessi economici delle multinazionali occidentali vengono sistematicamente rimossi, al pari delle strategie in politica internazionale del blocco NATO.
Trump era apparso ai più sprovveduti commentatori un elemento di rottura rispetto al deludente mandato Obama, ma appare sempre più evidente come l’inquilino della Casa Bianca si riveli spesso una mera variante estetica, influenzando qualche declinazione di una strategia generale al servizio di precisi interessi da tempo non più analizzati e dibattuti all’interno del largo sistema di informazione. L’opinione pubblica del vecchio continente e statunitense brancola tra pregiudizi e pulsioni complottiste, immaginando la specifica realtà nord coreana quale prodotto surreale di un mondo diverso dal nostro. Gli articolati interessi del continente asiatico sono invece tra i principali segnali di un contesto globale in forte mutamento, dove la dignità dei popoli è messa in secondo piano.
La specificità della storia e della cultura coreana non conta. Vale l’idea di un una libertà perfettamente coincidente con i messaggi hollywoodiani. Se non ti conformi sei un nemico del progresso e dell’uomo. In modo speculare reagiscono troppi “nuovi” intellettuali che ritengono le società occidentali il male assoluto, esaltando i modelli dei paesi demonizzati sui principali telegiornali (con bufale veicolate da testate nazionali e non da link su Facebook). In troppi rimuovono il senso della peculiarità storica e culturale di un popolo, che può essere valorizzata in un rapporto di pace con gli altri, con un confronto costruttivo che interpreti il “governo del mondo” in modo multipolare, richiamando i diversi protagonisti alla difesa degli interessi di chi dovrebbero rappresentare e tralasciando vuote narrazioni da riviste scandalistiche.
La Nord Corea e la sua crisi ci parlando di un mondo occidentale che non è in grado di leggere ciò che accade al di fuori degli schemi che si è auto-imposto. La Cina si impone all’attenzione generale come il vero paese da studiare per provare ad articolare una qualche idea sul futuro del nostro mondo, cercando di mettere sempre al centro delle analisi la lettura dei processi economici e quelli che sono gli interessi delle “classi dominanti”.
In Corea non è solo la linea del cessate il fuoco ad essersi congelata al 1953. Anche il meccanismo di propaganda in Occidente ricalca fedelmente quello già applicato, in uno scenario a noi più vicino, circa la divisione della Germania: abbinare continue provocazioni militari a una retorica vittimista e difensista. Ma realtà e propaganda arrivano a un punto di frattura: gli stessi mezzi di informazione occidentali, nel descrivere qua e là la Corea del Nord come una minaccia alla pace e Kim Jong-un come un folle autore di improbabili esecuzioni (celebre lo zio sbranato dai cani, anzi no, leoni), con incurante schizofrenia non possono nascondere che tutta la strategia nucleare di Pyongyang è centrata sul “second strike”: detta altrimenti, ha carattere meramente difensivo.
L’obiettivo pare insomma tutelarsi dalle aggressioni imperialiste che in tempi recenti hanno fatto strame di Paesi con arsenali non competitivi con quelli statunitensi: l’Iraq, la Libia, la Siria, l’Ucraina.
Anche per questo non si capisce per quale motivo si debba considerare minacciosa la Corea del Nord quando il suo primo avversario globale è proprio l’unico Paese ad aver davvero usato l’arma atomica contro i civili, nonché il responsabile di oltre un migliaio di test nucleari. I Paesi sospettati negli ultimi anni di aver sganciato testate atomiche risultano stretti alleati di Washington (Arabia Saudita e Israele nel conflitto yemenita). Non più di tre mesi fa Trump ci avvertiva via Twitter che gli Stati Uniti avrebbero dovuto procedere a un forte riarmo atomico.
Una volta che si sia quindi conosciuto il contesto reale per quello che è anche le epurazioni nel regime appaiono frutto meno di mania distruttrice e più di esigenze di tutela della nazione da infiltrazioni ostili. Oltre gli Stati Uniti, infatti, neanche gli altri nemici della Nord Corea risultano meno avversi alla pace: Abe, che ha sempre rifiutato di scusarsi per i crimini di guerra giapponesi, ha allegramente “re-interpretato” con legge ordinaria l’articolo 9 della Costituzione consentendo il dispiegamento internazionale delle forze militari nipponiche. Al momento è nell’occhio del ciclone perché, tramite la moglie, avrebbe versato un milione di yen a un educatore scolastico di estrema destra. Le dimissioni, per analoghi casi di corruzione, della Presidente sudcoreana Park potrebbero aprire le porte del governo di Seul al Partito democratico, più morbido verso il vicino del nord e deciso a rivedere le installazioni missilistiche concordate con gli Stati Uniti.
Sebbene la politica isolazionista di Pyongyang impedisca una reale comprensione delle dinamiche politiche e socio-economiche in atto nel paese, i mezzi di informazione occidentali non si fanno scrupoli a bombardare l’opinione pubblica di notizie che, per forza di cosa, risultano di dubbia veridicità e dal carattere fazioso.
L’obiettivo è sempre lo stesso: isolare politicamente e soprattutto economicamente uno “stato canaglia” che non vuole uniformarsi e denigrarlo tramite una sapiente narrazione in stile hollywoodiano (in questo caso: il cattivo e sanguinario Kim Jong-un che affama il suo popolo e che vuole distruggere il mondo e che solo un bravo e fiero americano può fermare). Si tratta della stessa strategia messa in atto dagli Stati Uniti e dai suoi alleati in molti angoli del pianeta e che si è rivelata in tutta la sua cinica brutalità con la guerra in Iraq. Può far paura la corsa agli armamenti intrapresa da Pyongyang e che non accenna a diminuire ma quando sei circondato da basi militari statunitensi, giapponesi e sud coreane l’unico potere realmente in tuo possesso è la deterrenza. Così, lungi dall’essere una follia megalomane, il piano della Corea del Nord di dotarsi dell’arma atomica risponde a un calcolo politico semplice ma lungimirante: un arsenale nucleare metterebbe relativamente al sicuro il paese da una possibile aggressione occidentale impedendo così alla Corea Del Nord di diventare l’ennesima colonia controllata da Washington.
Una pedina fondamentale in questa partita a scacchi è la Cina che da una parte deve a ogni costo impedire che la Corea de Nord scivoli nella sfera di influenza occidentale, dall’altra avrebbe tutto l’interesse a sostituire il poco affidabile Kim Jong-un con un leader più mansueto e controllabile da Pechino. L’indipendenza della Corea del Nord si gioca su questo delicatissimo equilibrio fra imperialismi contrapposti. Solo alla luce di questa situazione internazionale occorre leggere le mosse di Pyongyang che non può lasciare nulla al caso se vuole salvarsi, incluse le purghe di partito e la corsa agli armamenti. Non si tratta certo dei deliri di un pazzo, come farebbe comodo credere. Come al solito, sostituendo la categoria di imperialismo con quella di Stati Canaglia, si rischia di confondere le cause con gli effetti.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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