La protesta dei pastori sardi ha ben poco di folkloristico e si inserisce in un contesto di crisi del mercato di prodotti tipici locali costretti a soccombere sempre più alle dinamiche della grande distribuzione, al crollo dell’export negli Stati Uniti e alla concorrenza sleale sul Made in Italy. Così se da una parte gli industriali parlano di crisi del mercato del pecorino romano e di eccedenze nei magazzini, si sentono autorizzati a scaricare i costi sui piccoli produttori, cioè gli allevatori che vengono non solo tagliati fuori da ogni profitto ma si trovano addirittura a produrre in condizioni anti-economiche, perdendo 14 centesimi per ogni litro di latte venduto.
Ne parliamo a Dieci Mani sulla nostra rubrica settimanale.
Piergiorgio Desantis
La protesta dei pastori sardi necessita di riflessioni circa plurimi fallimenti su vari piani.
Fallimento delle politiche comunitarie europee che, piene di retorica di concorrenza e di difesa del consumatore, sono sorde ai lavoratori e alle loro retribuzioni che, spesso, coincidono con la semplice sussistenza o sopravvivenza. Fallimento delle politiche italiane che non riescono e non vogliono nemmeno far intravvedere un modello di sviluppo diverso da quello esistente (siamo davvero sicuri che le piccole e medie imprese e le piccole cooperative possano essere il modello di riferimento per l’economia italiana?). Fallimento della sinistra che continua a dividersi tra una prospettiva filo-europeista e quella dei no-euro e si compatta sulla retorica antisalviniana (che, infatti, si riaccredita quale condottiero di questa battaglia).
Salvaguardare la sopravvivenza degli allevatori e coltivatori sardi è, nell’immediato, il primo compito del governo in carica (per il momento si è mostrato abbastanza sordo), però dopo è necessario e urgente costruire un altro tessuto connettivo economico su comparti assolutamente essenziali per l’Italia. Continuiamo, infatti, sorreggendoci (traballando) all’agroalimentare, che ci hanno lasciato e per il quale abbiamo grande tradizione, tuttavia, anche in questo campo, scontiamo gravi ritardi. È il caso, almeno, di prenderne atto.
Alex Marsaglia
Nell’Italia della post-modernità in cui si pensa alle opere megagalattiche finanaziate dal mostro imperialista europeo e su cui i padroni puntano tutte le loro strategie speculative, abbiamo scoperto che la gestione del latte di pecora è un problema. A dire il vero lo è tutto il settore agricolo e della pastorizia, ormai strozzinato sempre più dalle dinamiche della grande distribuzione e costretto ad esercitare il più bieco sfruttamento della manodopera salariata.
Così nell’Italia che abbandona la modernità per inserirsi a pieno regime nell’età postmoderna le opere avveniristiche diventano un must, mentre vengono a mancare le basi dell’economia a km zero. La storia culturale del nostro Paese viene rasa al suolo non solo per quanto riguarda l’arte purtroppo. La crisi del commercio mondiale ha quindi i primi risvolti tragici nel nostro Paese, già falcidiato dalla deindustrializzazione. Infatti, nella Sardegna deindustrializzata non esiste solo il turismo ma la pastorizia è un settore d’impiego che torna a rafforzarsi. È la post-modernità della deindustrializzazione.
Così nel settore del pecorino sono impiegati in circa 35mila, con un indotto di circa 10mila persone. La maggioranza delle imprese coinvolte nel mercato del pecorino sono a base familiare e il 50% è fatto di cooperative in cui i pastori sono soci lavoratori. Tanto basta per fornire un carattere di classe a questa protesta, fatta dai lavoratori contro l’industria della grande distribuzione, che ovviamente non ha intenzione di pagare nemmeno un centesimo della crisi commerciale, preferendo piuttosto portare sui propri scaffali prodotti contraffatti lasciando senza lavoro i pastori sardi.
Dmitrij Palagi
Difficile davvero dire quali conflitti siano di classe, in molti casi, nel contesto del nuovo capitalismo globale. Il tema della coscienza e dell’organizzazione non può essere eluso.
Lo sfruttamento alla base di un sistema evidentemente non sostenibile è palese. A chi difende i propri diritti e interessi si può chiedere però di sviluppare anche un orizzonte più ampio di cambiamento e di superamento dello stato di cose presenti in chiave alternativa rispetto al capitalismo? La traduzione politica ha una centralità da ricercare in fasi diverse, a cui dovrebbero arrivare i partiti (o le nuove organizzazioni che aspirano/concorrono a giocare un ruolo analogo).
Sulla rete si finiscono per trovare puntualmente semplificazioni in sintonia con i difficili tempi presenti. Per alcuni saremmo di fronte a un gruppo di piccoli imprenditori che vogliono vedere tutelati dei privilegi a carico della fiscalità generale. Una tutela rispetto al mercato esclusivamente riservata a un pezzo di produzione. Per altri saremmo invece di fronte a un conflitto di classe, dove le contraddizioni corrispondono alle parole di Lenin, che invitava a non aspettare mai di ritrovare nella società qualcosa di puro.
Fuori dalle contrapposizioni teoriche rimane un caso capace di evidenziare i limiti del capitalismo del XXI secolo. Esistessero delle proposte di classe rispetto a produzione economica, rapporto con l’ambiente e la terra, distribuzione delle merci, si sarebbe offerto un palco importante.
Al momento però al pubblico si offrono improbabili e incapaci personaggi attenti solo a sviluppare un po’ di consenso elettorale, in attesta che il sistema imponga un cambio di cartellone.
Jacopo Vannucchi
Al di là della questione immediatamente economica e dei problemi della filiera agro-industriale, la protesta dei pastori sardi pone un problema non meno profondo, ossia quello della crisi del consenso.
La protesta, in particolare con gli episodi di distruzione del latte verificatisi in numerose occasioni, ha infatti assunto i tratti di una jacquerie contadina, una rivolta spontanea realizzata in improvvisi scoppi di rabbia.
Ho preso come esempio dei diversi centri in cui i pastori hanno rovesciato il latte il comune di Olzai, teatro di una delle azioni più riportate dalla stampa (la creazione di un “fiume” di latte tramite lo svuotamento delle taniche nell’arginamento del rio Bisine).
La storia politica di Olzai dopo il 1945 rivela un costante predominio delle sigle Dc-Ppi-Pd, interrotto nel 2018 dall’affermazione del M5s (e, se si vuole, già dal risultato al referendum costituzionale nel 2016).
Nel 1948 la Dc rappresentava a Olzai il 44% dei voti validi e il 41% degli elettori aventi diritto; l’Ulivo, nel 2006, rispettivamente il 54% e il 43%. Nel decennio seguente l’insediamento sociale del Pd, che raccoglieva tra il 40 e il 50% dei voti espressi, iniziò a indebolirsi, raggiungendo il 37% e il 30% degli elettori rispettivamente alle elezioni 2008 e 2013.
L’insistito calo dell’affluenza – dieci punti in meno tra 2013 e 2018 – fa sì che il principale partito attuale, il M5s, con il 42% dei voti rappresenti solo il 25% degli elettori.
Sulla zona di Olzai ha pesato anche il decesso dell’ex senatore Ladu, che ha privato il territorio di un punto di riferimento, ma il problema non si limita certo alle qualità personali. La contrazione delle possibilità di spesa dello Stato nazione ha portato a una frattura dei canali di consenso che, unendosi ad altri filoni di crisi della rappresentanza (sindacale e partitica), ha prodotto in molte aree un vuoto tra elettori ed eletti. Il fenomeno fu primariamente evidente nel crollo dell’affluenza alle regionali siciliane del 2012 e, come è facile capire, insiste più duramente nelle aree periferiche.
Le jacqueries non sono certo un fenomeno ignoto in Italia: si pensi a Battipaglia e Reggio Calabria nel 1969-70, in merito alle quali limitata fu la capacità incisiva del Pci, o anche ai roghi di tessere elettorali nel napoletano nel corso di questo decennio. Ma la sinistra ha l’obbligo di imparare dalla protesta dei pastori sardi non tanto dinamiche di gestione del conflitto economico, quanto la capacità di aderire – per citare un’efficace formula togliattiana – alle pieghe della società.
Alessandro Zabban
La protesta dei pastori sardi non nasce dal niente. Le liberalizzazioni in Italia, all’interno del mercato comune europeo e in relazione ai trattati internazionali di libero scambio, hanno minato profondamente la stabilità della filiera del latte. Già nel 1984 l’Unione Europea aveva dovuto introdurre la misura compensativa e correttiva della “quota latte” per regolare l’offerta ed evitare il deprezzamento del latte. Quella misura fu sacrificata sull’altare del libero mercato nel 2015 mentre in Italia il Consorzio per la tutela del formaggio impone teoricamente delle quote massime alla produzione di formaggio, ma le sanzioni per chi sfora sono molto basse, quindi quasi tutti i caseifici , in una situazione di mercato in espansione, hanno pensato bene di sforare queste quote. Il risultato è stata una crisi di sovrapproduzione: a giugno 2018 il mercato del pecorino romano era crollato.
Gli industriali del latte, invece di assumersi la responsabilità di aver creato una crisi di sovrapproduzione, hanno scaricato gli oneri sui pastori, che non hanno di fatto alcun potere contrattuale, abbassando le cifre pagate ai pastori per la “materia prima”. Si è arrivati così al paradosso per cui a un pastore costa più produrre un litro di latte di quanto guadagnerebbe vendendolo. Insomma, la situazione era esplosiva già da mesi ma nessuno ha fatto niente per trovare delle soluzioni. Solo ora che è scoppiata la protesta, che ha avuto una discreta copertura mediatica, tutti si stanno affrettando a trovare soluzioni.
Le richieste dei pastori sono peraltro condivisibili e sono grossomodo due: il ripristino delle “restituzioni alle esportazioni” del pecorino (beneficio volto a garantire un reddito minimo ai produttori, abolito nel 1996 ma che tutt’ora esiste per altri prodotti) e soprattutto la gestione delle quote di produzione che ora vengono assegnate a industriali e cooperative lasciando i pastori con pochissimo potere di contrattazione.
La protesta dei pastori è comunque il riflesso di problemi ben più gravi e di contraddizioni che non potranno essere risolte né con dei semplici incentivi né tantomeno con la truffa del federalismo fiscale.
La Sardegna attuale assomiglia più una pseudo-colonia che a una regione a statuto speciale. Grazie a scelte imposte dall’esterno, col beneplacito di inadeguate elite locali, la desertificazione della produzione ha lasciato spazio alla monocultura del pecorino romano, prodotto a scarso valore aggiunto, soprattutto per chi produce le materie prime.
Immagine liberamente ripresa da it.wikipedia.org, Giuseppe Biasi, Pastori sardi con gregge
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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