L’Unione Europea e i suoi sessant’anni
La liberà unità politica dell’Europa” sarebbe l’obiettivo celebrato il 25 marzo 2017, a sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma. Circola anche un video dai sapori epici (guarda qui) per una data effettivamente rilevante su diversi piani, a partire da quello simbolico. Il sistema di informazione e larga parte della comunicazione istituzionale si concentra sulle prospettive di pace garantite dalla dimensione sovranazionale a seguito del secondo dopoguerra, mentre paiono ignorati i venti di intolleranza e conflitto che scuotono non poche nazioni del “vecchio continente”.
Per la stessa data, a Roma, si profilano manifestazioni di protesta, con più piazze e diverse piattaforme. Le destre sovraniste, drogate dai risultati elettorali di Trump e dai sondaggi della Le Pen, saranno sicuramente riprese dai telegiornali nazionali. Le sinistre si ritroveranno forse divise, tra chi chiede “La nostra Europa (Un’altra Europa)” e chi pensa giusto qualificare la manifestazione con la richiesta di uscita dall’Euro.
C’è un vento che soffia con la forza di una bufera su tutta Europa. È un vento, eufemisticamente chiamato populista ma di fatto fascista, che si è già fatto Stato in Ungheria. Cosa si celebrerà dunque a Roma?
I sessanta anni di un qualcosa che i popoli odiano. “Ce lo chiede l’Europa” è la frase che più spesso classi dirigenti pavide e ipocrite ripetono per giustificare politiche da loro stesse avallate nella santa alleanza (che mostra per fortuna qualche crepa) socialisti-popolari.
Sono politiche che scontentano tutti (il massacro della Grecia i greci, il monetary easing i tedeschi) e che stanno portando un’idea che affascinò per un certo periodo anche i comunisti italiani al collasso.
La sinistra in questo mare di sfiducia è un pugile al tappeto: tra “Plan b” mai veramente discussi, inseguimenti al KKE o imitazioni fatte male ai “sovranisti” per altri o richiami vuoti a una “Europa dei popoli” privi di ogni sostanza materiale. Nel frattempo si vota in Olanda e le campane suonano già a morto.
I sessant’anni dei Trattati di Roma si celebrano in un paese che si è definitivamente lasciato alle spalle ogni speranza di crescita economica. Il 25 marzo 1957 l’Italia era in pieno boom economico e stava vivendo i suoi anni migliori. Evidentemente, come ha spiegato De Cecco, quei surplus non potevano che andare a rafforzare un nuovo polo imperialista importante nello scenario globale in funzione antisovietica. Ecco così che le basi dell’Unione Europea vennero costruite proprio dal suo opposto, cioè da politiche economiche tutto sommato sovrane rispetto a oggi. E questo nonostante il giogo statunitense.
Dagli anni Ottanta abbiamo problemi di crescita, ma oggi abbiamo problemi ben più gravi, ossia di regressione e povertà sistemica all’interno di economie sviluppate. Il recente Libro Bianco di Juncker (leggi qui) evidenzia le tensioni dirompenti all’interno di questo sistema di dominio dei popoli. I cinque scenari si delineano lungo un’unica direttiva di promozione della competitività con la compressione salariale. Così la disoccupazione di massa, conseguenza della crisi strutturale, diventa curabile unicamente con lo sviluppo delle competenze e con politiche monetarie espansive. In altri termini, vuol dire che nulla verrà fatto per salvarci dal disastro e invece verrà fatto di tutto per salvare la moneta unica.
Juncker stesso ha ammesso che non c’è niente da fare “l’UE non può ridurre la disoccupazione”. E quindi a che è servito creare questo elefantiaco gigante se non può nemmeno intervenire politicamente affinché il diritto al lavoro venga rispettato? Evidentemente le finalità dell’Unione Europea erano ben altre, alla faccia dell’art. 1 della Costituzione della Repubblica italiana!
È quindi mancata la volontà e la disponibilità, non la possibilità, di intervento nel mercato del lavoro che si è invece preferito lasciare fluttuare in libertà affinché le sue risorse umane venissero sfruttate al meglio. Insomma, siamo alle solite: ci si lamenta del populismo antieuropeista e parallelamente si adottano le più sfrenate politiche capitalistiche basate sulla riduzione del lavoro, l’automazione e la riorganizzazione dei cicli produttivi basata a sua volta sull’unico principio della massimizzazione dei profitti. Chi volesse approfondire le schizofreniche vette raggiunte può leggere la stroncatura punto per punto fatta dalla Rete MMT (leggi qui). L’unica speranza è che i popoli stessi la smettano una volta per tutte di lasciarsi dominare da chi li riduce all’inattività e alla miseria e pretende pure di aver legittimità quando afferma che è politicamente impossibile sollevare le loro sorti. È ora che le sorti dei popoli vengano decise dai popoli stessi.
L’idea di Europa ha radici profonde, cancellate dal dibattito contemporaneo. La strumentalizzazione delle ragioni a favore di un “vecchio continente” unito favoriscono chi le rimuove fraintendendo il piano progettuale. Il ritorno alla dimensione nazionale appare a troppi un utile elemento per bloccare l’attacco ai diritti sociali conquistati nel secondo dopoguerra nel “blocco occidentale”.
La globalizzazione non sarebbe stata in grado di devastare gli impianti costituzionali progressisti anche senza un blocco sovranazionale di natura meramente economica? L’euro, senza alcuna corrispettiva unità politica, è certo simbolo di un sistema economico e politico a misura di mercato, in cui l’uomo deve piegarsi a presunte leggi assolute in grado di garantire pace ed evoluzione. Però pensare che dagli anni ’50 i movimenti operai nazionali non abbiamo ottenuto le loro vittorie grazie ad un contesto globale in cui si percepiva la possibilità di un’alternativa possibile al capitalismo (l’Unione Sovietica) è poco adeguato alla sfida rappresentata dal nuovo corso economico modellato a partire dagli anni ’70.
La convocazione di manifestazioni separate, da parte della sinistra di alternativa italiana, in occasione dell’anniversario dei Trattati di Roma, è la palese dimostrazione di un’elaborazione analitica e di proposta politica insufficiente. La sovranità è una categoria su cui sarebbe bene tornare a confrontarsi, perché troppo spesso la classe sociale viene identificata senza problematizzare una dimensione statale con cui si è chiesto il sacrificio di milioni di proletari per guerre inutili e fratricide.
L’euro è parte del problema l’uscita dall’euro può essere parte della soluzione, ma concentrarsi sulle parti porta a perdere la possibilità di considerare il quadro complessivo.
La mattina del 25 giugno scorso Juncker concluse tra gli applausi la propria conferenza stampa rispondendo un secco «No.» a una giornalista della BBC che chiedeva se la Brexit fosse l’inizio della fine per la Ue. In effetti il voto per l’uscita del Regno Unito può rappresentare un’occasione di forte ripresa e accelerazione dell’integrazione. In primo luogo perché libera la Ue dal peso morto di un grande Stato che ha sempre ottenuto esenzioni ad hoc dagli obblighi comunitari e sabotato il processo di integrazione fornendo copertura politica ad altri vari antieuropeismi nazionali. In secondo luogo perché mostra ai pesci piccoli le difficoltà e gli svantaggi (eufemismi) che derivano, anche a un grande Paese, dall’abbandono del quadro europeo. In terzo luogo perché fornisce l’opportunità, ai principali governi nazionali, di accordarsi per una ristrutturazione delle istituzioni e dei processi decisionali.
L’Europa a più velocità, rilanciata da Roma, Parigi e Berlino e invocata in questi giorni da Giscard d’Estaing, prevedrebbe il rinsaldamento di un nucleo centrale con l’esclusione, per ragioni differenti, di tre tronconi: il gruppo russofobo e xenofobo dei Paesi dell’Est; i Paesi del Mare del Nord e del Baltico; i Balcani. Il primo gruppo, ben felice di ricevere i fondi per lo sviluppo infrastrutturale e di fare dumping salariale contro altri Paesi membri, rifiuta però di condividere la gestione dell’immigrazione e aizza una politica estera di violento confronto contro la Russia. Il secondo gruppo si è sempre mostrato refrattario a qualsiasi allentamento del rigore di bilancio e molto geloso delle proprie prerogative nazionali, strappando condizioni di opt-out e sospendendo Schengen. Al terzo gruppo infine si imputa un dislivello di sviluppo nelle strutture socio-economiche troppo alto per poter coesistere con i Paesi dell’Europa occidentale.
È indubbio che in questa trasformazione ci si debba misurare con passi avanti e passi indietro: a una maggiore coesione del nucleo ovest-europeo corrisponde di fatto un abbandono dell’Est alle contrapposte ingerenze di Russia e Nato, che da capo minerebbero i tentativi di integrazione militare Ue, per la quale si può solo sfruttare la breve finestra temporale, di isolazionismo e incertezza, aperta dall’amministrazione Trump – prima che Pence e Mattis riescano a riaffermare la leadership di Washington.
D’altro canto l’integrazione continentale appare sempre più una necessità storica la cui unica alternativa consiste nella rovina dei popoli europei sotto il peso di forze economiche gestibili solo al livello sovranazionale. Lo slogan con cui parte della sinistra radicale britannica ha sostenuto l’uscita dalla Ue – «un’altra Europa è possibile, un’altra Ue no» – è frutto di una visione rovesciata della realtà: è proprio solo dentro la Ue che esiste uno spazio di manovra politica. Fuori dalla Ue aumentano la precarietà economica, l’instabilità politica e anche la stessa insicurezza dei confini; tutte circostanze che fomentano il fuoco dell’ultradestra. È solo dentro la Ue che si può correggere, come invocato in queste settimane da Matteo Renzi, la distorsione tecnocratica per ridare vita ai valori di uomini come Pertini e Terracini, il cui confino antifascista a Ventotene è stato identificato dall’ex premier come la radice fondatrice del disegno di un’Europa unita e pacifica.
A sessant’anni dal Trattato di Roma, le aspettative e le speranze che l’idea di Europa aveva sollecitato e suscitato, si sono quasi completamente dissolte. Questo perché in molti hanno ingenuamente immaginato che ci fosse la volontà politica di andare oltre una mera integrazione economica per perseguire fini più alti, come la realizzazione di una comunanza politica e sociale in grado di creare un entità postnazionale cosmopolitica fondata sul benessere diffuso e sui “diritti umani”. Ovviamente le classi dirigenti che a Roma gettarono le basi di quella che sarebbe diventata l’Unione Europea avevano in testa obiettivi molto più prosaici di libertà economica. Insomma, nonostante la retorica sulla convergenza, sull’occupazione e sugli individui con minori opportunità, l’Unione Europa poggia fin dal 1957 su solide basi liberiste. Si capisce allora come mai oggi essa appaia come nient’altro che un’area di libero scambio costruita su misura non del cittadino o dell’essere umano, ma su quella dell’impresa. Benché quantomeno abbia avuto il merito di riportare la pace nel cuore dell’Europa (ma non nelle sue periferie e confini), solo un ingenuo si può aspettare qualcosa di progressista da questa strana entità.
La questione fondamentale allora è: ciò che è nato liberista è destinato a rimanere (ed eventualmente morire) tale, o può essere modificato? Cioè, ha senso battersi per cambiare l’Unione Europea o conviene lottare per smantellarla? Io non sono in grado di dare una risposta secca, ma credo che in linea di massima qualsiasi sistema se scosso dalla fondamenta sia riformabile. Ma questo resta un principio valido solo sulla carta poiché paradossalmente è molto più facile distruggere l’Unione Europea tramite un lento smembramento, piuttosto che riformarla dall’interno dato che non ci sono organismi democratici abbastanza forti tramite i quali imprimere una trasformazione radicale delle strutture che reggono l’Unione. Il realismo politico di chi analizza le situazioni concrete ci obbliga a pensare nei termini di una scelta antitetica: non cambiare nulla o distruggere tutto. Un out out forse poco lungimirante ma la prospettiva più ragionevole, quella di una trasformazione radicale che porti a una revisione dei trattati fondativi, non ha di fatto referenti politici abbastanza consistenti.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.