Il 9 febbraio i sindacati confederali sono tornati ad una manifestazione nazionale unitaria per la prima volta dal 22 giugno 2013.
Sei anni fa la protesta chiedeva al governo Letta un cambio di passo rispetto all’esecutivo Monti e in particolare una riforma fiscale che restituisse potere d’acquisto a salari e pensioni.
Quest’anno nel mirino delle organizzazioni sindacali c’è invece la legge di bilancio, considerata regressiva e priva di aiuti per i lavoratori.
(Anche ad aprile 2016 vi fu un’iniziativa comune delle tre sigle, concretizzatasi però in varie manifestazioni sparse su tutto il territorio nazionale.)
L’evento ha i suoi motivi per essere degno di attenzione. Oltre alla valenza prettamente sindacale, infatti, si tratta del primo grande confronto con il mondo del lavoro che il governo Conte deve affrontare, e non è cosa da poco per due forze che hanno proposte di primissimo piano nel reddito di cittadinanza (M5S) e nel cambio della riforma Fornero (Lega).
È la prima grande occasione pubblica di Landini come segretario generale della Cgil. Infine, può fornire un momento di incontro per la ricostruzione di un’opposizione unita nel centrosinistra.
Alex Marsaglia
Mentre il Paese resta nella bufera della crisi economica mondiale che non accenna a lasciare la presa delle economie sviluppate assistiamo all’ennesimo teatrino dei sindacati storici.
Quanto avvenuto nella CGIL richiederebbe un commento a parte, ma si può sintetizzare con il gattopardiano “tutto cambia perché nulla cambi”. Landini infatti non si è smentito arringando la folla dei fedelissimi in piazza, ma senza convincere chi in quella piazza non c’era, cioè la maggioranza dei lavoratori dipendenti.
Nel complesso quanto fatto dai sindacati è il sunto del codismo: l’avvicinamento a Confindustria è cosa nota dal celebre strappo di Marchionne con Confindustria stessa.
Percepita dai più come una mossa in grado di salvaguardare la contrattazione collettiva nazionale da imprenditori senza scrupoli si sta rivelando in realtà un mero avvicinamento alle posizioni padronali, con uno scivolamento vero e proprio verso un neocorporativismo dei tutelati contrattualmente.
È bene rendersi conto che siamo in presenza di una legge che consente ampiamente di aggirare la contrattazione collettiva e che ha ormai smantellato le principali norme sulla salvaguardia dal licenziamento.
L’aggravante è che queste leggi antioperaie sono state approvate con il silenzio complice dei sindacati stessi che ora berciano contro il reddito dato a chi non lavora.
Tralasciamo poi la retorica vomitevole contro quota 100, perché sono convinto che gli operai metalmeccanici abbandonati da Landini siano favorevoli alla pensione anticipata anche se con l’assegno ridotto, piuttosto che regalare i propri contributi allo Stato morendo prima del pensionamento o godendone solo una parte.
Dmitrij Palagi
Terminata la cosiddetta prima repubblica anche le organizzazioni sindacali si sono ritrovate travolte dai mutamenti del Paese.
Sicuramente i confederali non si sono dimostrati all’altezza dei tempi, ma data la debolezza del sindacalismo di base (frammentato al pari di quella che i giornali chiamano “sinistra radicale”) ci sarebbe da guardare complessivamente alla società occidentale.
Come si ricostruiscono rapporti di forza e coscienza di classe in tempi di individualismo egemone?
Se nessuno prova realmente a rispondere a questa domanda le responsabilità sono collettive.
Quindi attendere una alternativa di sinistra da Maurizio Landini (o in generale dalla piazza del 9 febbraio 2019) sarebbe sbagliato. Manca un progetto politico adeguato, anche solo per le imminenti elezioni europee, per poter dare sponda a questa eventuale aspettativa.
Le organizzazioni dei lavoratori possono essere parte delle soluzioni, ma non da sole.
Era una manifestazione in cui stare, perché ha rappresentato uno dei pochi movimenti reali dell’Italia presente, ma si è misurata l’inadeguatezza di chi c’era.
L’album dei dirigenti politici presenti era più un elenco che una descrizione del panorama politico italiano.
I limiti dell’appuntamento sono quindi i limiti del contesto e concentrarsi sui dettagli non aiuterà a risolvere la questione generale.
Jacopo Vannucchi
Naturalmente fa piacere che la Cgil abbia espresso un parere negativo sul reddito di cittadinanza e che in fin dei conti negativo sia anche il giudizio d’insieme su quota 100.
E fa piacere anche l’unità sindacale nell’opposizione al governo, come non sono da sottovalutare per tale aspetto forme di convergenza tra sindacati e imprenditori.
Ma, dato che di manifestazioni sindacali ormai comincio ad averne viste più d’una, non posso non notare il ritorno, dietro l’angolo, di uno dei mostri storici che perseguitano la sinistra sindacale e politica: la passione morbosa per la piazza, la protesta e l’opposizione, che porta a un paradossale e patologico rifiuto di governare.
Mi riferisco ovviamente alla ferrea opposizione della Cgil alla costruzione di uno stato sociale per tutelare il lavoratore post-fordista (Jobs Act) e al discutibile cinismo con cui a novembre 2017 Susanna Camusso scelse di non sottoscrivere le agevolazioni pensionistiche decise dall’esecutivo Gentiloni – comunque garantite dal sì di Cisl e Uil – per agitare la bandiera di una mancata tutela di donne e giovani che, invece, erano i principali beneficiari del vituperatissimo Jobs Act.
Quel che c’è di peggio è che dietro questa cinica manovra stava il tentativo di un giuoco di sponda con Liberi e Uguali (ve li ricordate?) in vista delle elezioni del 4 marzo 2018. È utile ricordare come finirono: M5S-Lega 50%, PD 19%, LeU 3%. E tra gli iscritti Cgil? M5S-Lega 43%, PD 35%, LeU 11%, secondo un’analisi ex post commissionata dalla Fondazione Di Vittorio. Un bottino davvero magro, che non soddisfa neppure gli standard di vittoria pirrica.
Cofferati, che nel 2002 aveva solennemente proclamato di ritirarsi nel suo ufficio alla Pirelli, proprio come Cincinnato non seppe poi resistere nel 2004 alla candidatura a sindaco di Bologna. La sconfitta alle primarie di centrosinistra in Liguria nel 2015, avendogli impedito un percorso da eroe dei due mondi, lo portò a un’accesa contrapposizione politica al centrosinistra stesso.
Anche Epifani, una volta avvicendato da Renzi quale segretario del PD, scivolò silenziosamente lungo la china che lo portò poi nell’imbuto di LeU.
Di Camusso si è detto.
C’è da augurarsi che Landini, che pure al tempo di Unions! (e questi, li ricordate?) ha flirtato con la politica, non si sa quanto seriamente (ma esistono flirts serii?), si faccia legare al palo come Odisseo nel mare delle sirene e metta l’interesse dei lavoratori – specialmente dei più deboli – di fronte a considerazioni di carattere politico e a rivalità personali verniciate di politica.
Quanto ai politici veri e propri, Cesare Damiano aveva aperto la legislatura come plus salvinien que Salvini in materia pensionistica (più o meno il Fratelli d’Italia della previdenza sociale), ma adesso si trova in piazza assieme ad altri compagni di partito che ad aprile avevano cercato un abboccamento con il M5S tramite Fico.
Tutto deve cambiare, perché tutto rimanga com’è!
Alessandro Zabban
Il ruolo di subalternità dei sindacati confederali mentre in questo paese veniva demolito pezzo dopo pezzo lo stato sociale, precarizzato e sottopagato il lavoro, svendute le aziende pubbliche è ormai un fatto storico acquisito.
Negli ultimi anni, si è passati da una atteggiamento già squallidamente fatalista nei confronti della globalizzazione liberista a una vera e propria convergenza politica, ideologica, culturale di vaste aree del sindacalismo con le logiche mercantiliste e con le esigenze del mondo imprenditoriale.
Tanto che la delegazione di Confindustria presente alla mobilitazione sindacale dello scorso 9 febbraio non sembra ormai fare nemmeno più notizia. Lecito dunque guardare con sospetto e scetticismo a questa manifestazione che ha comunque avuto il merito di portare in piazza decine di migliaia di persone.
Ciò che appare più ambiguo di questa mobilitazione unitaria è quale lavoro si voglia promuovere e difendere. Perché, occorre ammetterlo, negli ultimi tempi ne abbiamo sentite di tutti i colori, da Di Maio che ha annunciato misure che estingueranno la povertà in Italia, al PD che vorrebbe raccogliere le firme per abrogare il reddito di cittadinanza.
L’elezione di Landini come neosegretario della CGIL da questo punto di vista potrebbe potenzialmente essere una buona notizia per chi spera in un sindacato almeno un po’ più combattivo, ma dalla piazza emergono sensibilità molto diverse.
Criticare il governo gialloverde per la sua politica economica e sociale ci sta, dato che la riforma delle pensioni e quella del reddito di cittadinanza sono misure vuoi insufficienti vuoi pasticciate. Ma sono comunque due misure in lieve controtendenza rispetto alla macelleria sociale degli ultimi anni.
Se l’accusa è quella di non aver fatto abbastanza, risulta comprensibile scendere in piazza a reclamare delle reali misure di sostegno a disoccupati, lavoratori e pensionati (anche se ci si può chiedere dove erano i sindacati quando si è abolito l’articolo 18), ma se invece l’indignazione riguarda la natura “recessiva” delle misure del governo, la sua logica “assistenzialista” che non crea “opportunità di investimento” o “ci fa fare brutta figura in Europa”, allora siamo chiaramente in presenza di un sindacalismo che ha del tutto sovvertito il senso del suo ruolo sociale.
In Piazza San Giovanni, questa ambiguità si è mostrata in maniera palese.
Lottare per i diritti lavorativi è compatibile con una critica all’azione di governo ma non con l’abbracciare le solite ricette liberiste in nome della stabilità finanziaria.
Immagine di copertina ripresa liberamente dalla pagina Facebook della CGIL nazionale
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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