Juan Gerardo Guaidó Márquez (La Guaira, 28 luglio 1983) è un politico venezuelano, presidente dell’Assemblea nazionale dal 5 gennaio 2019, dal 23 gennaio 2019 auto-dichiaratosi presidente del Venezuela ad interim». Così la voce di Wikipedia, consultata sabato 26 gennaio 2019, alle ore 12.47, dedicata a Juan Gualdò.
Il mondo ha conosciuto una nuova pagina politica, drammatica per la già tesa situazione in America Latina. Il Venezuela torna protagonista dell’attualità, anche se in maniera episodica nel sistema di informazione italiano, come troppo spesso capita ai temi di politica internazionale.
Su questo prova a confrontarsi la nostra rubrica settimanale a più mani.
Piergiorgio Desantis
Dopo Brasile, Argentina (per citare solo i casi più rilevanti) gli Usa appoggiano chiaramente un colpo di mano in Venezuela che altro non è se non un golpe.
Abbandonando i panorami della Siria e, presto, dell’Afganistan Trump si sta occupando di “normalizzare” il cortile di casa provando a concentrarsi e sviluppando una politica di potenza regionale.
Bisogna convenire che, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, tutte le volte che gli Usa sono intervenuti nel mondo (proviamo a ragionarci circa il numero e gli esiti) spesso dichiaratamente ma anche indirettamente lo stato o la regione individuata sia stato resa instabile, povera, ingovernabile.
Ecco perché ci sarebbe bisogno di un’Europa sciolta dai legami con Washington che possa rivendicare legalità internazionale, autodeterminazione dei popoli e giustizia.
Che si possa affiancare a Cina e Russia per un governo multipolare del mondo.
Per il momento bisogna convenire che ci sia solo un miope codismo.
Alex Marsaglia
Quanto avviene in Venezuela è il riflesso del ripiegamento isolazionista degli Stati Uniti che stanno rinunciando ad altri terreni di guerra nel mondo per riprendere pieno possesso del proprio “cortile di casa” (vedi immagine).
Le forme scomposte con cui stanno conducendo questa guerra imperialista contro il Paese che più di tutti nell’ultimo quarto di secolo ha rivendicato la propria indipendenza dal padrone americano sono il sintomo delle difficoltà intercorse nel far cadere un bastione.
La stessa pronta difesa al Governo legittimo di Maduro da parte delle potenze mondiali antimperialiste, come la Russia e la Cina, mostrano la rilevanza che ancora oggi riguarda questo Paese anche senza Chavez.
Non basteranno altri mille vili attentati con i droni o sterili dichiarazioni dell’opposizione finché sussisterà questa solida alleanza con i Paesi che hanno contribuito ad emancipare l’America Latina da un’economia sottosviluppata.
L’errore della mancata diversificazione delle risorse produttive venezuelane è anch’esso un segno delle difficoltà attraversate da un Paese che era altrimenti ridotto ad un’economia della sussistenza e che ha dovuto concentrarsi sull’unica risorsa abbondantemente disponibile per l’esportazione.
La riconversione del sistema economico venezuelano ha però solidi appoggi nei capitali cinesi (si veda qui) e solo le menzogne della propaganda occidentale possono propugnarci le carestie da scarsità di beni importati con una simile copertura in termini economici.
Lasciamo il piacere a chi crede in simili scoop la gioia di bearsi di queste verità, mentre le carestie da scarsità di cibo avvengono realmente nella vicina Haiti per un semplice evento naturale inaspettato.
Questo è il futuro che attende i latinoamericani se si lasceranno sottomettere a nuovo cortile degli Stati Uniti.
Dmitrij Palagi
Nel mondo progressista occidentale si era registrata una diffusa solidarietà per Lula. Il Venezuela appare decisamente più isolato.
Chávez rappresenta, anche da morto, un’anomalia incapace di innestarsi in un sistema narrativo che di fatto ha rimosso da tempo, in Europa, il tema del potere.
Il sostegno dell’esercito ha garantito un argine importante alle ingerenze statunitensi nel Paese, ma inquieta i commentatori e gli intellettuali delle sinistre.
Non mancano analisi sui limiti e le contraddizioni di un sistema economico-sociale interno a un capitalismo globale, dove lo sfruttamento delle risorse naturali appare l’unica via per scappare dalla povertà e dalla miseria di secoli di colonialismo (e imperialismo).
Però quanto sta accadendo in questi giorni in Venezuela, come spesso capita per eventi di portata internazionale, chiama in causa l’impotenza di un movimento internazionale per la pace disperso e debole.
Francia, Germania e Spagna si permettono di dare ultimatum perché vengano indette nuove elezioni straordinarie in una nazione dall’altra parte dell’oceano, mentre nel vecchio continente restano irrisolti il tema catalano e quello della Brexit (per citare solo due nodi).
Sono molte le parole con cui si potrebbe denunciare la gravità di quello che accade. L’assurda strada intrapresa da Juan Gualdò presta il fianco anche ad acute ironie.
Però fino a quando le sinistre non saranno in grado di proporre strade concrete di sostegno alle svolte progressiste (o alle cause di liberazione dei popoli), ci sarà ben poco da scandalizzarsi sul ruolo dell’esercito in Venezuela.
Sensibilizzare l’opinione pubblica? Non basta. Occorre agire anche nelle istituzioni. Legando la denuncia di quanto accade a Caracas con la costruzione di una sinistra di classe europea.
Lula era in carcere. Maduro governa.
Non stupisce che i progressisti abbiano sostenuto il primo, ma temano di compromettersi con il secondo. C’è anche molto opportunismo e resa di fronte all’attuale sistema di cose presenti.
Nel frattempo si spera che chiunque si renda conto di quanto la Lega e questo governo siano disposti a segnare discontinuità e cambiamento, in ogni ambito.
Jacopo Vannucchi
Nel respingere l’ultimatum della Commissione europea di convocare nuove elezioni presidenziali il Presidente Maduro avrebbe potuto includere un’ulteriore affermazione che, o per disinteresse o per garbo istituzionale, ha omesso. Cioè che quando si vuole trattare si tratta direttamente con il padrone e non con i fattori.
L’allineamento degli stati europei contro il legittimo governo del Venezuela ha dell’incredibile nel suo autolesionismo, ma probabilmente l’aggettivo che più si addice è “patetico”.
Come non provare commiserazione di fronte alla dichiarazione di Spagna, Francia e Germania (i “tre piccoli”, potremmo chiamarli) sulla necessità di “elezioni libere”? Parliamo infatti di tre Paesi tutti alle prese con pericolose insorgenze di estrema destra e per i quali sarebbe consigliabile che prima di partecipare alla destabilizzazione di governi popolari altrui si preoccupassero di capire cosa non funziona nel loro sistema politico e cosa foraggia in terra loro il consenso ai partiti neofascisti e neonazisti.
Non che la scelta antimadurista sarebbe più razionale se tutto in Europa andasse per il meglio: in ogni caso, il vero punctum dolens è la muta adesione – diciamo meglio: aderenza – dei governi europeiai diktat imperialisti della loro potenza tutelare.
Anche i Paesi a parole più favorevoli a una forte integrazione continentale – Francia e Germania – sono in prima fila nel chinare il capo.
Non ci si nasconde, naturalmente, il peso che hanno le decine di migliaia di soldati USA stanziati in Germania o il criminoso golpe strisciante dei giubbetti gialli.
Ed è noto che posizioni intra-atlantiche divergenti rispetto ai desiderata di Washington sono state nocive alla salute di Aldo Moro.
Colpisce però la sbalorditiva differenza rispetto alla situazione del 2002: all’epoca Francia e Germania guidavano con la Russia il fronte internazionale contro l’intervento in Iraq, che suscitava la contarietà anche di una larga fetta della società. Eppure l’Iraq ba’athista era meno pluralista del Venezuela chavista, e George W. Bush certamente meno fascista di Donald Trump. Viene da chiedersi cosa sia cambiato.
Il persistente accerchiamento della Russia tramite la Drang nach Osten della Nato e l’esasperazione dei rapporti con Mosca derivata dall’ingerenza occidentale in Ucraina hanno rinsaldato la morsa di ferro della fedeltà al Pentagono. E le opinioni pubbliche si sono supinamente accodate.
Una parola vorrei spendere infine sull’orientamento del governo italiano e in particolare del M5S, che pare al momento la principale voce pro-Maduro. Sebbene tatticamente si possa pensare di considerare, sul mero tema del Venezuela, una collaborazione col M5S (e la mia risposta è: no, il giuoco non vale la candela), è illuminante analizzare chi elabora (o chi crede di elaborare) la politica estera del partito di Casaleggio.
Due nomi: l’ex deputato Alessandro Di Battista, che da posizioni fasciste di sinistra sostiene i movimenti terzomondisti e antiamericani; il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, che da posizioni fasciste di destra guarda fermamente al governo nazional-populista del Presidente Putin.
La sinistra occidentale dovrebbe davvero svegliarsi, cominciare a dare qualche segno di vita, per evitare la scomparsa dell’internazionalismo e per evitare anche di condannare i popoli europei all’obbedienza a grandi potenze esterne (che parlino inglese o meno) invece di elaborare un’autonoma politica estera nel proprio interesse.
Alessandro Zabban
La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha avuto come principale risultato quello di dare nuovo vigore all’imperialismo occidentale, quasi del tutto a guida statunitense, con le potenze europee nel meschino ruolo di comparse comprimarie e subalterne.
Dagli anni novanta, paesi come Somalia, Panama, Haiti, Afghanistan, Iraq, Siria o Libia sono state destabilizzate o invase, bombardate e insanguinate per i meri interessi economici americani.
Nonostante i disastri che hanno prodotto queste operazioni criminali, l’ideologia dell’intervento umanitario, dell’esportazione della democrazia, continua a essere alimentata da un sistema politico apparentemente variegato che va dall’estrema destra “sovranista”, ai liberal di sinistra, ma in realtà compattato dall’esigenza comune di mantenere lo status quo di una società globalizzata profondamente ingiusta, alienante e che riproducendo le sue logiche interne si avvicina a passi spediti verso il baratro del cataclisma climatico.
Dopo averci provato in Siria e aver lasciato sul campo centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati, ora lo stesso giochetto del “dittatore” cattivo che deve essere abbattuto viene applicato a uno dei pochi paesi che rappresenta un modello alternativo rispetto alle barbarie neoliberiste, il Venezuela.
La retorica della democrazia non aveva mai rasentato tanto il ridicolo come in questa circostanza. Intanto perché si vorrebbe affermare la democrazia andando a distruggere uno dei pochi paesi che rappresentano una diversità di sistema e di modello, operazione che già di per sé è antidemocratica, visto che non riconosce il pluralismo e nega ogni possibilità di fare, in economia e in politica, diversamente. E poi perché rispetto al Venezuela, dove ci sono elezioni regolari e dove una costituzione moderna e pluralista è sostanzialmente rispettata, ci sono molti stati decisamente meno democratici che però non finiscono nel mirino delle potenze occidentali solo perché obbediscono ciecamente ai dettami di Washington.
Se veramente Maduro è il tiranno da abbattere in nome della democrazia, perché non sono state attaccate anche l’Arabia Saudita (che è un feroce regime teocratico) o la Turchia (che a differenza di Maduro, imprigiona gli oppositori politici)?
Insomma l’ipocrisia regna sovrana e la cosa sconcertante è il consenso che ancora queste posizioni imperialiste e interventiste riscuotono nell’opinione pubblica, fra sovranisti ma solo per se stessi e una sinistra liberal che rincorre le posizioni di Trump e Bolsonaro contro un paese socialista.
Ma quando hai milioni di persone che preferirebbero vedere un immigrato annegato piuttosto che nel loro quartiere, cosa c’è da aspettarsi?
Immagine di copertina liberamente ripresa da flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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