Front National: una tempesta in arrivo sulla Francia?
La rilevanza attribuita alla campagna elettorale per le imminenti elezioni presidenziali in Francia è dovuta alla portata potenzialmente distruttiva che queste potrebbero avere. La scesa in campo della leader del Front National Marine Le Pen, gli alti e bassi nelle primarie francesi e gli scandali che hanno travolto il cavallo da battaglia della destra tradizionale Fillon: se a questo aggiungiamo il fatto che lo scontro sociale nel paese va acuendosi (quello legato alla presenza di migranti ma anche le manifestazioni contro la Loi Travail) e che l’unica risposta data è quella del prolungamento della legislazione di emergenza, è facile presagire il peggio.
Il populismo francese non costituisce di certo, nell’Unione Europea che celebra i sessant’anni dalla sua nascita, un caso a se stante: movimenti di destra che gridano ad un ritorno all’interno dei confini nazionali, lasciando fuori chi è diverso, sono presenti oramai in molti paesi. Ma la minaccia rappresentata da Le Pen, che due giorni fa è tornata alle origini antisemite tanto care al padre affermando che in caso di vittoria negherà agli ebrei francesi la doppia cittadinanza israeliana, è percepita come particolarmente pressante. E a ragione.
Stupisce l’allarme Le Pen, come mi stupì nel 2002, quando fu Le Pen il vecchio a destare scalpore nel mondo quando riuscì ad accedere al ballottaggio poi vinto da Jacques Chirac.
Stupisce perché un partito pericoloso per la democrazia, per il sistema valoriale di un Paese, lo si bandisce, non lo si agita come uno spauracchio per dargli più forza la volta dopo non mettendo in campo una svolta che lo depotenzi nel contempo.
Marine Le Pen non vincerà in Francia, la Francia che ha provato la vergogna di Vichy ha ancora, per pochi anni ancora, degli anticorpi repubblicani in grado di bloccare il Front National.
Il punto è che se ad esso non si oppone un’idea di segno opposto ma di uguale forza le destre neofasciste, ormai sdoganate legalmente e nell’immaginario pubblico (né più né meno che la lega da noi. Forse occorre ricordarsi che ad essi non andrebbe nemmeno stretta la mano né si dovrebbe partecipare a dibattiti con costoro), si ripresenteranno la volta dopo. Fenomeni migratori complessi (che le élite europee non sono in grado di risolvere alla radice strette come sono tra spoliazioni dei Paesi in via di sviluppo, concorrenza salariale interna e securitarismo “moderato” o estremo per tener buone le folle), un’Europa cameriere di lusso di gruppi transnazionali privati (quante volte abbiamo sentito dire: “questo non si può fare perché sarebbe aiuto di Stato”, quasi fosse una imprecazione rivolta a Maria Vergine), sono solo due delle fascine che alimentano il fuoco del fascismo.
Alla sinistra francese, divisa oggi come lo fu nel 2002, e come lo è sempre, è affidato il bandolo della matassa. Su una piattaforma non buonista ma marxiana sull’immigrazione, su una linea decisa in Europa (integrazione ma per galantuomini non per bucanieri) e sulla NATO (che sì, non è più tabù smantellare) può vincere e dare una vita migliore ai discendenti di quella plebe che nel 1789 ha dato al mondo una luce che per non essere spenta va alimentata ogni giorno, ma con politiche diverse, più avanzate, altrimenti c’è poco da lamentarsi qualora accada l’irreparabile.
Se la crisi strutturale ha permesso l’affermazione di un Donald Trump, dobbiamo anche capire che l’elemento economico non è l’unico a giocare un ruolo fondamentale nell’esplosione dei populismi. Se in Europa e negli Stati Uniti i populismi stanno inevitabilmente prendendo una piega di destra la ragione sta nelle politiche scellerate sostenute dalla sinistra socialdemocratica.
Negli Stati Uniti la crisi strutturale ha partorito prima Obama, poi Trump. In Francia la crisi ha avuto un effetto politico molto più blando finora, poiché si è avuta la classica alternanza tra centro-destra e centro-sinistra. Purtroppo, nonostante il gioco delle tre carte della statistica riporti i tassi di una crescita della produzione industriale italiana neanche fossimo in Cina, questo consenso attorno al centro moderato della politica sta saltando sempre più. In Francia la prima forza di massa fuori da questo centro moderato è da sempre il Front National. La retorica politica per attrarre le masse occidentali sulla via della pauperizzazione viene disvelata su siti specialistici (leggi qui) e lo stesso programma politico del FN si presta a facili rivolgimenti: dal keynesismo moderato si può passare al liberismo moderato in men che non si dica.
Del resto se Trump ha basato la campagna elettorale sulla volontà di smantellare la NATO e la prima richiesta ufficiale al nostro governo è stata quella di aumentare la spesa militare per l’ombrello NATO non si possono assolutamente nutrire facili illusioni sui populismi di destra.
Resta un dato di fatto dirompente: queste spese di cui ci viene chiesto di farci carico sempre più (militarizzazioni in primis) non sembrano sostenibili in un contesto di crisi strutturale. Non è da escludere che parte del programma economico di keynesismo moderato di queste destre populiste vada proprio a sostenere questa militarizzazione della società come unico vero settore di intervento statale importante. Per il resto l’Euro e l’Unione Europea si stanno dimostrando come al solito poco flessibili alle fluttuazioni politiche e già stanno operando con lo spread verso Olanda e Francia vagheggiando rischi di default in caso di vittoria di schieramenti politici sgraditi. Insomma, se vinceranno i populismi di destra la democrazia inevitabilmente virerà verso l’autoritarismo, viceversa ci spetterà ancora questo regime tecnocratico. In ogni caso la democrazia che sognavano le prospettive dell’eurocomunismo è sepolta: coi populismi si risolleveranno gli Stati-nazione in forme nuove e con la tecnocrazia questi verranno annichiliti sempre più in nome del bilancio dei poli imperialisti. Non resta che scegliere dove condurre la battaglia.
Ingenuamente può stupire la scelta di Gianfranco Fini di commentare le ultime vicende della destra occidentale prendendo le distanze da Trump e da Le Pen. Nella puntata di Otto e Mezzo della scorsa settimana a cui era stato invitato la lettura di un sistema istituzionale e di informazione che si oppone al “popolo” poteva uscirne rafforzata. Da un altro punto di vista chi è abituato alla politica secondo le modalità della Prima Repubblica ritrovava nell’ex Missino una capacità analitica invidiata tanto a lui quanto a Romano Prodi e Massimo D’Alema (per rimanere nel campo dei nomi noti a sinistra in cui ci si imbatte comunemente in questo genere di discussioni).
“Capisco chi vota Trump negli Stati Uniti e la Le Pen, ma non credo che questi due esponenti difendano gli interessi nazionali dei loro Paesi e in Francia è certo che il Front National non vincerà“. A dirlo è un esponente che ha portato Alleanza Nazionale ed i fascisti al governo, insieme a Lega Nord e Forza Italia (quindi alcune cose descritte con terrore dal sistema di informazione potremmo dire che sono già avvenute, in piccolo).
Perché riportare questa posizione? Perché lo spauracchio delle destre è effettivamente l’ultima difesa del sistema. La ricerca spasmodica di rafforzare quella declamata posizione pseudo-churchilliana sulla democrazia occidentale quale pessima forma di vita politica, ma pur sempre la meno peggio di quelle conosciute (e quindi di quelle conoscibili).
Il corto circuito è pericoloso. La sinistra di alternativa tende a dividersi pericolosamente su questo scenario, anche in termini storici. Da una parte il rifiuto della narrazione e la sottovalutazione del pericolo (perché Trump e Le Pen sono pericolosi), dall’altra la tentazione di abbracciare mortalmente le forze cosiddette riformiste (un tempo socialdemocratiche). Rispetto al paradigma europeo: da una parte accodarsi alle parole d’ordine euroscettiche di destra, dall’altra porsi a difesa di una istituzione antipopolare ed elitaria.
Il gioco della borghesia è ai limiti del crimine (politico). Dare spazio, come fa il Corriere della Sera, a letture che paragonano il Front Nazional ai partiti comunisti del Novecento è fuorviante. Può convincere gli anticomunisti a votare forze moderate e non cedere alla destra estrema, ma contribuisce a colpire mortalmente una sinistra già cadaverica, diffondendo false letture di fenomeni inquietanti, ma tutto sommato meno “fastidiosi” (per il sistema) di chi ancora insiste a richiamarsi al pensiero di Marx.
La signora Le Pen ha aperto la campagna elettorale promettendo l’uscita francese da Unione europea e Patto atlantico in nome del ritorno alla “Europa delle nazioni”: una formula che, quando applicata, si è puntualmente tradotta in Europa delle trincee, dei campi di prigionia, dei rastrellamenti. A confermare questa tendenza la stessa Le Pen ha minacciato gli ebrei francesi di proibire loro la cittadinanza israeliana, in quanto Israele non fa parte dell’Europa. Sono gli stessi argomenti teorizzati novant’anni fa da Alfred Rosenberg, Adolf Hitler e Julius Streicher.
La crociata anti-Ue e anti-Nato pare godere dell’appoggio di Mosca, che nella destrutturazione delle organizzazioni occidentali vede la via per rompere l’accerchiamento. Nonostante una certa affinità ideologica tra nazional-populismi, per Putin è pericoloso fare l’antifascista in Ucraina e il fascista in Francia: un equilibrismo di Realpolitik che non considera come la maggior libertà diplomatica derivante dallo sfaldarsi delle alleanze internazionali sia, in realtà, un maggiore rischio di guerra e una maggiore insicurezza per tutte le nazioni.
Di una cecità ancor più imbarazzante danno prova diversi governi ovest-europei. Mentre Trump è affaccendato in leggi razziali e retate di stranieri, detti governi si affannano a supplicarlo di mantenere in vita la Nato (compresa, ovviamente, la brutale dittatura di Erdoğan) invece di cogliere l’occasione per costruire finalmente una Comunità europea di difesa, che rilancerebbe l’autonomia militare dell’Europa ed eviterebbe agli inquilini del Cremlino di foraggiare l’estrema destra.
Proprio alle presidenziali francesi, tuttavia, suona come nota positiva la popolarità di Macron, cui si affianca in Germania quella di Schulz in vista del rinnovo del Bundestag a settembre. Nonostante l’ex Presidente dell’Europarlamento si segnali come atlantista di ferro, erede delle visioni missilistiche di Schmidt, risulta pur sempre un tenace paladino dell’integrazione europea. L’Europa a due velocità invocata dalla cancelliera Merkel è una necessità improrogabile in una Ue ostaggio di mese in mese delle varie elezioni nazionali o locali (fra un mese votano in Olanda tredici milioni di elettori, causando il panico) e di governi reazionari beneficiari netti del bilancio comunitario.
Il Front National ha esercitato una forte influenza sulle forze populiste di destra che negli ultimi anni sono emerse come reazione a un mondialismo incontrollato e selvaggio. Così, mentre l’Unione Europa rivolgeva il suo sguardo preoccupato quasi unicamente all’ascesa di Marine Le Pen, stavano contemporaneamente spuntando come funghi movimenti nazionalisti altrettanto rilevanti in ogni angolo del Vecchio Continente.
Se solo fino a 5 anni fa, il Front National rappresentava per molti la più grave minaccia per l’UE, oggi, dopo la Brexit, Donald Trump e il rafforzarsi del populismo ovunque, una eventuale vittoria del Front National non sarebbe semplicemente vissuta come uno spiacevole ostacolo al processo – all’epoca considerato irreversibile – di integrazione europea, ma avrebbe delle conseguenze politiche ben più profonde.
Sullo slancio del successo di questi progetti politici affini, Le Pen può recuperare quello slancio che sembrava essersi affievolito dopo la trionfale vittoria alle elezioni europee del 2014. Gioca anche a suo favore l’acutizzarsi del conflitto sociale che, da latente, sta ora esplodendo in una Francia delusa dai fallimenti del governo a guida socialista: le grandi proteste di piazza contro la legge sul lavoro, la minaccia del terrorismo islamista, i disagi sempre più evidenti che pervadono le banlieue parigine, sono il sintomo di una tensione che ha già superato i livelli di guardia.
Da questa situazione si possono già trarre alcune conclusioni politiche: i due principali partiti politici francesi sono in una crisi gravissima, accentuata dalla vittoria alle primarie di due outsiders come Fillon per i Repubblicani e Hamon per i Socialisti. Questo contesto ha aperto ancor più la strada a Marine Le Pen da una parte e a Macron dall’altra, banchiere di Rothschild e indipendente di centro. Un prevedibile ballottaggio alle imminenti elezioni presidenziali fra queste due personalità rischia di accentuare il disagio e lo spaesamento già sperimentato dalla sinistra nel confronto Clinton – Trump: chiunque dei due vinca, i più deboli perderanno.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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