Una panoramica sul continente sudamericano dopo la vittoria di Bolsonaro
Nel 2008 undici dei diciotto paesi latino-americani erano governati da presidenti di centro-sinistra o sinistra. Dieci anni dopo la situazione appare decisamente diversa. Cosa resta oggi di quella stagione politica e culturale che aveva significato per l’America Latina un clamoroso “giro a la izquierda”? I movimenti sociali e politici che all’inizio del nuovo millennio avevano trionfato col motto del “ritorno allo stato”, stanno ora mostrando evidenti segni di cedimento. Gli ultimi anni sono stati particolarmente severi nei confronti delle esperienze di governo più o meno progressiste che si sono avvicendate nei paesi latinoamericani. Prendendo in esame anche solo i paesi dell’America Meridionale, dove resistono esperienze di sinistra estremamente significative, si è comunque costretti ad evidenziare un quadro del tutto deprimente.
Nel 2016 il riflusso neoliberista contagia in primis l’Argentina. A pagarne pegno è il peronismo di sinistra incarnato dai carismatici Nèstor e Cristina Kirchner. La scioccante affermazione dell’imprenditore Mauricio Macri con un programma smaccatamente filoamericano e ampiamente liberista, impone un pesante cambio di rotta in un paese che per molti anni è stato caratterizzato da una politica assistenzialista e statalista. Le difficoltà della sinistra sudamericana non si fermano però qui. In Brasile l’impeachment ai danni di Dilma Rousseff apre definitivamente la strada ad un governo antipopolare e antiprogressista guidato dal centrista Michel Temer, fautore di una politica economica del tutto neoliberista nelle intenzioni e nei metodi. Tramonta così l’avventura governativa del Partito dei Lavoratori (PT) iniziata con il roboante successo nel 2002 di Lula da Silva. Parallelamente, l’aggravarsi della crisi economica in Venezuela getta un’ombra inquietante sul futuro dell’esperimento politico del “Socialismo del XXI secolo”. Sconfitto alle elezioni parlamentari nel Dicembre del 2015, Maduro, in crisi di consensi, si trova sempre più esposto alle ingerenze straniere e in balia della crisi finanziaria. Anche dal Perù i segnali che arrivano sono tutt’altro che rassicuranti: alle elezioni generali di aprile e giugno trionfano nelle urne i due partiti conservatori. Così, Peruviani per il Cambiamento elegge il nuovo presidente Pedro Pablo Kuczynski, economista conservatore e liberista (recentemente dimessosi per le accuse di voto di scambio) mentre Forza Popolare si impone come primo partito, nonostante la sconfitta al ballottaggio della sua candidata Keiko Fujimori, figlia del famigerato dittatore Alberto Fujimori, al quale Kuczynski ha concesso la grazia subito dopo essersi insediato da Presidente.
Nel 2017 cambia colore anche il Cile con l’elezione di Sebastián Piñera, già Presidente dal 2010 al 2014, in grado di spazzare via una sinistra divisa (almeno al primo turno) fra la coalizione dei partiti tradizionali di centrosinistra e di sinistra, al potere dal 2014 al 2018 sotto la guida di Michelle Bachelet, e il nuovo movimento politico di sinistra Frente Amplio guidato dalla giornalista Beatriz Sánchez, capace di sconvolgere il bipolarismo cileno ottenendo oltre i venti per cento dei consensi con un ambizioso programma che unisce sensibilità socialiste, liberali e di radicalismo democratico. Rispetto a questo quadro, le elezioni in Ecuador hanno rappresentato una eccezione solo in apparenza. Formalmente, infatti, la Revolución Ciudadana inaugurata da Rafael Correa prosegue dato che il movimento politico da lui fondato, Alianza Pais, in aprile vince ancora le elezioni. Il nuovo Presidente è così lo storico vice di Correa, Lenin Moreno. Da neopresidente però, quest’ultimo si mette ben presto ad accusare il suo predecessore di corruzione, sprechi, inefficenza. Da qui ai primi arresti dei fedeli di Correa il passo è breve e non tardano le persecuzioni politiche a danno di tutti i funzionari della precedente legislatura, fra cui l’ex vicepresidente, Jorge Glas, arrestato illegalmente e imprigionato in un carcere di massima sicurezza senza che gli vengano riconosciuti i più basilari diritti civili. Di fatto, in Ecuador è tornata a governare la destra, in un alleanza fra poteri economici, giudiziari e militari con una frangia d Alianza Pais che ha deciso di sacrificare i successi sociali della Rivoluzione Cittadina sull’altare degli interessi della borghesia ecuadoregna. Con quel surplus di dittatura che rimanda agli anni più duri di quel paese.
Il 2018 è stato un’altro anno molto significativo per le sorti politiche del Sud America, soprattutto visti gli importanti appuntamenti elettorali: si è infatti votato in Paraguay, Colombia, Venezuela e Brasile. La tradizione conservatrice del Paraguay si conferma con l’elezione in aprile di un Presidente, ancora una volta proveniente dalle fila del conservatore Partido Colorado. Anche la Colombia non smentisce la sua inclinazione verso destra: alle presidenziali di maggio e giugno trionfa il conservatore Iván Duque Márquez, delfino dell’ex Presidente Uribe e che non a caso non si discosta quasi per niente dalla politica di quest’ultimo e da quella del suo predecessore Juan Manuel Santos, premio Nobel per la Pace nel 2016 per l’accordo di pace raggiunto con le FARC ma che ha subito di fatto tradito con una ondata di persecuzioni e omicidi nei confronti degli ex guerriglieri che avevano abbandonato la lotta armata. La Colombia di Duque Marquez resta un paese in mano a una élite corrotta poco interessata a ostacolare il narcotraffico e invece assai solerte nel finanziare illegalmente truppe paramilitari per assassinare qualsiasi giornalista, leader sociale, politico o sindacale si metta sulla sua strada. Da una parte il governo colombiano si conferma il primo paladino dell’antichavismo, portando avanti una guerra economica contro Maduro in nome dei “diritti umani”, dall’altra massacra chiunque provi a ostacolare i suoi interessi (l’accordo di “pace” con le FARC mostra tutta la sua efficacia nei numeri: solo nel 2018 sono 318 i leader sociali assassinati). La vittoria di Bolsonaro in Brasile, di cui abbiamo parlato già diffusamente su queste pagine, è uno dei momenti più neri per la sinistra sudamericana. Se la destra in Cile, Argentina o Perù almeno formalmente cerca sempre di distanziarsi dalle atrocità delle dittature militari del passato, con Bolsonaro l’apologia del fascismo à la Pinochet coi suoi abusi e le sue violenze viene sbandierata quasi con fierezza. Liberista in economia e fortemente conservatore in politica, il nuovo Presidente rappresenta il modello di una nuova destra populista allo stesso tempo autoritaria e serva degli interessi del grande capitale.
Al di là delle elezioni, il Sudamerica appare entrato in una fase politica interlocutoria. Se il “giro a la izquierda” fu la reazione al fallimento delle politiche neoliberiste degli anni novanta, che hanno significato per il continente un aumento delle disparità, la perdita di sicurezza economica per ampie fasce della popolazione e la privatizzazione di servizi essenziali, così la fase attuale sembra figlia del fallimento di quella stagione politica di dare complessivamente delle risposte decisive, a causa anche dello scenario politico ed economico internazionale. Buona parte dell’opinione pubblica vede nel Venezuela di Chavez e Maduro il simbolo di questo fallimento, rimarcando la crisi economica del paese e criticandone la presunta mancanza di libertà e democrazia. Invece, insieme alla Bolivia (più trascurata perché meno importante economicamente e politicamente) il Venezuela rappresenta l’unico esperimento socialista maturo partorito nel continente nell’ultimo decennio e quello che proprio per questo ha ottenuto i migliori risultati sociali. Non si tratta di un modello perfetto ovviamente, ma di un concreto tentativo di dare risposta ai reali problemi della popolazione: alloggio, lavoro, sanità, istruzione e sicurezza sociale. Il miglioramento delle condizioni di vita nelle fasce meno abbienti della popolazione non è mai andato, al di là della propaganda e delle fake news, a discapito dei reali diritti democratici della popolazione (ancora: non si tratta di una situazione idilliaca, ma sicuramente migliore di molti paesi sudamericani, o del Venezuela stesso prima di Chavez, considerati “democratici” perché accomodanti con l’occidente ma dove in realtà imperversano ancora squadroni della morte e dove una grande fetta della popolazione è in condizioni così miserabili da essere di fatto esclusa dalla vita civile e collettiva della società, prima ancora che democratica).
Si potrebbe anzi sostenere che il difetto delle rivoluzioni socialiste in Venezuela e Bolivia non sia il loro radicalismo, ma semmai di non esserlo stato abbastanza. Le pressioni internazionali, i tentativi di destabilizzazione, la guerra economica, gli interessi neoimperialisti, hanno costretto questi due paesi sulla difensiva, rendendo difficile proseguire un programma che mirasse a sottrarre ulteriore potere economico e politico alle ancora forti borghesie nazionali. Eppure, agli albori del 2019, sono proprio questi esperimenti a essere sopravvissuti alla nuova ondata reazionaria, a dimostrazione del fatto che andare realmente a trasformare i rapporti sociali piuttosto che limitarsi ad alleviare di tanto in tanto le sofferenze dei più deboli, alla lunga paga. Dove ha fallito invece il “giro a la izquierda”? Proprio in quei paesi che non hanno voluto o non hanno avuto la forza di seguire le orme del Socialismo del XXI secolo. In primis, in Cile dove le coalizioni di socialdemocratici, cristianodemocratici, socialisti e comunisti non sono riuscite a riscrivere una Costituzione che nelle sue linee principali è ancora quella del regime di Pinochet e conseguentemente a dare risposte concrete ai grossi problemi di democratizzazione e di riproduzione delle disuguaglianze del paese (l’istruzione cilena è ancora una delle più inique al mondo). Ma lo stesso può essere detto per due paesi che hanno avuto importanti esperienze progressiste. Uno di questi è l’Argentina dove il peronismo di sinistra dei Kirchner ha avuto un ruolo decisivo nel contrastare la povertà e migliorare le condizioni di vita delle fasce della popolazione meno abbiente ma ciò non è avvenuto in maniera sistematica rovesciando i rapporti economici ma solo tramite il dispiegamento di un programma assistenzialista finanziariamente traballante e che ha mostrato tutta la sua debolezza quando è esplosa la crisi del 2008. Discorso simile per il Brasile di Lula e Rousseff. Il PartidodosTrabalhadores si è reso protagonista all’inizio degli anni duemila di un programma di riduzione della povertà e di integrazione sociale unico nella storia del Brasile ma la crisi del 2008 invece di portare il governo su posizioni più radicali, possibilità resa difficile anche dalla necessità di appoggiarsi a partiti centristi per governare, ha visto un suo ritorno a politiche di contenimento della spesa che con Rousseff in particolare sono andate lentamente ad erodere un fetta considerevole delle misure sociali che il PT aveva promosso in passato. Sia nel caso del Brasile che dell’Argentina, il supporto delle classi lavoratrici è andato così scemando ed è inesorabilmente cresciuta l’attrattiva per una proposta di “cambiamento” che riproponesse con un nuovo lifting (spesso autoritario) le vecchie misure neoliberiste. Questo è avvenuto con ancora maggiore facilità in quei paesi in cui vittorie elettorali della sinistra non hanno coinciso con reali politiche progressiste o socialiste. In Perù e Colombia una sinistra che si è limitata a gestire le politiche neoliberiste già in vigore, ha molto rapidamente ceduto il passo, una volta esaurita l’effervescenza politica del “giro a la izquierda”, a una destra rinvigorita. A questo occorre aggiungere che come le vicende ecuadoregne, i golpe giudiziari brasiliani e i tentativi di destabilizzazione venezuelani insegnano, la sinistra non ha solo da affrontare una difficile battaglia politica per ritrovare il consenso ma deve anche vedersi da tutti i mezzi e gli espedienti che la destra impiega per prendere il potere, al di là della semplice consultazione elettorale.
È stato dunque un 2018 nero per il Sudamerica? Per molti versi sicuramente sì, come ha ampiamente dimostrato la vittoria di Bolsonaro in Brasile che pesa come un macigno negli equilibri politici del continente. Ma non tutti i segnali sono negativi. Il perdurare della Rivoluzione Bolivariana in Venezuela, che è sopravvissuta contro ogni pronostico, continua a essere un faro nella nebbia politica che incombe sul Sudamerica. La crisi di legittimità di Macri in Argentina e le grandi proteste di piazza contro le sue politiche di austerità mostrano che il neoliberismo di oggi non è più impermeabile alle critiche di quello di ieri. I successi economici del Bolivia di Morales e le proteste in Cile dei Mapuche mostrano che un socialismo che accoglie istanze, stili di vita e modelli culturali delle popolazioni indigene è tutt’altro che superato. Infine, la nascita in Cile e Perù di una sinistra nuova e radicale in grado di imporsi come alternativa credibile fa sperare in un rinnovamento ideologico e di prassi della sinistra sudamericana, che prenda come spunto i grandi meriti del Socialismo del XXI secolo e possa superarne i limiti. Nonostante tutto, la lucha sigue.
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Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.