Aumenta la tensione nella cosiddetta “guerra commerciale” tra Stati Uniti e Cina, dopo l’arresto in Canada di una delle dirigenti più importanti del gigante della telefonia mobile Huawei. Di questo e delle ramificazioni geopolitiche del conflitto economico tra USA e nuovi giganti manifatturieri parliamo questa settimana, a più mani.
La supremazia in campo tecnologico è sempre stata una parte dello “spin” delle grandi potenze mondiali. Semmai andrebbe notato come, dall’era spaziale e dalle sue epopee epiche si sia passati, finita definitivamente la battaglia tra grandi ideali e immaginari, piuttosto al terreno della competizione nello smercio consumistico dell’ultimo e più bel gadget destinato a finire nel pattume dopo poco più di un anno.
Il tema della privacy e del pluralismo nella società dell’informazione è un tema serio, spesso sottovalutato nella discussione anche da coloro che in teoria si fregiano dell’etichetta di progressisti, in cui l’Occidente non può dare lezioni di correttezza a nessuno, come provano decenni di scandali presto finiti nel dimenticatoio. Troppo spesso ormai si scade in una sorta di nichilismo rassegnato, e si smette anche solo di informarsi e di indignarsi. Oppure si scade nel tifo per questo o per quell’attore geopolitico che ci si illude incarni il “bene” o il “futuro”: una sorta di machiavellismo mal digerito che non ha più nulla a che fare con la politica, se non con il suo fallimento e la sua assenza. A chi piace.
L’isteria razzista anticinese e antiasiatica vanta in Europa, nel Nord America e nei Paesi dell’Anglosfera una triste tradizione di panici morali ingiustificati e di stereotipi tossici, rinverdita da quarant’anni di riscossa economica di uno stato che, abbandonate (o accantonate nello spazio metafisico della “transizione”) in campo politico le utopie palingenetiche di un tempo, non capiamo più o non vogliamo capire. Già recuperare l’elemento della comprensione storica, lasciando perdere le narrazioni tendenziose aiuterebbe, anche se non sembra andare di moda.
È prevedibile che continui e si implementi l’ostilità nei confronti delle aziende cinesi già al vertice del commercio internazionale. In questo caso è stata scelta Huawei ormai in cima alla classifica mondiale (sopra Apple e poco sotto la Samsung) delle telecomunicazioni, uno dei settori strategici dell’economia.
Era solo di qualche mese orsono la notizia che Huawei svilupperà la tecnologia 5g, che avrà nel prossimo futuro un impatto importante nelle relazioni non solo commerciali. L’arresto in Canada di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria e figlia del fondatore Huawei sembrerebbe essere proprio assimilabile a un avvertimento. Perfino alcuni giornali italiani , per niente filocinesi, arrivano a dire che gli interessi in gioco vadano ben al di là delle accuse formulate nei confronti di Lady Huawei (violazioni alle sanzioni americane contro l’Iran ).
Al di là delle reazioni delle autorità cinesi (come al solito immediate, pacate e intelligenti) è giusto porre l’attenzione sull’azienda in questione, soprattutto sulla governance della stessa. È stata fondata nel 1987 dall’ex ufficiale dell’Esercito Popolare Cinese Ren Zhengfei, è ancor oggi una società privata, non quotata in borsa, di proprietà dei propri dipendenti e si conferma ogni anno tra le prime società al mondo in quanto a richieste di brevetti. Siamo di fronte, quindi, a un nuovo modello societario, sicuramente innovativo rispetto a quello che ha caratterizzato lo sviluppo in Occidente. Potrebbe essere difficile da valutare per un occhio che proviene da Usa e Europa ma, di sicuro, scompagina le carte e le etichette che siamo abituati a affibbiare. Insomma, la società da porre nell’occhio del ciclone non è stata scelta a caso ma, nonostante ciò, l’ascesa delle società cinesi (statali, cooperative, private o ibride) pare sempre più difficilmente arginabile. Studiarle e farci i conti anche qui, in Italia, sarebbe cosa buona e giusta.
Dmitrij Palagi
Dalle parti della sinistra che fu si usava la categoria di campismo per definire l’abitudine a scegliere una parte qualificata come antimperialista perché ostile (od osteggiata) dall’imperialismo (a stelle e strisce si intende). Quel tipo di tifo non si ammanta di grandi spiegazioni oggi e trascende gli schieramenti, producendo rinnovate contraddizioni.
Secondo alcune persone Trump ha rappresentato una sconfitta del blocco liberista statunitense, in favore di un presunto popolo lasciato ai margini dalla globalizzazione. Distensione dei rapporti con la Russia, soluzioni pragmatiche in Medio Oriente, minore aggressività in politica estera. A oggi i mancati passi indietro sembrano più dettati dalla contingenza della crisi diffusa a livello mondiale, ben lontana dalle coste della ripresa.
In compenso le tensioni promesse dal nuovo inquilino della Casa Bianca rispetto alla Cina si sono rinnovate e qualcuno ha azzardato l’acquisto di prodotti Huawei come gesto di ribellione al sistema. Come se acquistare merci potesse davvero mettere in discussione il mercato. Quanto avvenuto è interessante e aiuterebbe chi fa analisi a proporre problematiche compresse a partire dal fatto di cronaca (su cui si sentono battute anche nei bar o nelle edicole). Basta trovare qualche organizzazione di classe che abbia la forza di fare analisi complessive e non limitarsi a tifare. Perché sennò nei campi finiscono palle di giochi diversi e nemmeno è chiaro quali siano le squadre da sostenere…
L’arresto di Meng Wanzhou costituisce certamente un nuovo capitolo nella guerra commerciale fra gli Stati Uniti e la Cina, ma la storia in cui si inserisce è abbastanza intricata. Fin dalla campagna 2016 Trump proclamò «I want to break some china» (letteralmente “voglio rompere della porcellana”, ma naturalmente China con l’iniziale maiuscolo è la RPC) e poco dopo la sua elezione fu Xi a chiamare a raccolta gli altri Paesi per difendere la libertà commerciale mondiale.
I dazi, che sono stati uno dei punti forti del Trump 2016, non sembrano più fare tanto effetto. L’8 marzo scorso il Presidente americano annunciò consistenti dazi su acciaio e alluminio, ma il 13 marzo il suo partito perse un’elezione suppletiva in un collegio che controllava da quindici anni e situato nei sobborghi de-industrializzati di Pittsburgh, sede inoltre di numerose miniere di carbone.
Meng è stata arrestata poco dopo che Trump e Xi avevano raggiunto l’accordo al G20 per la sospensione di nuovi dazi da gennaio 2019 e per la durata di 90 giorni. L’arresto, d’altra parte, è stato effettuato dalle autorità canadesi, fatto che dà modo a entrambe le potenze di condurre la propria disputa per procura. È evidente il carattere, che tale arresto riveste, di pressione sui negoziati commerciali che interesseranno il primo trimestre dell’anno.
Come spesso accade, la politica estera sembra andare a rimorchio di quella interna. Trump ha subìto una sconfitta devastante nel voto popolare nazionale delle mid-term (per i democratici si è trattato dei maggiori guadagni dai tempi dello scandalo Watergate, per giunta con collegi elettorali spesso studiati per assicurare la vittoria al partito repubblicano). Ha licenziato il suo capo staff e non riesce a trovarne uno nuovo (il capo staff di Pence ha rifiutato l’incarico). I democratici alla Camera sono pronti, se non ad avviare le procedure di impeachment, a passare al setaccio la situazione fiscale delle sue imprese. Il gruppo del partito repubblicano al Senato, seppure maggioritario, è spaccato su temi importanti (l’Arabia Saudita, la riforma penale, alcune nomine giudiziarie). L’inchiesta Mueller si rivela sempre più approfondita e sempre più vicina al Presidente. L’ex segretario di Stato di Trump, Rex Tillerson, ha rivelato che il Presidente è rimasto indispettito più volte quando gli è stato fatto notare di non poter intraprendere certe azioni perché contrarie alla legge. Per finire, l’ex direttore dell’FBI James Comey, già autore della “sorpresa di ottobre” che colpì duramente la Clinton a pochi giorni dalle presidenziali, ha pubblicamente invitato i democratici a scegliere un candidato forte per vincere la Presidenza nel 2020.
L’amministrazione di Washington è in una crisi potenzialmente esiziale. Il partito repubblicano ricorda bene la vicenda di Richard Nixon e potrebbe decidersi ad abbandonare al proprio destino un capo mai voluto dalla dirigenza neoconservatrice. Trump ha un disperato bisogno di segnare quanti più punti possibile sul terreno sciovinista – “Make America Great Again” – che ha già fatto la sua fortuna.
Gli Stati Uniti sono in evidente affanno nella competizione con la Cina sulla leadership mondiale. L’amministrazione Trump è giustamente consapevole che andando avanti per pura inerzia e senza agire direttamente, alla lunga gli equilibri geopolitici mondiali potrebbero cambiare a favore della potenza asiatica, che sta celermente colmando il gap economico, tecnologico e militare con Washington. Ma la politica della Casa Bianca non assume l’aspetto di un progetto ragionato di ampio respiro quanto piuttosto di una serie di confuse e scomposte provocazioni, utili solo a fini propagandistici.
La vicenda Huawei è l’ultima e la più grave dei tentativi di Washington di ostacolare l’ascesa di Pechino nel settore chiave dell’Hi-Tech. L’arresto della direttrice finanziaria, Meng Wanzhou, assume dei caratteri piuttosto pretestuosi, soprattutto considerando che le imprese Hi-Tech statunitensi fanno il bello e il cattivo tempo ovunque nel mondo aggirando continuamente normative ed eludendo il fisco delle nazioni in cui opera. Rispetto a questo, o alla vicenda Big Data, le accuse mosse a Huawei sono davvero poca cosa. Viviamo nel far west della globalizzazione incontrollata. Ci vorrebbero leggi che vincolano maggiormente le multinazionali, ma non solo quelle cinesi. Se fosse accaduto tutto questo a parti invertite, con l’arresto di un dirigente Apple da parte della Cina, sarebbe scoppiato il finimondo. La realtà è che gli Stati Uniti hanno paura di Pechino e del ruolo di primo piano della Huawei nella tecnologia 5G. Al contrario dell’Europa, la Cina ha resistito alla colonizzazione delle imprese hi-tech americane, sviluppando un proprio settore, che sta ora facendo passi da gigante. Qualcuno si straccerà ancora le vesti perché le autorità cinesi fanno di tutto per ostacolare Facebook, Amazon o Whatsapp. Ma in realtà in Cina si usano programmi altrettanto efficienti come Baidu, Alibaba e WeChat che oltre ad offrire gli stessi servizi, garantiscono che il loro enorme potere non rappresenti una minaccia per gli interessi nazionali di Pechino. Questa autonomia, che ha poco a che vedere con una reale censura, è quella che in Europa non si è nemmeno provato a ottenere, dimostrando – noi sì – la nostra mancanza di libertà e di autonomia rispetto al modello sempre più sinistro del Washington Consensus. Ed è proprio questa autonomia che gli statunitensi proprio non possono tollerare.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.usa.chinadaily.com