Le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti sono un tradizionale appuntamento di verifica per la Casa Bianca. Assumono un particolare significato dopo l’inattesa vittoria di Trump.
La sconfitta del Partito Democratico e di Hillary Clinton di due anni fa è stata un incidente dovuto alla sottovalutazione dell’avversario? Quanto incide l’affluenza sulla vittoria delle destre statunitensi? Il fronte progressista vedrà premiata una corrente nata all’ombra di Sanders? Questo Dieci Mani affronta il tema a ridosso della scadenza elettorale, non commentando quindi i risultati ma provando a dare spunti di lettura di quanto uscirà dalle urne.
Che negli Stati Uniti d’America tendenze politiche risolutamente di sinistra con un qualche supporto di massa siano una novità è una concezione gravemente errata ed un falso storico. Dal movimento per i diritti civili alle promesse della Big Society di Lyndon B. Johnson (oggi ricordato principalmente per il ruolo nefasto avuto nell’incancrenirsi della guerra in Vietnam), ai movimenti pacifisti di massa che proprio contro quest’ultimo si scagliavano, all'(altra) America di intellettuali come Hyman Minsky, John K. Galbraith e Michael Harrington, ai Democratic Socialists of America co-fondati proprio da quest’ultimo negli ’80s, al movimento di Seattle, gli USA hanno conosciuto anche solo restando al recente passato momenti autentici di organizzazione, lotta di classe e sue traduzioni più o meno istituzionali. Addirittura le scienze umane d’impostazione critica possono vantare negli enti di ricerca statunitensi una tradizione illustre, anche se ottenuta prevalentemente grazie all’ottusità delle controparti europee. D’altronde, data una certa concezione della realtà e della storia, dovrebbe apparire alquanto strano piuttosto il contrario.
A sorprendere è casomai il successo di mobilitazione ottenuto da candidati schierati in queste elezioni di midterm risolutamente a sinistra, in tempi bui come gli attuali. Ma forse non ci si dovrebbe sorprendere poi troppo: forse la congiuntura del momento è inerentemente premiante per gli outsiders, per i “radicali” coronati da un aura di parresiasti, di persone pronte a “dire la verità al Potere” con la p maiuscola. Mentre nel 1964 il maverick repubblicano radicalmente di destra (per gli standard dell’epoca) Barry Goldwater finiva per perdere malamente le elezioni presidenziali, al termine di una campagna in cui il suo avversario Johnson era riuscito a ritorcegli contro addirittura il suo slogan In your heart you know he’s right (dentro di te sai che lui [Goldwater] ha ragione), trasformato nel divertente In your guts you know he’s nuts (nelle budella sai che è fuori di testa), oggi un miliardario newyorchese infinitamente meno credibile di Goldwater riesce a sconfiggere una solidissima candidata democratica. Chissà che in un futuro prossimo un candidato (o una candidata) presidente democratico riesca là dove un altro candidato maverick, stavolta di sinistra, George McGovern, ha fallito nel 1972. Tutto, come al solito, starà nelle condizioni materiali, e nel gioco dell’autonomia di classe. Vale la pena stare a vedere, a partire da elezioni statali e per il ramo legislativo come queste.
Le elezioni di Midterm sono un banco di prova per Trump e per la sua squadra (che è stata variabile e ondivaga, è bene dirlo).
Se si votasse guardando solamente i dati economici, per quest’amministrazione sarebbe un trionfo: il Prodotto interno lordo vola del + 4,1% nella prima lettura del secondo trimestre. Sono i consumi, cresciuti del +4% che trainano l’economia americana, incidendo per oltre i due terzi sul dato, e soprattutto le esportazioni con un bel +9%. I numeri positivi per le classi dirigenti degli Usa ci sono quindi, nonostante guai diplomatici, dazi e guerra commerciale con la Cina.
Bisogna riflettere, però, su quanto il sistema economico americano riesca ancora (e fino a quando?) a ripartire un po’ di soldi tra le classi meno abbienti. La ripartenza dell’economia americana sarà percepita dai lavoratori americani? Quanti nuovi posti di lavoro ci saranno? Che tipo di lavoro si sta creando in America? Le famiglie in povertà assoluta sono in aumento o in diminuzione? Sono tutti interrogativi validi che meriterebbero un sviluppo ulteriore.
Al di qua dell’Atlantico si osserva, a volte esterrefatti, le mosse di Trump, aspettandosi nulla di buono per l’Europa (quest’ultima è cosa certa). Sembra che, per il governo americano, non si prospetti una caporetto a queste elezioni, quindi avrà, probabilmente, la possibilità di presentarsi anche per il secondo mandato.
Detto questo, la Sinistra o troverà una teoria (economica e non solo) e pratiche che siano alternative (senza interiorizzare le parole d’ordine della destra), oppure sarà nuovamente sconfitta.
Il semplice fatto di dare un’idea di piano generale ha reso Corbyn e Sanders delle icone del mondo progressista. Dall’estetica di Obama agli accenti socialisti, la speranza della sinistra occidentale diffusa (sempre più ridotta numericamente nella società) pare essersi spostata verso sponde più radicali. La sconfitta della Clinton è spesso utilizzata per evidenziare come sia il tempo di una internazionale progressista, che dovrebbe essere lanciata proprio a New York (dove arriverà anche Yanis Varoufakis), a fine novembre. Mentre i socialisti e i democratici continuano una fase di declino, appaiono come scogli sicuri le esperienze della penisola iberica (Spagna e Portogallo). In effetti le realtà radicali non hanno saputo raccogliere, con l’esclusione del caso Greco, lo stesso consenso delle destre reazionarie. L’opzione centrista pare pagare di più. Un’alleanza tra i moderati di buon senso e chi cerca risultati concreti per le classi sociali più colpite dalla crisi.
Sulla novità socialista nel paese a stelle e strisce ha tradotto un contributo interessante la nuova versione italiana di Jacobin (vedi qui). Su «il manifesto» spesso si evidenziano i volti giovani, femminili e appartenenti alle cosiddette minoranze.
A ridosso dei risultati ha poco senso azzardare qualche ipotesi, non ne avrei gli strumenti. Forse però è utile, prima di giustificare ogni opinione con i dati, buoni per numerose e talvolta opposte interpretazioni, chiedersi perché tanto affascinano queste elezioni di metà mandato.
L’internazionalismo e la consapevolezza di far parte di un occidente globalizzato sono ovviamente elementi necessario per chi si muove in politica. Resta la sensazione, però, di una continua ricerca di modelli di successo all’ombra della quale provare a costruire una narrazione efficace. Come se i risultati si potessero importare…
Sugli Stati Uniti questo appuntamento è sicuramente importante per comprendere la portata del fenomeno Trump, sottovalutato ma certamente inedito rispetto a quanto avevamo visto in questo inizio di XXI secolo.
I confini dei collegi per la Camera dei Rappresentanti sono ridisegnati, dai singoli stati, ogni 10 anni in occasione del censimento. Il diffuso successo del partito repubblicano nel 2010 ha portato, nella maggior parte degli Stati Uniti, a un aperto gerrymandering a favore della destra. I sondaggi della vigilia stimano il vantaggio dei democratici sugli avversari a 9 punti percentuali: quanto basta per superare il gerrymandering e ottenere la maggioranza. Se il vantaggio si spingesse a 10 o 11 punti, la “ondata blu” potrebbe dilagare in una vittoria epocale.
Tuttavia, le prospettive democratiche al Senato sono considerevolmente peggiori e nemmeno i più ottimisti credono che l’asinello riuscirà a strappare quei due seggi aggiuntivi che lo porterebbero a 51 senatori e quindi alla maggioranza.
Questo divario è spiegabile, certamente, con il fatto che al Senato i democratici si trovano a difendere una mappa elettorale durissima, tra cui cinque senatori eletti in stati in cui nel 2016 il margine Trump/Clinton è stato superiore al 15%. Ma, al di là della mappa contingente particolarmente sfortunata, a sfavorire i democratici è la crescente polarizzazione città/campagna. Il peso elettorale delle campagne è molto più forte nel Senato, in cui ad ogni stato spettano due senatori, rispetto alla Camera in cui, all’interno di un singolo stato, i collegi rappresentano un medesimo numero di elettori.
Il crescente consenso per i repubblicani nelle campagne e per i democratici nelle aree urbane gioca evidentemente a favore dei primi nella Camera alta. Obama nel 2012 e la Clinton nel 2016 hanno ottenuto entrambi circa 66 milioni di voti, ma la loro distribuzione si è concentrata nelle aree a maggiore densità di popolazione: le contee vinte dai candidati democratici furono infatti 689 nel 2012 e 487 nel 2016 (su un totale di oltre 3000).
Anche alla Camera la distribuzione del voto sarà di grande rilievo. In particolare l’attenzione è concentrata sui cosiddetti collegi “Obama/Trump” e “Romney/Clinton”, ovvero quelli che hanno cambiato posizione politica tra le ultime due presidenziali. I primi sono collegi dell’alto Midwest e dell’alto New York, in cui vi è una compresenza di due categorie sociali spostatesi a destra, ossia gli agricoltori bianchi e gli operai bianchi; i secondi sono invece collegi suburbani, sparpagliati nei grandi stati, e collegi di confine col Messico nei quali sono aumentati gli elettori ispanici (ma in questi ultimi l’affluenza è minore).
Dove, come e grazie a quali elettori i democratici troveranno i maggiori successi? La risposta che l’elettorato fornirà a questa domanda sarà per l’opposizione il punto di partenza per costruire la piattaforma anti-Trump nel 2020.
Immagine di copertina liberamente ripresa da en.wikipedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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