A volte ritornano. Nel settembre 2011 aveva portato nelle sale l’ottimo “Terraferma” (sul tema quanto mai attuale dell’immigrazione africana in Italia), vincendo il Leone d’Argento a Venezia. Emanuele Crialese, romano di origini siciliane, è uno dei registi più innovativi del nostro cinema. 25 anni di carriera con appena 5 film all’attivo: Once we were strangers, Respiro, Nuovomondo, Terraferma e ora L’immensità. Come mai tutto questo tempo? Lo scoprirete leggendo il pezzo fino alla fine. I film precedenti sono stati tutti di buon livello. Il suo capolavoro è stato sicuramente “Nuovomondo” (2006). Un’opera magnifica che trattava l’immigrazione di una famiglia siciliana in America. Una vera e propria odissea che mostrava anche i pericoli del “sogno americano”. Il film vinse il Leone d’argento a Venezia.
Le storie di Crialese hanno sempre trattato soggetti su donne, migrazioni tra la Sicilia e l’Africa. Da oltre un decennio era sparito dai radar. Stavolta ha deciso di seguire la moda del momento: parlare di sé attraverso un mix di autobiografia e finzione. Come Cuaron con “Roma”, Sorrentino con “È stata la mano di Dio” e Inarritu con “Bardo” (anche lui in concorso al Festival di Venezia 2022). Purtroppo “L’immensità” è un netto passo indietro per Crialese. Non era una pellicola da metter in concorso al Festival di Venezia.
In Respiro, Nuovomondo e Terraferma parlava di migrazioni, anche qui si parla di un percorso, uno spostamento, una transizione: ma il tema principale non è quello dell’identità di genere, piuttosto ruota intorno al discorso della relazione, di come possiamo cambiare. Noi siamo quello che siamo perché lo siamo, ma se l’altro non fosse presente in che misura e in che modo esisteremmo? L’identità è relazionale, nel caso di questo film è un racconto che si esprime attraverso la relazione dei figli con i genitori, figli di una relazione dove l’amore non esiste più. E questo disorientamento i bambini lo esprimono attraverso il proprio corpo”. Da queste parole si capisce che la parola transizione è fondamentale per il regista. Più avanti vi spiegherò il perché. Ma il regista, a Venezia, ha precisato che non è un film solo su questo tema. Eppure questa parola è una delle più importanti per capire l’elemento autobiografico del film. “Tutti moriamo e rinasciamo tante volte”. Ecco che questo film per Crialese è la rinascita. “A 30 anni non sarei riuscito a rappresentare certe cose, adesso ho tentato e sono contento di quello che ho fatto. È un film sulla libertà” – ha detto alla stampa il regista.
È una storia autobiografica che è anche un omaggio alla sua infanzia, a sua madre. Crialese ha voluto Penelope Cruz perché “è l’archetipo della donna, della madre, dell’amante. È Penelope in senso mitologico, e ogni volta che la filmavo mi sentivo Ulisse, cioè nessuno, nel senso più nobile”.
Siamo a Roma negli anni Settanta. Considerate che Crialese è nato nell’estate 1965. Clara (Penelope Cruz in stile “Volver”) e Felice Borghetti (Vincenzo Amato di “Nuovomondo”) hanno tre figli e si trasferiscono in un nuovo appartamento. Il matrimonio va in frantumi, stanno insieme per la prole. Lei è una donna forte e bellissima, lui un padre padrone che la tradisce con la segretaria. È un’Italia arcaica, patriarcale, incline a un cambiamento. L’emblema è la scena della corsa in auto, dove solo Clara non vuole correre. Mentre i figli minori attendono un gesto dalla madre, la figlia maggiore Adriana (Luana Giuliani), dodicenne, inizia a capire il clima di tensione fra i genitori. Ma il problema principale è un altro: Adriana non accetta il suo sesso biologico e si fa chiamare Andrea. “Io vengo da un’altra galassia e tu non hai poteri per aggiustarmi” – dice alla madre.
Il conflitto tra Clara e la figlia è il motore del film, così come il sentito omaggio di Crialese a Raffaella Carrà. La presenza di “Rumore” nella colonna sonora non è casuale (potete vedere la scena qui).
La cosa che però ha fatto più scalpore sono state le parole del regista al Festival di Venezia, che ha dichiarato di essere una donna che ha fatto un percorso di transizione per diventare uomo. Nata biologicamente Emanuela Crialese, ha affrontato una doppia operazione per diventare Emanuele. L’immensità rivela una parte della sua biografia che, sebbene nota agli addetti ai lavori del mondo del cinema, non lo era al grande pubblico. E del resto, non ve n’era ragione, fino ad oggi. Il personaggio di Adriana è l’alter ego del regista.
Onestamente vedendo le sue precedenti pellicole, nell’opera di Crialese è sempre stata presente una particolare sensibilità. Ecco perché in 25 anni ha all’attivo solo 5 pellicole. Purtroppo però stavolta non tutto è ben amalgamato: è un film sulla famiglia, sulle sue dinamiche interne. Crialese mette dentro troppe cose. È un film pieno di sguardi che indugia spesso sugli occhi. A tratti c’è il (melo)dramma con molta nostalgia, a tratti sprazzi di commedia in stile storia di formazione e superficiali ambizioni da musical con i pezzi di Patty Pravo, Celentano e la Carrà. Poi c’è Adriana che vorrebbe essere Andrea, una madre che deve gestire tre figli e il fallimento del suo matrimonio, ma che ha paura di mostrarlo all’esterno. Allora preferisce rimanere schiava dell’apparenza.
Tuttavia l’Italia degli anni Settanta è troppo finta, troppo pulita per essere vera. Mancano le lotte, le proteste, il sudicio, la corruzione. Crialese si limita al compitino evidenziando un Paese in costruzione. Work in progress. Un po’ troppo poco per un regista del suo calibro: uno che in “Nuovomondo” aveva raccontato i controlli medici, le prove fisiche e mentali a cui gli immigrati italiani erano costretti a subire per arrivare in America, per evitare il rimpatrio. È come se il regista italiano avesse centrifugato un po’ di Almodovar (e la scelta della musa Penelope Cruz è chiaramente coerente ed efficace) e un po’ di Ozpetek. Volendo si possono ritrovare elementi dei film di Sergio Castellitto in cui c’era anche la Cruz (“Non ti muovere” e “Venuto al mondo”).
Crialese in un’intervista ha detto che “i ragazzi somatizzano i conflitti psicologici e pongono domande che in realtà sono emozioni, perché non sono ancora in grado di porre le domande giuste. E si trasformano. Nel film c’è una bambina che non mangia, un bambino che mangia troppo e una ragazzina che, in un singolo corpo, vuole riconciliare il conflitto tra maschile e femminile. Questo, per me, è un tema ricorrente che può essere indagato in molti modi. Adriana in realtà è un mio alter ego. I bambini oggi hanno bisogno di nuove parole, per identificarsi, parlare di loro di, come sta cambiando il mondo. Si sono scocciati del maschio e della femmina, termini usati solo per rassicurare gli adulti. Prima dell’uomo e della donna ci sono gli esseri umani. I bambini ci dicono questo, vogliono scardinare un sistema, indicandoci un percorso fuori dagli schermi. E noi dobbiamo seguirli”. Difatti nel film si parla di un’epoca, gli anni Settanta, dove non era concepita la separazione. In ogni caso Clara e Felice stanno insieme solo per i figli.
“L’immensità” è un film girato soprattutto tra le quattro mura della casa. Una novità visto che i precedenti di Crialese erano stati girati prevalentemente in esterni, in spazi aperti. Notevole la metafora del canneto vicino a casa che rappresenta la (possibile) strada d’accesso alla felicità.
Il suo ritorno è importante per il cinema italiano d’autore. Bravissimi gli interpreti: Penelope Cruz e Vincenzo Amato, attore feticcio di Crialese, sono ottimi, come sempre. Luana Giuliani, giovanissima e androgina al punto giusto, è davvero la sorpresa più positiva della pellicola. Anche se ha sempre la stessa espressione imbronciata per tutto il film. Il carisma e la bellezza della Cruz tengono in piedi il film. Nel bene e nel male perché di fatto Penelope si mangia il film.
Nonostante la durata di un’ora e mezzo, la pellicola è inferiore alle aspettative: la storia ha un ritmo altalenante e poco fluido perché mette troppi temi nel tritacarne e i “sapori” non si distinguono sempre. Crialese ha presentato questa pellicola come il film che ha sempre voluto fare. Ma non dimostra tale urgenza, rimanendo nella media. Il finale, in tal senso, sa di occasione mancata, di incompiutezza. Francamente mi aspettavo, dopo 11 anni di pausa, che avesse qualcosa di più da dire. Visto soprattutto il percorso autoriale che Crialese ha intrapreso fin dal film d’esordio. L’immensità, mi sento di dire, è un’altra cosa. Canzone di Don Backy permettendo.
Regia **1/2 Fotografia *** Interpretazioni ***1/2 Sceneggiatura **1/2 Film **1/2
Fonti principali: Cinematographe, Coming soon,, Bad Taste, Cinematografo, My Movies
L’IMMENSITÀ
(Italia, Francia 2022)
Genere: Drammatico
Regia: Emanuele Crialese
Sceneggiatura: Vittorio Moroni, Emanuele Crialese, Francesca Manieri
Cast: Penelope Cruz, Vincenzo Amato, Luana Giuliani, Elena Arvigo
Fotografia: Gergerly Poharnok
Durata: 1h e 34 minuti
Distribuzione: Warner Bros
Trailer italiano
Uscita italiana: 15 Settembre
In concorso al 79° Festival di Venezia
La frase cult: Io vengo da un’altra galassia e tu non hai poteri per aggiustarmi
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.