Pubblicato per la prima volta il 17 novembre 2018
Insistere sulla criticità delle teorie queer significa anche controbattere alla campagna contro la cosiddetta ideologia gender. La campagna è partita dal 1995 dal Vaticano e dai movimenti cattolico-cristiani (da cui proviene anche l’attuale ministro Fontana, tristemente noto per aberranti dichiarazioni e proposte legislative) e oggi sta prendendo sempre più piede (si veda l’asse fascio-sovranista composta da Ungheria-Austria-Polonia, si veda il nostro stesso governo italiano, Trump negli Stati Uniti e adesso Bolsonaro in Brasile, si vedano le manifestazioni che negli Stati Uniti hanno bruciato un fantoccio di Judith Butler, etc).
Le teorie queer vengono accusate di prescrivere, di imporre un’identità sessuale considerata deviata, un’identità omo o transessuale, mentre queste teorie, come detto sopra, non sono assolutamente prescrittive, bensì critiche, invitano all’apertura di spazi di libertà, di espressione, di vivibilità a delle soggettività che fino a ora non hanno goduto di questi spazi di visibilità e vivibilità, che ancora non vedono riconosciuta la dignità delle proprie esistenze. Sono e vogliono essere teorie critiche, che criticano e disturbano le identità consolidate, criticano il senso comune, il funzionamento del potere che agisce su quelle identità/soggettività sessuali per le quali proprio il funzionamento del potere è particolarmente insopportabile, per le quali il governo attuale della sessualità risulta particolarmente gravoso, restrittivo, ostacolante.
Sono teorie che usano lo strumento della critica nel senso in cui la intendeva Foucault: “l’arte di non essere eccessivamente governati […] della disobbedienza volontaria; l’arte dell’indocilità ragionata”[1].
Socrate incarnava appunto questa azione di disturbo nell’Atene del suo tempo. È stato, si può dire, il primo grande disturbatore, il primo a usare assiduamente e concretamente la pratica della critica, della messa in discussione del dato di fatto. Il primo a scavare dietro i fatti per tirare fuori, attraverso quella sua pratica maieutica, le risposte, ma perché è stato uno dei primi a porre le domande. Alla fine è il porre domande che mette in atto il meccanismo della conoscenza, del ragionamento, della critica, dello stupore e della messa in discussione.
Come esorta Rainer Maria Rilke in Lettere a un giovane poeta, ciascuno di noi dovrebbe dire a sé stesso le seguenti parole: “Vivi ora le domande. Forse ti avvicinerai così, a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere un giorno lontano, la risposta”. Porre domande allo status quo, a ciò che sembra dato per scontato, a ciò che sembra irremovibile, incontrovertibile, a ciò che sembra dato una volta per tutte solo perché mai nessuno ha osato interrogarlo, metterlo in dubbio, chiedersi il perché del suo essere dato. Occorre «pungolare il potere come un tafano», ha detto Bernini, disturbare il sistema di potere dal punto di vista di chi è oppresso, di chi patisce insopportabilmente il governo di questo potere su di sé, la sua identità e il suo corpo.
In filosofia politica non si finisce mai di discutere su cosa sia questo potere, di cosa sia il potere e cosa lo renda legittimo. Nella tradizione filosofica il potere è stato rappresentato tendenzialmente come il prodotto di un’azione collettiva dei soggetti (si veda Hobbes e il contrattualismo) che, una volta istituito agisce in maniera discendente, dall’alto verso il basso nella forma comando –obbedienza. Per Weber, uno dei massimi teorici del potere, “lo Stato” – che è esercita il potere – “è il monopolio legittimo della forza”. Anche qui il rapporto è verticale, il potere cala e agisce dall’alto.
Le teorie queer invece sono debitrici, come accennato precedentemente, del pensiero di Michel Foucault che oppone a una visione verticistica del potere, una visione orizzontale del potere. A dir la verità, Foucault non è stato il primo a proporre una diversa teoria del potere, rispetto a quella tradizionale: ad esempio, già il marxismo metteva in discussione il fatto che il potere venga esercitato esclusivamente attraverso la legge e le istituzioni, dato che secondo il filosofo tedesco, esistono rapporti di forza in altri ambiti oltre a quelli istituzionali (in primis quello dell’economia) in cui il potere si esercita; anche il femminismo da parte sua aveva sottoposto a dura critica quella struttura del potere che preesiste a un ipotetico patto sociale vale a dire il patriarcato.
Per Foucault il potere non è una figura verticale, non è il prodotto di un’istituzione che a sua volta deriva dal patto di volontà degli individui (come è nel contrattualismo), bensì circola nella società, è presente in ogni relazione umana e anziché essere prodotto è esso stesso produttore: produce soggettività. Il funzionamento sociale è un esempio del funzionamento di potere che educa i nostri corpi, li rende soggetti docili: c’è tutto un sistema, un funzionamento che plasma e condiziona i soggetti. La scuola, gli insegnanti, le università sono un classico esempio di sistema di potere ma non nella forma comando-obbedienza che schiaccia la volontà degli individui, ma con la complicità di questa volontà. Questo tipo di potere ha infatti bisogno della volontà e della libertà degli individui. Per Foucault, diversamente da Weber, il potere non è il grado zero della violenza, proprio perché necessita della libertà dei soggetti. Coarta la loro volontà, non i loro corpi, come nel caso della violenza o della forza fisica. È un’azione che si esercita su un’altra azione. Un’azione che produce e struttura le identità.
Anche l’identità sessuale è prodotto del potere. È il prodotto di norme sociali, di criteri di normalità e anormalità derivanti dalla medicina, la psichiatria, la psicanalisi, la psicologia, da convenzioni. Considerare le identità sessuali non come innate ma come complesse e complicate formazioni socio-culturali, come prodotto del potere è in qualche modo qualcosa di rivoluzionario. Noi non esistiamo prima dell’assunzione di un’identità sessuale e laddove questa identità sessuale non sia “chiara”, come nel caso dei corpi intersessuali, allora si ricorre alle pratiche – di una violenza terrificante – di normalizzazione. Noi non scegliamo di essere uomo o donna, ma siamo fin da subito inseriti in un mondo di significati che agiscono e plasmano il nostro essere sessuati, la nostra sessualità, che pertanto è un prodotto di dispositivi normativi e, nella nostra società, eteronormativi.
Che la sessualità sia un prodotto lo si evince, ad esempio, dalla storia dell’omosessualità: dalla pederastia nell’antica Grecia passando per la sodomia ritenuta un atto illegale come lo potevano essere molti altri fino a che l’omosessuale è stato tematizzato come una tipologia particolare dentro il genere umano, un tipo specifico, un personaggio e non più uno come tanti altri che commettono atti contrari alla legge: nell’ottocento l’omosessuale diviene “l’invertito”, “l’inversione rispetto alla parte maschile”. Pur tratteggiati solo brevemente questi sviluppi del modo di considerare l’omosessualità mostrano come essa sia costruita, prodotto di norme operanti sui corpi e sui soggetti. Stessa cosa dicasi della transessualità: quest’ultima fu tematizzata negli anni ’50 allorché inizia l’elaborazione di protocolli medici volti anche alla normalizzazione dei corpi intersessuali. Negli anni ’50 dunque gli “invertiti” si sdoppiano in omosessuali e in transessuali.
Il problema di questo sistema di categorie è la loro non neutralità: non si limitano a descrivere in maniera neutra, ma descrivono per dare regole, per pre-scrivere, per intervenire sui corpi, per imporre determinate prassi. Vengono dettata norme alla natura e quest’ultima non viene semplicemente concettualizzata ma strozzata dentro tematizzazioni che diventano norme, dispositivi di potere appunto.
Le norme non si limitano a imprimersi su di noi, “marchiandoci ed etichettandoci quali destinatari passivi di una cultura. Esse, piuttosto, ci «producono», ma non nel senso che ci danno vita, né nel senso che determinano rigidamente chi siamo. Piuttosto, queste norme informano le modalità vissute di incorporazione che acquisiamo nel corso del tempo; e queste forme di incorporazione possono rivelarsi modi per contestare o sovvertire le norme stesse”[2].
D’altronde, tengo a ripeterlo, descrivere è anche sempre normare e stabilire norme, anche laddove lo si faccia in buona fede. Ed è per questo che la sessualità è un dispositivo di potere, nato con intenzioni patologizzanti e miranti a tracciare una linea di discrimine tra normalità a a-normalità, a tracciare confini, producendo il binarismo normativo e l’eterosessualità obbligatoria. Infatti “Le categorie binarie non producono solo soggetti ma anche scarti categoriali, ibridi e nuove marginalità corporee: transessuali, transgender, travestiti e travestite, ermafroditi e androgini ecc…”[3].
Sono questi soggetti, questi soggetti che stanno ai bordi, gli outsider deleuziani, o i soggetti di mezzo, i “soggetti eccentrici” (Teresa De Laurentis), le identità liquide, fluide, identità marginali, gli scarti del sistema normativo di potere, dei dispositivi di sapere e potere che sono interesse cruciale delle teorie queer.
Consapevoli del fatto che, proprio perché si tratta di norme e dunque di costruzioni, di qualcosa di prodotto e non di naturale, di innato e irrevocabile, queste stesse norme si possono cambiare, allargando le maglie del potere, liberando i soggetti dalla sua presa così stringente e soffocante. Consapevoli che il genere lo riceviamo, che esso è un prodotto socio-culturale, ma “non è semplicemente iscritto sui nostri corpi, come fosse gesso sull’ardesia, come fossimo passivamente obbligati a portare un marchio. Ciò che siamo obbligati a fare, semmai, è recitare la parte di genere che ci è stata assegnata […]”. Per questo, proprio perché non è un marchio per sempre impresso, il genere, come ogni dispositivo di potere, come ogni prodotto del potere si può, butlerianamente parlando, “fare e disfare”.
Si possono ripensare quelle cornici normative che forniscono significati ai corpi, si può provare a lottare affinché quei significati e quelle norme cessino di agire sui nostri corpi e sulle nostre identità. La nostra realtà è purtroppo profondamente conservatrice e ancora non riesce a pensare il sesso se non partendo dalla radice eteronormativa, da norme che fanno prevalere l’eterosessualità sull’omosessualità o la bisessualità ad esempio. Tutti noi dobbiamo essere consapevoli dell’esistenza di queste norme che agiscono sui soggetti, sulla loro sessualità, sui loro corpi; dobbiamo essere consapevoli del funzionamento del potere: le norme sono un meccanismo in fondo necessario per renderci conoscibili e riconoscibili. Ma al contempo essere anche consapevoli della loro violenza, del loro potere di includere e di escludere, di rendere la vita di un individuo più o meno vivibile, più o meno degna.
Bisogna perciò opporre una resistenza ragionata, smascherando le falle presenti, da sempre, nel sistema, perché i corpi non sono solo maschili o femminili e di generi ce ne sono un’infinità. Dobbiamo accettare e rendere visibili le zone d’ombra, le zone grigie, stare sui bordi, stare nel mezzo e non soltanto da una parte all’altra di quella linea che ha diviso in due parti secche le identità sessuali, che ha spezzato in due il genere.
E, forse, oltre che opporre resistenza ai dispositivi di potere, al sistema di potere che produce le identità e le governa, bisogna provare, come direbbe (semplificando molto) Judith Butler, a esercitare piccole azioni che ridicolizzino il potere, che in qualche modo ne operino, anche fosse solo attraverso un gesto simbolico, la sovversione. Agire per dislocare il potere, spostando il modo in cui esso funziona, creando nuove soggettività, nuove identità, ma senza che questa creazione abbia mai una chiusura, affinché rimanga sempre aperta alla contingenza e al continuo moltiplicarsi di nuove identità non racchiudibili in un rigida opposizione binaria, in una limitante dualità.
“Nel sostenere che il genere fosse performativo ho voluto sostenere che esso consiste in un certo tipo di attuazione; che l’«apparizione» del genere viene spesso fraintesa quale segno di una verità interiore, o innata; che il genere è indotto da norme coercitive, le quali richiedono che si aderisca a un genere o all’altro (solitamente all’interno di una cornice rigidamente binaria); che la riproduzione del genere è dunque sempre una negoziazione con il potere; che, infine, non vi sarebbe genere al di fuori della riproduzione di quelle norme che, proprio nel corso della loro ripetizione, possono essere disfatte e rifatte in modi inattesi, aprendo così la possibilità di ricostruire la realtà del genere lungo nuove direttrici.
L’aspirazione politica di quest’analisi, e forse proprio il suo obiettivo normativo, è quella di contribuire a rendere le vite delle minoranze sessuali e di genere più possibili e più vivibili, perché i corpi non conformi alle norme di genere [gender nonconforming], al pari di quelli fin troppo conformi (e ad alto prezzo), siano in grado di respirare e di muoversi liberamente negli spazi sia pubblici sia privati, così come in quelle zone che intersecano e confondono il pubblico e il privato”.[4]
Immagine: Lili Elbe ritratta da Gerda Wegener (dettaglio), da Wikimedia Commons
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.